Come mai nel pieno della crisi sistemica più spaventosa dalla fine del secondo conflitto bellico, 27 paesi su 28 dell’Unione Europea rinunciano ad un piano massiccio di investimenti della Cina, 10 volte il piano Marshall?
Questo fatto di cronaca internazionale apparso solo marginalmente sui media ufficiali, è in realtà di cardinale importanza per il nostro futuro, ed è un chiaro indicatore del grave stato di crisi geopolitica che viviamo nei nostri giorni.
Il massiccio piano d’investimenti suddetto, è la “Nuova Via della Seta”, anche noto come “one Road One Bealt”, lanciato dal presidente cinese Xi Jimping nel 2013. Il progetto è già partito da 5 anni e secondo i piani cinesi, quando sarà completato (nel 2049), abbraccerà oltre 60 paesi, che già ora si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello cinese. La Nuova via della Seta sarà composta da tre percorsi distinti:
1. una delle vie terrestri parte da Xi’an (la prima delle quattro antiche capitali Cinesi), città situata nel centro del paese, e si snoda attraverso il centro dell’Asia, ossia attraverso Kazakhistan, Russia (Mosca) e dirigendosi infine nel Mar Baltico;
2. Da Xi’an inizia un secondo percorso terrestre che attraversa il Medio Oriente, nello specifico Islamabad (Pakistan), Teheran (Iran), Istanbul (Turchia);
3. Infine una terza via parte da Kunming a attraversa il sudest asiatico, attraverso paesi quali Thailandia e Myanmar,
Il progetto “One Belt One Road” prevede 900 progetti di nuove infrastrutture, quasi 1000 miliardi di investimenti, $780 miliardi generati dagli interscambi con i 60 paesi coinvolti, 200mila nuovi posti di lavoro. Il progetto in totale coinvolgerà circa 4,4 miliardi di persone, ossia circa il 63% della popolazione mondiale, e il 30% del PIL mondiale, 35% degli scambi commerciali internazionali.
Il nostro paese avrebbe un ruolo di primo piano in questo progetto perché la prima via terrestre delle tre, arriverebbe sino al porto di Venezia e Trieste con una riabilitazione a porto di prim’ordine anche per Genova, cambiando gli assetti economici interni all’Europa. Oggi, infatti, esiste una via marittima che da Shangai arriva sino ad Amburgo; con la costruzione di una nuova via terrestre, le merci cinesi potrebbero arrivare direttamente in Italia (e da qui diffondersi nel resto d’Europa), permettendo di risparmiare 2.000 miglia, con un vantaggio di ben 8 giorni di navigazione abbandonando il porto di Amburgo. Le opportunità commerciali per i porti italiani sono ingenti: secondo lo Shanghai Shipping Institute, il traffico di merci movimentato dai porti cinesi raddoppierà entro il 2030.
Il progetto è già in atto; già oggi i cinesi controllano il porto greco del Pireo, avendo acquistato oltre il 60% delle sue azioni nel 2016 attraverso la cinese Cosco. Il 90% dei traffici tra Cina ed Europa passa lungo la Via della Seta marittima. Un terzo del volume mondiale di container transita attraverso i porti della Cina, che detiene i due terzi dei maggiori porti mondiali. Stando ai dati elaborati da Deloitte, la Cina nel 2016 ha investito 20 miliardi di dollari nei porti stranieri, il doppio rispetto al 2015. Risultato? I cinesi partecipano alla gestione di circa 80 porti in tutto il mondo.
Infine, per la realizzazione di questo mastodontico progetto sono stati creati già due enti: il Silk Road Fund del valore di 40 mld di dollari creato nel 2014 e l’Asian Infrastructure Investment Bank, che già conta di 100 mld di dollari, attivato nel 2016.
Di fronte a queste opportunità, recentemente ventisette dei ventotto ambasciatori dei Paesi dell’Unione Europea a Pechino hanno lanciato, in un rapporto ufficiale, una dura critica all’iniziativa di sviluppo infrastrutturale euro-asiatica “Belt on Road”, perché “va contro l’agenda di liberalizzazioni del commercio dell’Unione Europea e spinge gli equilibri di potere in favore delle aziende cinesi che godono di sussidi”. Gli ambasciatori europei sostengono, conclude il report, che la Cina intenda modellare la globalizzazione in base ai propri interessi.
