Strana la vita di noi “italiani”. Alcuni si esaltano è vedono Italia dappertutto, altri si sottopongono ad un tour de force per dimostrare che l’Italia è poco più che un’italietta.
Il problema è che si potrebbero definire tante Italie diverse, a partire dalla definizione dei rapporti tra Stato, Nazione, Cultura e Territorio.
Come Stato, l’Italia risale al 1861; possiamo ascrivere all’Italia-stato tutti i meriti e i demeriti che vogliamo a partire da quell’anno. Come Territorio, i geografi concordano nel ritenere che l’Italia sia quella porzione di terra peninsulare e insulare che si dilunga nel Mediterraneo a partire dall’arco alpino.
Più interessante il discorso sulla “Nazione”, che in genere va al di là dei primi due concetti perché vi si innesta una forma di autoidentificazione che passa attraverso la cultura. La cultura è un insieme coerente di risposte intellettuali, morali e materiali a problemi considerati comuni da parte di un gruppo più o meno vasto di persone che vi si riconosce.
In tal caso una cultura esplicitamente “italiana”, quindi una nazione “italiana”, probabilmente si ritrova già a partire dal Rinascimento e si evolve e si fortifica nei secoli successivi, fino ad esplodere - certamente non improvvisa - al tempo del Risorgimento. Tralascio invece l’idea di una identificazione su base etnica, perché nessun paese vasto presenta una unica origine etnica, figurarsi l’Italia che è stata terra di immigrazioni fin dai tempi dei villanoviani.
Il concetto di cultura ci spinge a valutare anche quello di “italicità”, già espresso su questo giornale da Umberto Laurenti; concetto complesso che indicherebbe una serie di valori e di modelli culturali riconducibili ad una cultura definibile come “italica” se non “italiana” in senso stretto, che genera sentimenti di appartenenza o di vicinanza anche presso gruppi e persone sparse per il mondo. Per esserci, questa “italicità” deve fare riferimento a qualcosa “in comune” e “identificabile” al di là di certe sottigliezze storiche e soprattutto geografiche, in specie al tempo della globalizzazione.
Sulla base di queste considerazioni, sorge la domanda: possiamo ascrivere all’Italia in senso stretto la civiltà romana, il Rinascimento o le imprese di Colombo e di Vespucci?
La risposta credo che debba essere affermativa perché, al di là di certi formalismi, quel che conta è il generarsi in continuità storica di una cultura, cioè di un complesso di valori, di mentalità, di scelte, soluzioni, invenzioni, applicazioni, creazioni, riconducibili ad un territorio prevalente e associato all’uso di una lingua comune. E questo complesso geografico, storico, culturale e indispensabilmente linguistico crea una “nazione”.
La risposta credo che debba essere affermativa perché, al di là di certi formalismi, quel che conta è il generarsi in continuità storica di una cultura, cioè di un complesso di valori, di mentalità, di scelte, soluzioni, invenzioni, applicazioni, creazioni, riconducibili ad un territorio prevalente e associato all’uso di una lingua comune. E questo complesso geografico, storico, culturale e indispensabilmente linguistico crea una “nazione”.
Qualcuno ha messo in dubbio che esistano le “nazioni”, forse per un comprensibile rigurgito politicamente corretto contro l’uso distorto di questo concetto nel XX secolo, ma è un fatto che esse esistano e siano tuttora identificabili, nonostante i processi di standardizzazione indotti dalla globalizzazione. D’altronde lo stesso politicamente corretto insiste giustamente sul rispetto dei diritti e delle peculiarità culturali delle “nazioni” dei nativi americani.
L’Italia, ancorché attraversata da latini, greci e bizantini, goti, franchi, arabi, mongoli e levantini, a partire dal IX secolo sviluppa una lingua comune e una progressiva sensazione di comune appartenenza storica. Insomma solo una battuta di Radetzky - pare neppure del tutto vera – può far pensare all’Italia come ad una mera espressione geografica, fino al 1861, e dopo questa data ad un semplice stato sovrano delimitato da confini politici.
Se pensiamo all’Italia come ad un insieme di territorio, cultura, lingua e storia, non si può negare allora il fatto che una Italia come “nazione” esiste da almeno duemila anni.
