OFFICINA TEATRALE 2016/17
Vincenzo Di Bonaventura
Di MARTE-Dì
V.V. Majakovskij: BENE!
(Chorosciò!) 1927
Associazione
Culturale Blow Up
DEP ART Piazzale
Stazione FF SS - Grottammare
- 18 ottobre h 21.30
OLTRE IL
TEATRO
Stasera c’è anche la dolce Toffee bianca e miele. Inseparabile dal
suo Vincenzo, di Vladimir V. Majakovskij
sa tutto a memoria, educata e vispa scodinzola il giusto, si concede felice alle
coccole.
E ci sono i bravi musicisti Igor e Fabrizio, strumenti e ritmi gustosamente
accordati al linguaggio scenico del nostro attore-solista: abbiamo tutto il
meglio, in questa serata seconda della
trilogia su Majakovskij.
Pubblico
di soli aficionados, meno dei manzoniani venticinque; non istituzioni, non giornalisti,
non notabili e bellagente (“…che farsene
di quella ciurma / di chiacchieroni?” V.V.M.).
“Ci furono tempi di leggenda / ma sono
passati”: il poema Chorosciò (Bene!) precede di soli tre anni il suicidio (Il tempo è qualcosa d’insolitamente lungo); scrittura d’intervento
che lacera la trama stagnante di una società umiliata e offesa, che inchioda la
matita sui fogli perché “il fruscio delle
pagine sia come il fruscio delle bandiere sul fronte degli anni”.
Vincenzo non recita Majakovskij, lo vive.
Lo parla, lo suona, lo canta; lo balla perfino, con passi e movenze di lontane
danze folkloriche. E’ teatro oltre il
teatro.
E’ un
mondo contadino - quasi arcaico pur se solo del secolo scorso - quello che Vincenzo
narra prima di iniziare, ed è il suo, è terra d’Abruzzo. Dalla memoria …un filo s’addipana: il nonno e il suo “dialetto feroce”; a un angolo
della bocca il sempiterno sigaro che, asportato il tumore, è solo passato all’angolo
opposto; il gesto perentorio del bicchiere scosso dopo la bevuta, “come fanno i
russi”; il lavoro nei campi coi “vecchi Landini di una volta che sembrava non
avessero il motore”; il vomere trainato dalle spalle possenti dei buoi e il
brontolio soffice della terra rivoltata; “l’idea dell’aratro” assaporata da
ragazzo e non più ritrovata. (Ci vorrebbe più consapevolezza dei nostri padri e
delle nostre madri, dirà più tardi congedandosi).
E alla terra si rivolge Majakovskij, perché puoi dimenticare “il tempo e il luogo dove hai
messo su pancia e gozzo”, ma non puoi dimenticare “la terra con la quale hai
diviso la fame” (Siedono
i padri /con le barbe simili a scope: / ognuno di essi / è un saggio: un poco
ara la terra / e un poco scrive poesie).
Così, il ricordo si fa poesia e la poesia
ricordo: il mondo che pullula sanguigno nel filo che Vincenzo addipana è solo a noi più vicino, nel
tempo e nello spazio, di quell’altro che “asciuga il sudore con la manica” e
grida nei versi del poeta ribelle, e muto e febbrile irrompe in Ottobre,
“il film di Ėjzenštein sulla
Rivoluzione”.
Due giganti, il poeta e il cineasta, celebravano
i dieci anni della Rivoluzione, in
quel 1927 in cui essa era ancora promessa di vita e vita promessa (La felicità incalza / e non per voi
dovremo rinunciarvi. / Incantevole è la vita, / sorprendente):
non è ancora il tempo in cui per il poeta sarà “all’improvviso come se non ci
fosse nulla per cui vivere” e “alla fine quella pallottola [del suicidio già tentato]
andrà a segno” (Lili Brik).
Dietro,
sullo schermo, l’epico affresco di “Ottobre”:
rivoluzionario e violento, sarcastico e commovente, lirico e barocco. Mi sento trasparente – dice Vincenzo – e forse
è vero, perché la sua figura e la sua voce, la poesia, sono ora un imponente tutt’uno
con le immagini alle sue spalle e con la musica; questa dà voce alle mute scene
di massa, accompagna con ironico saltarello le divise del potere in marcia,
sottolinea il visionario sperimentalismo e le allegorie, le figure riprese dal
basso, quasi dal fango - “attori” reclutati sul posto - che giganteggiano pur
nella miseria dei corpi e dei volti allucinati.
E’ la stessa stralunata umanità che affolla
i versi di Majakovskij: umiliata nel
sopruso e nella fame; il pizzico di sale elemosinato – perché “è capodanno,
domani” – che s’è gelato tra le dita; il lutto sotto l’ondeggiare delle
bandiere abbrunate, il sangue degli uccisi ancora caldo; la febbre tifoidea su
Mosca mentre “sui boschi s’inerpica strisciando il sole-pidocchio”… Ma ora il Palazzo
d’Inverno è circondato, s’invadono i saloni di velluto, i maestosi
corridoi; Kerenskij fugge, fuggono i
ministri - profumo di barbe fatte di fresco – e cadranno come pere mature
nascosti sotto le cravatte, Fuori! / il
vostro tempo è finito, e ora sulla testa “il cielo azzurro-seta non è mai
stato così bello”.
Amo l'immensità
/ dei nostri piani, / lo slancio / dei loro passi chilometrici, e il “canto
dei nostri dolori, delle nostre vittorie, dei nostri giorni quotidiani” è
arrivato fin qui, oggi, oltre il tempo e la storia: e s’è fatto teatro, luogo
di tutti e voce che ci salva, spazio senza tempo di cultura e civiltà.
Sara Di Giuseppe
faxivostri.wordpress.com
letteraturamagazine.org
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