Ora, credevamo forse che fino a ieri la globalizzazione fosse stata un processo automatico e guidato da nessuno? La realtà è che finché la globalizzazione era modellata sugli interessi dell’Occidente nessuno aveva nulla da obiettare; ora che invece si affacciano sulla scena globale nuovi paesi che potrebbero soffiar via il primato agli USA, si grida allo scandalo.
Tutta questa vicenda smaschera la grande contraddizione di una parte di mondo legata a un modello di governo unipolare (USA) in un contesto di progressiva affermazione di un mondo multipolare. Tutto lo sconquasso internazionale di questo periodo, le sanzioni, le minacce, le spese in armamenti, le esercitazioni militari su larga scala (operazione Tridente 2015), sono il riflesso del declino del mondo unipolare a guida americana. Gli USA non vogliono perdere il primato mondiale perché sanno che altrimenti le loro classi dirigenti, quella borghesia arricchita che conta tra il 15-10% della popolazione più benestante, dovrebbero ridimensionare il proprio stile di vita.
Poiché gli USA sono la potenza economica mondiale, dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno imposto l’uso del dollaro come valuta di scambio internazionale per i commerci. Il vantaggio per loro, è il privilegio di signoraggio. Rapidamente, poiché tutti i paesi del mondo usano i dollari per scambiarsi beni, la domanda di dollari è molto alta; il valore del dollaro allora si mantiene alto; con una valuta forte possono importare beni dal resto del mondo a costi molto bassi. Si calcola che per ogni 100$ stampati dalla FED, il privilegio di signoraggio permetta agli USA di acquistare dall’estero beni e servizi per il valore di 70$.
A questo si deve aggiungere che negli ultimi 2 decenni gli USA si sono deindustrializzati perdendo oltre 44.000 grandi fabbriche da 500 a 1000 operai, delocalizzate nei paesi del terzo mondo o PVS (attraverso i trattati di partenariato economico internazionale come TPP, CETA, NAFTA, ex-TTIP), perdendo un quarto della produzione manifatturiera interna. Il deficit commerciale americano ha superato da anni i 750 miliardi di dollari, un record assoluto nella storia moderna. Contestualmente, c’è stata un’espansione della finanza speculativa enorme, sostenuta dalle politiche accomodanti della FED. Con i profitti della finanza, si comprano i beni manifatturieri dai paesi poveri, e il tutto solo grazie alla forza del dollaro; se però il valore del dollaro crollasse, gli USA non riuscirebbero più ad importare così tante merci e al contempo si troverebbero un paese deindustrializzato; le conseguenze sarebbero catastrofiche. Colpisci il dollaro, colpisci l’Impero.
Il problema è che negli ultimi 4 anni l’economia mondiale si sta de-dollarizzando. La forza del dollaro è imperniata su tre elementi: uso di dollari da parte degli altri paesi del mondo come riserva di valore (che garantisce il continuo acquisto di buoni del tesoro americano da parte di cittadini e governi stranieri); uso del dollaro per gli scambi internazionali di materie prime; paesi dollarizzati/che agganciano la propria valuta al dollaro. Di questi ultimi restano soltanto l’Ecuador e El Salvador, anche se stanno già parlando di dollarizzare il Venezuela per “risolvere” la “crisi”. Le riserve valutarie a livello mondiale erano denominate in dollari per il 70% sino a fine anni ’90, mentre oggi si aggirano attorno al 60%. Inoltre i principali detentori di dollari a livello mondiale (Cina e Giappone), dal 2015 hanno cominciato a vendere piccole trance di buoni del tesoro americani da 100 miliardi circa ciascuno. Infine, sempre più accordi bilaterali e multilaterali tra i PVS sono denominati nelle valute locali, liberandosi dall’uso del dollaro.
Questo fatto di cronaca internazionale apparso solo marginalmente sui media ufficiali, è in realtà di cardinale importanza per il nostro futuro, ed è un chiaro indicatore del grave stato di crisi geopolitica che viviamo nei nostri giorni.
