Ieri
mattina, aprendo come al solito il pc in ufficio e iniziando la
giornata svogliato e demotivato aprendo Google News per leggere le
ultime tristi novità, mi è subito saltato d'occhio la notizia di
sto tipo che ha superato la barriera del suono gettandosi da 39.000m
a 1300km/h. E da qui è nata questa riflessione.
Abbiamo
inventato di tutto e creato i gingilli più astrusi e più inutili, i
mezzi più efficaci per cavarci totalmente dalla fatica e
dall'impotenza. Ma in cambio di cosa? Si è davvero risolto il male
che la tecnologia si era prefissata di allontanare? E soprattutto,
era davvero quello il modo per migliorare le condizioni di vita
dell'uomo?
L'attualità
ne dimostra l'evidente fallimento, anzi, probabilmente non ha fatto
che aumentare il divario già esistente tra gli uomini.
L'infelicità
è rimasta - se non aumentata -, la povertà pure e i problemi
altrettanto, visto che chiunque sia in possesso di un mezzo
tecnologico sofisticato sa benissimo la quantità di tempo e di
denaro necessari per l'uso. Per cui attenzione, la tecnologia di per
sé è solamente uno strumento come tanti altri (e quindi ecco la
posizione strumentalista), ma per il corso della sua evoluzione e per
la fusione profonda che ha avuto con la nostra cultura (almeno di
tipo occidentale, visto che nei paesi più poveri il discorso è
diverso), non si può non vedere la tecnica come causa diretta di
certe conseguenze sulla realtà e sulle persone (per cui ecco anche
la posizione deterministica).
In un certo senso trovo che la
formulazione del problema sia mal posto: oramai visti la società e
l'uomo dal punto di vista fenomenico, ossia di come appare
dall'esterno, uomo e tecnica sembrano diventare la stessa medesima
cosa. Coesi come in una soluzione in cui non si riesce più a
distinguere i due elementi originari. Per cui trovo che ogni buon
sociologo debba fare i conti con questa nuova creatura mezza umana e
mezza artificiale, se vuole avere ben chiaro il protagonista del
nostro secolo.
Quello
che mi dà più da pensare è invece il significato concettuale di
per sé della tecnica in relazione all'esistenza umana e come essa
può porsi nella semplice quotidianità. Siamo davvero sicuri che la
comodità e la fuga da qualsiasi forma di attività pratica o manuale
sia davvero così benefica per l'uomo? E' davvero sensato fornire i
mezzi di comunicazione più potenti ed efficienti a chi oramai non
conosce più il messaggio da comunicare? Questi mezzi sono davvero il
prolungamento delle capacità umane o rappresentano la solita trovata
commerciale atta a creare bisogni fittizi?
E'
inopinabile elogiare la tecnica nelle sue trovate più importanti e
salvifiche durante il corso della storia umana, ma forse oggi essa si
è imputtanita a tal punto da aver viziato un uomo che non è più
nemmeno capace delle più semplici azioni, dato che oramai la
tecnologia l'ha completamente sostituito in ogni compito. Ma è
davvero corretto togliere all'uomo ciò che è stato parte della sua
evoluzione per duecentomila anni e d'improvviso schiaffarlo in un
ufficio davanti al computer per metà della giornata?
Relegarlo
a premere dei pulsanti o a vigilare una macchina senza più sapere
nulla dell'attività stessa? Separarlo da quello che è stato il suo
habitat, la natura, e rinchiuderlo dentro una prigione invisibile
fatta di quattro mura ove però tutto può essergli a portata di mano
attraverso un telecomando? Mai come ora l'essere umano è stato
così inetto e lontano dal saper fare qualcosa di "pratico".
Colpa della tecnologia? Ovviamente no, ma è evidente che qualcosa
gli è sfuggito di mano e non tutto di questo progresso è stato
disciplinato, adattato, meditato e soprattutto, voluto.
Personalmente
trovo che nel "lavoro" vi sia un valore che vada
al di là della conoscenza stessa che può avere l'uomo di esso e che
sia legato indissolubilmente ad un lungo percorso evolutivo tal per
cui non si può che andare incontro ad una "deformazione"
se ora l'uomo ha assunto l'immagine di un porco a causa di uno stile
di vita completamente statico in cui l'attività stessa viene
simulata pateticamente in palestra o facendo jogging; se si priva di
qualsiasi attività fisica pensando che solo quella intellettuale sia
"salutare"; se crede davvero che utilizzando mezzi
ipertecnologici egli sia in grado di amplificare le sue abilità e il
potere dei suoi messaggi, come se fosse la forma a dare senso al
contenuto. Semmai il contrario.
L'uomo d'oggi è un mollusco
acculturato sostenuto solamente dal merito di macchine che però si
inceppano, che a volte non funzionano e che tutt'altro gli forniscono
della "felicità" promessa. E su queste macchine egli basa
la sua forza. Invece che su se stesso. E allora se tutto ciò venisse
meno e d'improvviso si trovasse scoperto come fu tanti anni fa e non
avesse più nulla di ciò che possiede, allora emergerebbero la sua
inettitudine, il suo inesistente valore, la sua totale inermità.
Questo deve far pensare, soprattutto in relazione ai "mali"
dell'uomo contemporaneo, quali l'ansia o la depressione. Che non
siano per l'appunto mali del tempo e non della stessa natura
umana come sostiene la psichiatria.
Tutto
ciò mi ricorda molto mio nonno che dopo 50 anni di agricoltura
"manuale" e facendo sempre biologico senza saperlo - dato
che non esisteva ancora la definizione di "biologico"
contrapposta a quella di "tradizionale" -, quando scoppiò
il boom dell'utilizzo di diserbanti, pesticidi e di tutte quelle
super macchine agricole aratrici, falciatrici, e tutti i "trici"
immaginabili, li rifiutò di netto anche se aveva oltre 3 ettari da
coltivare di ortivo e con l'utilizzo di tutte queste tecnologie
avrebbe potuto benissimo limitarsi a guardare il campo dalla sua
sedia a dondolo.
Eppure diceva che usare una di quelle era come
violentare la terra, che se poi avesse iniziato ad utilizzarle
avrebbe perso il senso del lavorare la terra e del piacere di farlo,
che poi dopo, invece che alla terra avrebbe impiegato tutto il tempo
a riparare le macchine e a bestemmiare per la loro complessità
infernale. E soprattutto che se tutti avessero ceduto alla seduzione
del "vedere solo senza fare quasi niente per avere di più",
poi dopo l'agricoltore si sarebbe trasformato in un imprenditore
spietato di cui la tecnica e non più e le sue conoscenze e la sua
arte, ne avrebbero decretato qualità e successo.
E che così, anche
la natura - gli ortaggi - sarebbe diventata semplice merce di
scambio, solo una fonte di guadagno dove valore, tradizione e
salubrità sarebbero venuti meno, il mero soldo a scapito della
qualità in una situazione di miseria e sopravvivenza in cui la
figura del contadino sarebbe divenuta quella dello schiavo delle
leggi del mercato.
Ahimè, il nonno aveva avuto ragione.
Stefano Andreoli - Diario del Sottosuolo
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