martedì 18 giugno 2013

"Reddito si, ma da lavoro" di Giorgio Lunghini




Reddito si, ma da lavoro di Giorgio Lunghini

La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va
cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e
mercantile della società.

L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito
da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far
aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione,
lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti

Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam
Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno
è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose
necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e
efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una
Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul
lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre
forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che
coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione
necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche
sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si
aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:

Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della
democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia
economica presuppone la massima occupazione possibile e una
distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua,
allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito
costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i
lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte
dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente
all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del
salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di
riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di
cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione
dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne
aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione,
favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei
bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica
presuppone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui
si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro;
tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di
salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da
parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano
soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la
redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una
prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente
praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di
competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga
durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di
lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso
aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa
diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della
produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione
dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di
produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi,
di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque
presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione
economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione.
L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di
licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di
stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra
occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno
della fabbrica e sul mercato del lavoro.

Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al
rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una
umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti.
La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono
soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo
arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non
si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori
servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia
dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La
soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata
altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della
società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e
prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal
capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e
della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo
dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti,
dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del
profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti,
cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si
piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non
sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna
una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del
lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in
essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi
lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme
a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di
ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione
al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori
destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che
non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare
i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come
ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi
tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più
importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da
inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui
privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del
raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti
nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato
nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro
improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al
soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori
immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali
assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma
nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno
dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle
persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati
del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a
bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle
tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia
sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni
sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma
nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali,
i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben
precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e
controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata
dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza
internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto
che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti
dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro
salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero
un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici.
Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un
arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a
soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a
migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di
scambio prodotti dal lavoro astratto.

Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse
provvedere all’eutanasia delrentier, e alla costituzionale
progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di
questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si
tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà
nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società
prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni
tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere
nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un
discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e
all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile.
L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili
forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare,
rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà.
L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica,
riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di
disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica
in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale
di produzione e riproduzione.

Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non
tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile
di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli,
finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.


Postilla

Non sono un economista e ho la massima stima per Giorgio Lunghini. Ma
il suo interessante scritto(che in grandissima parte condivido)
suscita in me un dubbio. Egli afferma che «la soluzione di questo
problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori
della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi
coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di
nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di
occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella
quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un
lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante
attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto».
Concordo pienamente nel ritenere con Lunghini che la soluzione del
problema del lavoro va cercata «al di fuori della dimensione
capitalistica». Mi domando però (e sarei lieto di poter chiedere a
Lunghini) se questo debba invece significare anche – come mi sembra
che egli ritenga – cercare al di fuori della dimensione stessa
dell’economia, oppure che di possa, e quindi si debba, cercare una
diversa economia, superiore a quella del capitalismo così come questo
è stato superiore alle altre forme di economia: un’economia che non
polarizzi la sua attenzione sul valore di scambio, ma sulil valore
d’uso (rinvio una pagina in cui ho cercato di esprimere con maggiore
ampiezza il mio pensiero in proposito. Mi sembra che in questa
direzione andassero il pensiero e la volontà di un comune maestro,
Claudio Napoleoni (e.s.)

Sbilanciamoci.info

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