Il massiccio piano d’investimenti suddetto, è la “Nuova Via della Seta”, anche noto come “one Road One Bealt”, lanciato dal presidente cinese Xi Jimping nel 2013. Il progetto è già partito da 5 anni e secondo i piani cinesi, quando sarà completato (nel 2049), abbraccerà oltre 60 paesi, che già ora si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello cinese. La Nuova via della Seta sarà composta da tre percorsi distinti:
1. una delle vie terrestri parte da Xi’an (la prima delle quattro antiche capitali Cinesi), città situata nel centro del paese, e si snoda attraverso il centro dell’Asia, ossia attraverso Kazakhistan, Russia (Mosca) e dirigendosi infine nel Mar Baltico;
2. Da Xi’an inizia un secondo percorso terrestre che attraversa il Medio Oriente, nello specifico Islamabad (Pakistan), Teheran (Iran), Istanbul (Turchia);
3. Infine una terza via parte da Kunming a attraversa il sudest asiatico, attraverso paesi quali Thailandia e Myanmar,
Il progetto “One Belt One Road” prevede 900 progetti di nuove infrastrutture, quasi 1000 miliardi di investimenti, $780 miliardi generati dagli interscambi con i 60 paesi coinvolti, 200mila nuovi posti di lavoro. Il progetto in totale coinvolgerà circa 4,4 miliardi di persone, ossia circa il 63% della popolazione mondiale, e il 30% del PIL mondiale, 35% degli scambi commerciali internazionali.
Il nostro paese avrebbe un ruolo di primo piano in questo progetto perché la prima via terrestre delle tre, arriverebbe sino al porto di Venezia e Trieste con una riabilitazione a porto di prim’ordine anche per Genova, cambiando gli assetti economici interni all’Europa. Oggi, infatti, esiste una via marittima che da Shangai arriva sino ad Amburgo; con la costruzione di una nuova via terrestre, le merci cinesi potrebbero arrivare direttamente in Italia (e da qui diffondersi nel resto d’Europa), permettendo di risparmiare 2.000 miglia, con un vantaggio di ben 8 giorni di navigazione abbandonando il porto di Amburgo. Le opportunità commerciali per i porti italiani sono ingenti: secondo lo Shanghai Shipping Institute, il traffico di merci movimentato dai porti cinesi raddoppierà entro il 2030.
Il progetto è già in atto; già oggi i cinesi controllano il porto greco del Pireo, avendo acquistato oltre il 60% delle sue azioni nel 2016 attraverso la cinese Cosco. Il 90% dei traffici tra Cina ed Europa passa lungo la Via della Seta marittima. Un terzo del volume mondiale di container transita attraverso i porti della Cina, che detiene i due terzi dei maggiori porti mondiali. Stando ai dati elaborati da Deloitte, la Cina nel 2016 ha investito 20 miliardi di dollari nei porti stranieri, il doppio rispetto al 2015. Risultato? I cinesi partecipano alla gestione di circa 80 porti in tutto il mondo.
Infine, per la realizzazione di questo mastodontico progetto sono stati creati già due enti: il Silk Road Fund del valore di 40 mld di dollari creato nel 2014 e l’Asian Infrastructure Investment Bank, che già conta di 100 mld di dollari, attivato nel 2016.
Di fronte a queste opportunità, recentemente ventisette dei ventotto ambasciatori dei Paesi dell’Unione Europea a Pechino hanno lanciato, in un rapporto ufficiale, una dura critica all’iniziativa di sviluppo infrastrutturale euro-asiatica “Belt on Road”, perché “va contro l’agenda di liberalizzazioni del commercio dell’Unione Europea e spinge gli equilibri di potere in favore delle aziende cinesi che godono di sussidi”. Gli ambasciatori europei sostengono, conclude il report, che la Cina intenda modellare la globalizzazione in base ai propri interessi.
