"In Africa, tutto ciò che è
progressivo, tutto ciò che tende al progresso si dice comunista, distruttivo.
Piegarsi sempre e accettare qualsiasi cosa offerta dai colonialisti. Siamo solo
uomini onesti e il nostro unico obiettivo è: liberare il nostro paese,
costruire una nazione libera e indipendente". (Patrice Lumumba).
“La nostra rivoluzione è e deve
essere l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e
migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese. La nostra
rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti
a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice
perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema
sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita
meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà,
più democrazia, più dignità”. (Thomas Sankara)
Ho avuto la fortuna di conoscere Elias Amarè prima in Italia,
in occasione del congresso del movimento giovanile del Fronte Popolare per la
Democrazia e la Giustizia, l’organismo nato dal EPLF (Fronte Popolare Eritreo
di Liberazione), protagonista della guerra anticoloniale e oggi al governo in
Eritrea, e poi nel suo paese, nel quale ci ha accompagnato da un capo
all’altro, arricchendo la nostra esperienza di studio e visiva con gli
approfondimenti di uno straordinario conoscitore del presente, del passato e
della rivoluzione in corso. Nel girare il nostro docufilm sull’Eritrea non
avremmo potuto fare a meno delle informazioni, precisazioni, curiosità, dei
suggerimenti, incontri, contatti che questo grande intellettuale rivoluzionario
africano, conoscitore anche del mondo e delle cruciali questioni geopolitiche e
geoeconomiche (ha vissuto a lungo negli Usa), ci ha elargito via via che
toccavamo i vari aspetti sociali, culturali, ambientali, storici di questo
bellissimo paese, vera avanguardia politica del continente. Il nostro docufilm,
“ERITREA,
UNA STELLA NELLA NOTTE DELL’AFRICA” non avrebbe potuto riuscire senza
il fondamentale contributo di Elias. Elias è scrittore, giornalista e dirigente
del Centro per la Pace nel Corno d’Africa.
Come
l’Italia si vedeva nel Corno d’Africa
Come è noto, l’area ha vissuto, dopo la colonizzazione
italiana, una serie ininterrotta di scontri tra lo Stato più forte, l’Etiopia,
oggi fiduciario dell’Occidente neocolonialista, e i paesi che si affacciano
sulla costa strategica del Mar Rosso. La Somalia, dopo il fallimentare
intervento Usa e Nato negli anni’90, è attualmente occupata da una brutale
forza dell’Unione Africana sostenuta dagli Usa. Abbandonata al caos, sotto un
regime fantoccio, vive una lotta di liberazione irrisolta. L’Eritrea, che
domina lo stretto di Bab el Mandeb, il Golfo di Aden e l’imbocco del Mar Rosso,
è l’unico Stato africano a rifiutare presenze militari Usa e di chiunque altro
e a muoversi su una linea di indipendenza e giustizia sociale. Questo, e la sua
collocazione su uno dei nodi geostrategici più cruciali del mondo, ambito dalle
grandi potenze, le costano feroci sanzioni e costanti pressioni, aggressioni,
campagne di demonizzazione.
La nostra conversazione con Elias ha avuto luogo all’ombra di
un baobab, l’albero simbolo di questa parte del mondo, “albero-centro
convegni”, dove anziani, giovani e, oggi, anche le donne del villaggio si
uniscono per discutere e deliberare, secondo una formula di democrazia
sostanziale.
F.G: Cosa fa il Centro per la Pace nel Corno
d’Africa?
E.A. Conduce ricerche sull’origine dei conflitti nel Corno che,
come sappiamo, è una delle regioni più turbolente dell’Africa. Organizza
conferenze, seminari, gruppi di lavoro per individuare percorsi e mezzi che
promuovano la pace e risolvano i conflitti.
F.G. Non pare, però, che nel
Corno d’Africa esistano al momento prospettive di pace. Perché questa regione è
precipitata in una successione di tensioni e conflitti?
E.A. IL Corno d’Africa è da sempre un crocevia tra Africa e
Medioriente , ma anche tra Sud e Nord del mondo. Le potenze coloniali europee e
poi le superpotenze hanno sempre cercato di dominare la regione. Promuovono
Stati neocoloniali che stiano al loro servizio, suscitano conflitti etnici,
marginalizzano popolazioni, saccheggiano territori. Nei 50-60 anni del periodo postcoloniale
questa parte dell’Africa è stata ininterrotta scena di conflitti, di cicli di
guerre, con il risultato di uno spaventoso impoverimento delle popolazioni. Si
tratta di una delle aree di maggiore importanza strategica del mondo: Mar Rosso, Bab el Mandeb, l’Oceano
Indiano, il Golfo Arabo-Persico. L’interesse della grandi potenze, specie di
quelle imperialiste, si concentra su questa zona alla luce di una strategia di
dominio globale che presume il controllo su tutte le cruciali vie di
comunicazione. Senza contare che l’’Africa
è tutta sotto attacco. Ai grandi predatori non sfugge che possiede circa il 50%
delle risorse naturali del mondo e gran parte della sua biodiversità.
