"...D'altro canto so che le guerre sono diventate intollerabili, e che
dopo questo conflitto con ancor maggiore fervore che dopo quello
precedente ci si sarebbe chiesti se ci sia il modo per evitarle. Però
credo che l'avvento della bomba atomica, e il fatto che si verrà a
sapere che non è troppo difficile da costruire, per cui, se lo si
vorrà, diventerà universale (non costituirà un onere troppo gravoso
per l'economia di qualunque nazione forte, ed il suo potere
distruttivo aumenterà, ed è anzi già incredibilmente maggiore di
qualsiasi altra arma), credo, dicevo, che tutte queste cose creeranno
una nuova situazione, talmente nuova che rischierà addirittura di
convincerci che abbiamo una motivazione in più per realizzare accordi
e concepire speranze che erano già in divenire prima di questa
invenzione.
Con ciò voglio dire che, sebbene mi faccia piacere sentir affermare
dai sostenitori di una federazione mondiale o di una Organizzazione
delle Nazioni Unite, i quali da anni parlano di queste cose, che ora
abbiamo una nuova motivazione, ritengo che siano un po' fuori strada,
in quanto il punto non è che le armi atomiche costituiscano una
motivazione.
Di buone motivazioni ce ne sono sempre state. Il punto è che le armi
atomiche costituiscono un nuovo ambito e una nuova opportunità di
creare dei presupposti indispensabili. Penso sia questo che si
dovrebbe intendere quando qualcuno sostiene che queste armi non sono
soltanto un grande pericolo ma anche una grande speranza. Non penso
che ci si dovrebbe riferire solo a al valore ancora sconosciuto,
sebbene certo, delle virtù industriali e scientifiche dell'energia
atomica, ma piuttosto al semplice fatto che in questo ambito, proprio
perché rappresenta una minaccia, un pericolo, e perché possiede certe
caratteristiche particolari sulle quali ritornerò in seguito, esiste
la possibilità di attuare, o di cominciare ad attuare, quei
cambiamenti che sono necessari per giungere alla pace.
Tali cambiamenti sono di ampissima portata. Essi riguardano i rapporti
tra le nazioni, non solo in termini di intenti e di leggi, ma anche di idee ed opinioni.
Non saprei dire quali di questi cambiamenti siano prioritari; devono
realizzarsi tutti insieme, e soltanto dalla graduale interazione
dell'uno con l'altro può scaturire una realtà. Non sono d'accordo con
chi sostiene che il primo passo debba essere la costituzione di una
struttura legislativa internazionale. E non sono d'accordo nemmeno con
chi sostiene che l'unica cosa importante sia essere animati da
intenzioni amichevoli. Sono necessaire tutte queste cose insieme.
Penso quindi che sia necessario un vero senso di
responsabilità collettiva. Non credo ci si possa aspettare che la
gente contribuisca alla risoluzione del problema finché non sarà
consapevole della propria capacità di prendervi parte".
(Julius Robert Oppenheimer, discorso alla Association of Los Alamos
Scientist, 2 novembre 1945).
Già 70 anni or sono Oppenheimer metteva in evidenza che la bomba
atomica non è di per sé una garanzia di pace, ma che la sua certa
proliferazione e il suo aumento di potenza avrebbero potuto costituire
uno stimolo alla crescita della riflessione sulla necessità della pace
e sulla vastità dei cambiamenti di mentalità che, ad ogni livello, la
società intera deve affrontare per ottenere un risultato.
La bomba costituisce un freno di fatto allo scontro tra le grandi
potenze fin dal 1949, quando su ordine di Josif Stalin l'Unione
Sovietica ne ruppe il monopolio, sicchè da quel momento divenne
effettivamente inutilizzabile, per impossibilità di garantire una
difesa, e questa condizione di stallo è poi ulteriormente aumentata in
conseguenza di vari fattori: la successiva proliferazione tra numerose
nazioni, l'aumento di potenza (agli inizi degli anni '60 l'Unione
Sovietica annunciò di essere ingradi di costruire una bomba da 100
kilotoni, e concretamente realizzo la "tsar" da 60, una potenza mai
vista prima) e la realizzazione dei missili atomici, fino ai balistici
intercontinentali.