Ora, credevamo forse che fino a ieri la globalizzazione fosse stata un processo automatico e guidato da nessuno? La realtà è che finché la globalizzazione era modellata sugli interessi dell’Occidente nessuno aveva nulla da obiettare; ora che invece si affacciano sulla scena globale nuovi paesi che potrebbero soffiar via il primato agli USA, si grida allo scandalo.
Tutta questa vicenda smaschera la grande contraddizione di una parte di mondo legata a un modello di governo unipolare (USA) in un contesto di progressiva affermazione di un mondo multipolare. Tutto lo sconquasso internazionale di questo periodo, le sanzioni, le minacce, le spese in armamenti, le esercitazioni militari su larga scala (operazione Tridente 2015), sono il riflesso del declino del mondo unipolare a guida americana. Gli USA non vogliono perdere il primato mondiale perché sanno che altrimenti le loro classi dirigenti, quella borghesia arricchita che conta tra il 15-10% della popolazione più benestante, dovrebbero ridimensionare il proprio stile di vita.
Poiché gli USA sono la potenza economica mondiale, dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno imposto l’uso del dollaro come valuta di scambio internazionale per i commerci. Il vantaggio per loro, è il privilegio di signoraggio. Rapidamente, poiché tutti i paesi del mondo usano i dollari per scambiarsi beni, la domanda di dollari è molto alta; il valore del dollaro allora si mantiene alto; con una valuta forte possono importare beni dal resto del mondo a costi molto bassi. Si calcola che per ogni 100$ stampati dalla FED, il privilegio di signoraggio permetta agli USA di acquistare dall’estero beni e servizi per il valore di 70$.
A questo si deve aggiungere che negli ultimi 2 decenni gli USA si sono deindustrializzati perdendo oltre 44.000 grandi fabbriche da 500 a 1000 operai, delocalizzate nei paesi del terzo mondo o PVS (attraverso i trattati di partenariato economico internazionale come TPP, CETA, NAFTA, ex-TTIP), perdendo un quarto della produzione manifatturiera interna. Il deficit commerciale americano ha superato da anni i 750 miliardi di dollari, un record assoluto nella storia moderna. Contestualmente, c’è stata un’espansione della finanza speculativa enorme, sostenuta dalle politiche accomodanti della FED. Con i profitti della finanza, si comprano i beni manifatturieri dai paesi poveri, e il tutto solo grazie alla forza del dollaro; se però il valore del dollaro crollasse, gli USA non riuscirebbero più ad importare così tante merci e al contempo si troverebbero un paese deindustrializzato; le conseguenze sarebbero catastrofiche. Colpisci il dollaro, colpisci l’Impero.
Il problema è che negli ultimi 4 anni l’economia mondiale si sta de-dollarizzando. La forza del dollaro è imperniata su tre elementi: uso di dollari da parte degli altri paesi del mondo come riserva di valore (che garantisce il continuo acquisto di buoni del tesoro americano da parte di cittadini e governi stranieri); uso del dollaro per gli scambi internazionali di materie prime; paesi dollarizzati/che agganciano la propria valuta al dollaro. Di questi ultimi restano soltanto l’Ecuador e El Salvador, anche se stanno già parlando di dollarizzare il Venezuela per “risolvere” la “crisi”. Le riserve valutarie a livello mondiale erano denominate in dollari per il 70% sino a fine anni ’90, mentre oggi si aggirano attorno al 60%. Inoltre i principali detentori di dollari a livello mondiale (Cina e Giappone), dal 2015 hanno cominciato a vendere piccole trance di buoni del tesoro americani da 100 miliardi circa ciascuno. Infine, sempre più accordi bilaterali e multilaterali tra i PVS sono denominati nelle valute locali, liberandosi dall’uso del dollaro.
Ricordo solo la Nuova Banca dello Sviluppo nata nel 2015 per volontà dei BRICS con il conclamante intento di superare istituzioni “desuete” e legate a “Washington”, come FMI e BM. Infine, lo scacco maggiore, è stato lanciato a marzo 2018, quando è stato lanciato dal governo cinese il primo future sulle commodities (materie prime) denominato in Renminbi (valuta cinese). Il future è un contratto a termine secondo cui il venditore si impegna vendere a una certa scadenza (mesi o anni) una partita di commodities a un valore fissato dall’accordo. In tal modo le imprese conoscono i costi di materie prime con largo anticipo. Fino ad ora questo tipo di accordi era denominato in dollari. Ora, si potranno scambiare materie prime in Renminbi. Pensiamo forse che mano a mano che procederà la costruzione della via della seta, quei 4,4 miliardi di persone che ne saranno coinvolti completamente continueranno a scambiarsi commodities in dollari? O useranno i nuovi future cinesi?