Anzi, anche oltre. Perché è vero, il vino nasce in Asia, ma già in antico parlando di vino si guardava alla penisola e il suo nome è di origine etrusca;
la democrazia non è nata in Italia, ma il diritto è di origine romana e italica;
è vero, tanti “antichi romani” in realtà erano nati in tutta Europa, ma è a Roma e alle sue tradizioni schiettamente italiche che guardavano;
il Rinascimento sboccia nelle città signorili, ma parla una sola lingua;
il liberalismo è una invenzione franco-inglese del settecento, ma non ci sarebbe stato senza l’ideologia delle dignità e delle responsabilità individuale del Cristianesimo, così come è stata declinata in Italia dal XIII secolo e solo dopo da Lutero;
la navigazione è fenicia e greco-cretese, ma sono state la romanizzazione prima e le repubbliche marinare italiane poi a far esplodere i traffici commerciali internazionali (la lega anseatica viene dopo).
Colombo è stato uno “spagnolo”, ma la sua sete di conoscenza nasce dalla cultura umanistica e rinascimentale italiana o italica che sia, quella votata alla scoperta, alla creatività, quella dell’homo vitruviano di Leonardo, forse innescata proprio dalle divisioni politico-geografiche della penisola.
Insomma un’Italia c’è e c’era prima. I viaggiatori del Gran Tour lo sapevano bene e ben lo sapevano anche i collezionisti, i mercanti e i predatori di opere d’arte che hanno riempito i musei di Parigi, Londra, Vienna, Leningrado o New York. Lo sanno i turisti che vengono a visitare Roma, Firenze, Venezia, Milano o Napoli. Lo sanno coloro che individuano ancora oggi in tanti prodotti di gamma alta – nella moda, nella tecnologia, nell’enogastronomia - la raffinatezza e la creatività proprie della cultura italiana.
Non lo dico per spirito nazionalistico, quello lo si può riservare agli spalti degli stadi e semmai è materia per sovranisti in servizio permanente effettivo; e non lo dico neppure con la passione forse istintiva, forse ingenua, forse eccessiva di qualche ragazza italiana. Lo dico alla luce di quel concetto di “cultura” di cui si è detto, che è fondamentale per comprendere i fenomeni storici e sociali.
Altro è il discorso su come noi proteggiamo e valorizziamo il nostro patrimonio artistico, storico e culturale. Su questo, qualche riserva è giusto avanzarla; forse dipende dal fatto che quando si possiedono tanti beni, ci si abitua e si perde il senso vero del loro valore. Càpita anche in famiglia, magari con i biscotti; e ci sta capitando oggi, che riscopriamo il valore di una stretta di mano o di un abbraccio.
Peraltro, anche se i beni culturali e artistici dell’Italia oggi rappresentassero “soltanto” il trenta per cento del totale, questa cifra avrebbe un valore meramente quantitativo, calcolato a partire da criteri complessi e talvolta discutibili. Se guardiamo al sodo, alla loro qualità intrinseca per il progresso umano, i prodotti della cultura e dell’arte italiana o italica hanno certamente un peso maggiore.
Un’ultima notazione, sempre a proposito di prodotti identificativi di una “cultura”.
Ho girato il Mediterraneo in lungo e in largo e ne ho studiato la storia anche dal punto di vista del suo sviluppo culturale. Qualcuno ha scritto che la “pizza”, quella che conosciamo noi e il resto del mondo, è un vago prodotto mediterraneo: mi sembra un'affermazione – questa sì - un tantino qualunquista, un po’ azzardata e persino autolesionista.
Perché al di là del fatto che ovunque sul pianeta possa essere stata ideata una forma schiacciata di acqua, farina e lievito (penso ad esempio all’area indo-persiana, già quattro millenni orsono), quella conosciuta in tutto il mondo come “pizza” è del tutto italiana, nasce a Napoli tra XVI e XVII secolo, con la diffusione europea del pomodoro, e si definisce nei canoni fondamentali odierni a partire dal 1889 con la Pizza Margherita, intitolata così da un cuoco napoletano in onore della Regina d’Italia.
Con buona pace di quel boy di Pittsburgh che credeva che la pizza fosse un tipico “american food”…
Francesco Mattioli, sociologo
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