Tutto questo pone una barriera limite alla guerra, e nessuno può osare
attaccare una nazione atomica.
Ma rimane irrisolto il problema delle numerose guerre coloniali e
regionali, che, come dimostra la storia concreta, sono ancora alla
portata delle potenze che vogliano intraprenderla.
Il cosiddetto "equilibrio del terrore" ha costituito, e costituisce
ancora, un deterrente efficace contro la possibilità di una nuova vera
e propria guerra mondiale, ma non basta certo a fermare la violenza
delle guerre locali attraverso le quali l'imperialismo cerca ancora
sfogo fin dove può.
Dunque, in ultima analisi, nonostante le iniziative formali, che si
rivestono anche di dignità legale internazionale, ciò che serve
davvero, e che ancora oggi non è sufficiente, è un coinvolgimento
della popolazione, dell'individuo comune, base fondante di ogni
consenso, esplicito o tacito che sia, a supporto delle politiche
nazionali.
"Non credo ci si possa aspettare che la gente contribuisca alla
risoluzione del problema finché non sarà consapevole della propria
capacità di prendervi parte", sottolinea Oppenheimer.
Ed è proprio questo il punto centrale del problema: il potere
costituito ha piena libertà di azione laddove vi sia il disinteresse
della popolazione. La quale, invece, se sia consapevole della propria
reale importanza e necessità, se sia cosciente di essere il supporto
indispensabile di tale potere, attraverso la scelta tra obbedienza e
accettazione oppure il , può esercitare la propria azione e la propria
influenza determinante, invece che subire passivamente il corso degli
.
Non sono i politici nè i mass media e nemmeno i cosiddetti "poteri
forti" (la cui unica forza è quella loro concessa dalla massa, e
niente altro) le figure capaci di decidere i nostri destini, qualora
la popolazione consapevole tali destini prenda invece nelle proprie
mani.
E la necessità di una politica di pace che estrometta tutti gli
artefici delle guerre che insanguinano il pianeta (anche in Europa:
Jugoslavia e Ucraina sono Europa, a poca distanza da noi) può emergere
solo dalla coscienza popolare attiva espressa apertamente.
Ogni giorno è un giorno buono per riprendere ovunque il discorso
invocato 70 anni fa da Oppenheimer. Per una politica di pace,
coesistenza e cooperazione tra i popoli, a cominciare da una
iniziativa di riconversione a produzione civile delle industrie
belliche (che sono eccedenti) e un blocco delle esportazioni di
armamenti (che ne dimostrano la eccedenza).
Tocca proprio agli italiani gran parte di questo lavoro politico
civile, poiché è proprio l'Italia uno dei maggiori esportatori
planetari di armamenti, e quindi di generazione di guerre.
Gli italiani devono esigere attivamente una riconversione industriale
pacifista, cominciando naturalmente con la esclusione assoluta dal
voto di ogni forza politica che sia stata coinvolta nelle sanguinarie
operazioni belliche degli ultimi 25 anni coloniali Nato.
Come sempre, ancora, la precondizione originale è "Non un uomo, non un
soldo, non un voto, non un appoggio alla infame partitocrazia
secondorepubblichina di guerra e rapina contro i popoli, senza se nè
ma o però".
Dal rifiuto attivo della guerra e dei suoi strumenti, materiali e
politici, può sorgere la prospettiva di una era di pace.
Qualora le popolazioni consapevoli, a cominciare dalla nostra, lo
vogliano davvero.
Il dibattito è aperto.
Sarvamangalam (Vincenzo Zamboni)
Shanti Om.
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