Tutto ciò rende il dominio del dollaro e degli USA precari. L’alter-ego cinese in campo militare, è la Russia, che detiene tante bombe atomiche quante gli USA, unico paese oltre agli Stati Uniti ad avere la triade nucleare, con sistemi di lancio all’avanguardia e missili non intercettabili capaci di velocità ipersonica (10 volte la velocità del suono).
Infine non va dimenticato che ci troviamo ai limiti dello sviluppo, ossia non è più possibile una crescita economica globale perché stiamo già pienamente impiegando tutte le risorse del pianeta. Secondo il WWF. l'Earth Overshoot Day cade a inizio agosto, ossia che il primo di agosto l’Uomo ha esaurito tutte le risorse che la Terra riesce a generare in un anno.
Il sistema della crescita infinita non è praticabile, non è compatibile e non è sensato. Lawrence Summers, è da poco uscito dal FMI sbattendo la porta e convertendosi progressista economicamente, ha annunciato che tutti i dati del FMI sono falsi, prospettando assenza di crescita mondiale per almeno i 5 anni successivi al 2020. In realtà già ora il PIL mondiale non ha mai più raggiunto il livello del 2011.
Questo stato del mondo rende la crisi ancora più traumatica: se non si fosse ai limiti dello sviluppo, gli Usa potrebbero lasciare che altri paesi si sviluppino, mentre loro potrebbero continuare a crescere. Poiché è ormai impossibile una crescita globale, poiché se tutti gli abitanti del mondo volessero consumare quanto gli USA servirebbero 3,5 pianeti, se gli Usa non sono disposti a ridimensionare il loro stile di vita, non possono far altro che mantenere in povertà e sottosviluppo il resto del mondo. Ma questo non lo si può ottenere per mezzo della sola persuasione, solo la guerra lo può fare.
Solo tenendo presente questo quadro si riesce a spiegare perché la NATO si sia espansa verso Est sino ai confini con la Russia, perché si è aperta una guerra in Siria, perché si è riarmato il Mar del Giappone e il mare Cinese con il pretesto delle minacce della Corea del Nord. Si capiscono anche i dazi che gli Stati Uniti hanno provato ad imporre a Pechino: se andranno in opera, si tratterà di dazi dalle proporzioni colossali. Per ridurre il deficit commerciale che gli Usa hanno col colosso asiatico (375,2 miliardi di dollari) la Casa Bianca ha messo in cantiere dazi punitivi su ben 150 miliardi di dollari di import dalla Cina. Infine, si capiscono anche i noti “dazi sull’acciaio” che arriverebbero a colpire praticamente solo l’Europa. Si tratta di una risposta a certe scelte fatte da alcuni paesi europei in contrasto con il Washington Consensus: il rifiuto del TTIP, l’astensione di moltissimi paesi nella votazione di Gerusalemme capitale e infine l’accordo che la Germania sta cercando di stringere con la Russia per la costruzione dell’enorme gasdotto Nord Stream 2.
In conclusione, il Comitato No Guerra No NATO rivendica per l’Italia una posizione internazionale neutrale, nel senso che non parteggiamo per una fazione di stati o per l’altra, né perché consideriamo più desiderabile il modello sociale russo o cinese rispetto a quello americano. Vogliamo un’Italia neutrale nel senso che non sia vassallo di nessuna potenza economico-militare, tuttavia essere neutrali non significa confondere aggressori e aggrediti. Se vogliamo evitare lo sterminio nucleare non possiamo evitare di denunciare che c’è una guerra oggi, e la guerra è contro il mondo multipolare. In questa fase storica le potenze che desiderano il mondo multipolare non hanno alcun interesse alla guerra mondiale; i sostenitori del mondo unipolare invece hanno molto da perdere da un ordine multipolare e quindi più declinano più la guerra diventa per loro l’ultimo strumento, quello estremo.
