giovedì 18 ottobre 2012

Diario del Sottosuolo ed era tecnologica. L'uomo biologico equivale a mollusco?




Ieri mattina, aprendo come al solito il pc in ufficio e iniziando la giornata svogliato e demotivato aprendo Google News per leggere le ultime tristi novità, mi è subito saltato d'occhio la notizia di sto tipo che ha superato la barriera del suono gettandosi da 39.000m a 1300km/h. E da qui è nata questa riflessione.

Abbiamo inventato di tutto e creato i gingilli più astrusi e più inutili, i mezzi più efficaci per cavarci totalmente dalla fatica e dall'impotenza. Ma in cambio di cosa? Si è davvero risolto il male che la tecnologia si era prefissata di allontanare? E soprattutto, era davvero quello il modo per migliorare le condizioni di vita dell'uomo?

L'attualità ne dimostra l'evidente fallimento, anzi, probabilmente non ha fatto che aumentare il divario già esistente tra gli uomini. 

L'infelicità è rimasta - se non aumentata -, la povertà pure e i problemi altrettanto, visto che chiunque sia in possesso di un mezzo tecnologico sofisticato sa benissimo la quantità di tempo e di denaro necessari per l'uso. Per cui attenzione, la tecnologia di per sé è solamente uno strumento come tanti altri (e quindi ecco la posizione strumentalista), ma per il corso della sua evoluzione e per la fusione profonda che ha avuto con la nostra cultura (almeno di tipo occidentale, visto che nei paesi più poveri il discorso è diverso), non si può non vedere la tecnica come causa diretta di certe conseguenze sulla realtà e sulle persone (per cui ecco anche la posizione deterministica). 

In un certo senso trovo che la formulazione del problema sia mal posto: oramai visti la società e l'uomo dal punto di vista fenomenico, ossia di come appare dall'esterno, uomo e tecnica sembrano diventare la stessa medesima cosa. Coesi come in una soluzione in cui non si riesce più a distinguere i due elementi originari. Per cui trovo che ogni buon sociologo debba fare i conti con questa nuova creatura mezza umana e mezza artificiale, se vuole avere ben chiaro il protagonista del nostro secolo.

Quello che mi dà più da pensare è invece il significato concettuale di per sé della tecnica in relazione all'esistenza umana e come essa può porsi nella semplice quotidianità. Siamo davvero sicuri che la comodità e la fuga da qualsiasi forma di attività pratica o manuale sia davvero così benefica per l'uomo? E' davvero sensato fornire i mezzi di comunicazione più potenti ed efficienti a chi oramai non conosce più il messaggio da comunicare? Questi mezzi sono davvero il prolungamento delle capacità umane o rappresentano la solita trovata commerciale atta a creare bisogni fittizi?

E' inopinabile elogiare la tecnica nelle sue trovate più importanti e salvifiche durante il corso della storia umana, ma forse oggi essa si è imputtanita a tal punto da aver viziato un uomo che non è più nemmeno capace delle più semplici azioni, dato che oramai la tecnologia l'ha completamente sostituito in ogni compito. Ma è davvero corretto togliere all'uomo ciò che è stato parte della sua evoluzione per duecentomila anni e d'improvviso schiaffarlo in un ufficio davanti al computer per metà della giornata?  

Relegarlo a premere dei pulsanti o a vigilare una macchina senza più sapere nulla dell'attività stessa? Separarlo da quello che è stato il suo habitat, la natura, e rinchiuderlo dentro una prigione invisibile fatta di quattro mura ove però tutto può essergli a portata di mano attraverso un telecomando?  Mai come ora l'essere umano è stato così inetto e lontano dal saper fare qualcosa di "pratico". Colpa della tecnologia? Ovviamente no, ma è evidente che qualcosa gli è sfuggito di mano e non tutto di questo progresso è stato disciplinato, adattato, meditato e soprattutto, voluto.

Personalmente trovo che nel "lavoro" vi sia un valore che vada al di là della conoscenza stessa che può avere l'uomo di esso e che sia legato indissolubilmente ad un lungo percorso evolutivo tal per cui non si può che andare incontro ad una "deformazione" se ora l'uomo ha assunto l'immagine di un porco a causa di uno stile di vita completamente statico in cui l'attività stessa viene simulata pateticamente in palestra o facendo jogging; se si priva di qualsiasi attività fisica pensando che solo quella intellettuale sia "salutare"; se crede davvero che utilizzando mezzi ipertecnologici egli sia in grado di amplificare le sue abilità e il potere dei suoi messaggi, come se fosse la forma a dare senso al contenuto. Semmai il contrario. 

L'uomo d'oggi è un mollusco acculturato sostenuto solamente dal merito di macchine che però si inceppano, che a volte non funzionano e che tutt'altro gli forniscono della "felicità" promessa. E su queste macchine egli basa la sua forza. Invece che su se stesso. E allora se tutto ciò venisse meno e d'improvviso si trovasse scoperto come fu tanti anni fa e non avesse più nulla di ciò che possiede, allora emergerebbero la sua inettitudine, il suo inesistente valore, la sua totale inermità. 

Questo deve far pensare, soprattutto in relazione ai "mali" dell'uomo contemporaneo, quali l'ansia o la depressione. Che non siano per l'appunto mali del tempo e non della stessa natura umana come sostiene la psichiatria.

Tutto ciò mi ricorda molto mio nonno che dopo 50 anni di agricoltura "manuale" e facendo sempre biologico senza saperlo - dato che non esisteva ancora  la definizione di "biologico" contrapposta a quella di "tradizionale" -, quando scoppiò il boom dell'utilizzo di diserbanti, pesticidi e di tutte quelle super macchine agricole aratrici, falciatrici, e tutti i "trici" immaginabili, li rifiutò di netto anche se aveva oltre 3 ettari da coltivare di ortivo e con l'utilizzo di tutte queste tecnologie avrebbe potuto benissimo limitarsi a guardare il campo dalla sua sedia a dondolo. 

Eppure diceva che usare una di quelle era come violentare la terra, che se poi avesse iniziato ad utilizzarle avrebbe perso il senso del lavorare la terra e del piacere di farlo, che poi dopo, invece che alla terra avrebbe impiegato tutto il tempo a riparare le macchine e a bestemmiare per la loro complessità infernale. E soprattutto che se tutti avessero ceduto alla seduzione del "vedere solo senza fare quasi niente per avere di più", poi dopo l'agricoltore si sarebbe trasformato in un imprenditore spietato di cui la tecnica e non più e le sue conoscenze e la sua arte, ne avrebbero decretato qualità e successo. 

E che così, anche la natura - gli ortaggi - sarebbe diventata semplice merce di scambio, solo una fonte di guadagno dove valore, tradizione e salubrità sarebbero venuti meno, il mero soldo a scapito della qualità in una situazione di miseria e sopravvivenza in cui la figura del contadino sarebbe divenuta quella dello schiavo delle leggi del mercato. 

Ahimè, il nonno aveva avuto ragione.

Stefano Andreoli - Diario del Sottosuolo


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