Tutto ciò rende il dominio del dollaro e degli USA precari. L’alter-ego cinese in campo militare, è la Russia, che detiene tante bombe atomiche quante gli USA, unico paese oltre agli Stati Uniti ad avere la triade nucleare, con sistemi di lancio all’avanguardia e missili non intercettabili capaci di velocità ipersonica (10 volte la velocità del suono).
Infine non va dimenticato che ci troviamo ai limiti dello sviluppo, ossia non è più possibile una crescita economica globale perché stiamo già pienamente impiegando tutte le risorse del pianeta. Secondo il WWF. l'Earth Overshoot Day cade a inizio agosto, ossia che il primo di agosto l’Uomo ha esaurito tutte le risorse che la Terra riesce a generare in un anno.
Il sistema della crescita infinita non è praticabile, non è compatibile e non è sensato. Lawrence Summers, è da poco uscito dal FMI sbattendo la porta e convertendosi progressista economicamente, ha annunciato che tutti i dati del FMI sono falsi, prospettando assenza di crescita mondiale per almeno i 5 anni successivi al 2020. In realtà già ora il PIL mondiale non ha mai più raggiunto il livello del 2011.
Questo stato del mondo rende la crisi ancora più traumatica: se non si fosse ai limiti dello sviluppo, gli Usa potrebbero lasciare che altri paesi si sviluppino, mentre loro potrebbero continuare a crescere. Poiché è ormai impossibile una crescita globale, poiché se tutti gli abitanti del mondo volessero consumare quanto gli USA servirebbero 3,5 pianeti, se gli Usa non sono disposti a ridimensionare il loro stile di vita, non possono far altro che mantenere in povertà e sottosviluppo il resto del mondo. Ma questo non lo si può ottenere per mezzo della sola persuasione, solo la guerra lo può fare.
Solo tenendo presente questo quadro si riesce a spiegare perché la NATO si sia espansa verso Est sino ai confini con la Russia, perché si è aperta una guerra in Siria, perché si è riarmato il Mar del Giappone e il mare Cinese con il pretesto delle minacce della Corea del Nord. Si capiscono anche i dazi che gli Stati Uniti hanno provato ad imporre a Pechino: se andranno in opera, si tratterà di dazi dalle proporzioni colossali. Per ridurre il deficit commerciale che gli Usa hanno col colosso asiatico (375,2 miliardi di dollari) la Casa Bianca ha messo in cantiere dazi punitivi su ben 150 miliardi di dollari di import dalla Cina. Infine, si capiscono anche i noti “dazi sull’acciaio” che arriverebbero a colpire praticamente solo l’Europa. Si tratta di una risposta a certe scelte fatte da alcuni paesi europei in contrasto con il Washington Consensus: il rifiuto del TTIP, l’astensione di moltissimi paesi nella votazione di Gerusalemme capitale e infine l’accordo che la Germania sta cercando di stringere con la Russia per la costruzione dell’enorme gasdotto Nord Stream 2.
In conclusione, il Comitato No Guerra No NATO rivendica per l’Italia una posizione internazionale neutrale, nel senso che non parteggiamo per una fazione di stati o per l’altra, né perché consideriamo più desiderabile il modello sociale russo o cinese rispetto a quello americano. Vogliamo un’Italia neutrale nel senso che non sia vassallo di nessuna potenza economico-militare, tuttavia essere neutrali non significa confondere aggressori e aggrediti. Se vogliamo evitare lo sterminio nucleare non possiamo evitare di denunciare che c’è una guerra oggi, e la guerra è contro il mondo multipolare. In questa fase storica le potenze che desiderano il mondo multipolare non hanno alcun interesse alla guerra mondiale; i sostenitori del mondo unipolare invece hanno molto da perdere da un ordine multipolare e quindi più declinano più la guerra diventa per loro l’ultimo strumento, quello estremo.
Comitato promotore della campagna NO GUERRA NO NATO Italia
Firma: https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale
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