F.G. Come possono i popoli
della regione reagire a un tale destino, a una così forte concentrazione di
interessi con le relative potenzialità militari ed economiche?
E.A. I popoli della regione hanno lottato contro questo dominio con
movimenti di liberazione nazionale. Quello eritreo è stato uno dei più
vincenti. Altrove, nell’Ogaden, nella regione degli Oromo in Etiopia, ci sono
stati e permangono forti movimenti di lotta. Tutt’intorno alla nostra regione
c’è stata una lunga fase in cui i popoli si sono organizzati e hanno condotto
lotte di liberazione nazionale contro il dominio coloniale. Il successo non è
stato sempre quello sperato, ma la resistenza, in una forma o nell’altra, è
stata continua negli ultimi 60 anni. Solo che ai media non è consentito riferirne.
F.G. Come giudichi la situazione della Somalia
che, dal rovesciamento del despota filoamericano, Siad Barre, nel 1991, si
trascina tra aggressioni e conflitti interni. Si accusa l’Eritrea di sostenere la guerriglia delle forze islamiche
contro il governo installato dall’Occidente.
E.A. Purtroppo la Somalia è un esempio classico di interventismo.
Dopo la caduta di Siad Barre, alla Somalia non è mai stato consentito di
ricostituirsi in Stato sovrano. Si sono promossi conflitti interni e interventi
stranieri, il più recente dei quali è stata l’ennesima invasione dell’Etiopia,
Stato cliente degli Usa. Si tratta di un caso da manuale. Durante l’ultimo
quarto di secolo alla Somalia non è stato consentito, da parte delle potenze
imperialiste e dei loro surrogati nella regione, di vivere in pace. L’accusa
mossa all’Eritrea è totalmente priva di fondamento. Serve a coprire gli
interventi coloniali e di destabilizzazione di ben altre potenze.
F.G. Come influisce
sull’Eritrea questa drammatica situazione nel Corno?
E.A. La più grande minaccia per l’Eritrea è lo Stato vassallo
dell’Etiopia che viene pressato dalle potenze imperialiste a condurre una
costante guerre, strisciante o aperta, contro l’Eritrea. Si usano vari
pretesti. La guerra del 1998-2000 viene presentata come un conflitto sui
confini, ma trascende questo nodo. I confini non possono essere pretesti per
grandi guerre. L’Eritrea viene costantemente presentata come fattore di
disturbo, di destabilizzazione, il che capovolge i ruoli di vittima e di
aggressore. Bisogna chiedersi perché viene vittimizzata dalle grandi potenze.
La risposta è perché insiste sul suo cammino politico indipendente, di
autodeterminazione anche economica che
focalizza tutte la proprie risorse su uno sviluppo autonomo e non accetta i diktat
dell’ortodossia liberista provenienti dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario
Internazionale, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e da altre grandi
istituzioni che lavorano per l’egemonia dell’Occidente.
Considera anche che il governo di questa nazione non ruba. I
dirigenti vivono una vita normale, quella dei cittadini qualsiasi. Non vedrai
mai un nostro dirigente accompagnato da guardie del corpo, come succede da voi.
Nessuna classe dirigente in nessuna altra nazione dell’Africa vive a questo
modo. Vai dai vicini: il Primo Ministro dell’Etiopia, da poco deceduto, ha
lasciato alla sua famiglia circa 8 miliardi di dollari.
Corrompere le classi dirigenti, renderle ricattabili,
dipendenti, è altrettanto pericoloso dei complotti di destabilizzazione e degli
interventi militari per procura. La corruzione è uno degli strumenti utilizzati
dalle potenze straniere per ridurre le nazioni in schiavitù. Leader corrotti sono
facili da manipolare e come regola essi fanno davvero poco per la propria gente
ma tutto per la propria famiglia, le proprie clientele e per l’Impero. Le grandi potenze non
vogliono che l’esempio eritreo venga replicato in Africa. Lo ripeto, l’Africa
ha vaste risorse naturali. Le grandi potenze vogliono provare ad appropriarsi
di queste risorse. Cosa accadrebbe se altre nazioni in Africa provassero a
seguire l’esempio eritreo? Ai colonialisti di certo non converrebbe”.
F.G. Come vedi il futuro
immediato e a medio termine, tenendo conto che l’Etiopia continua ad occupare
territori eritrei e a minacciare nuove aggressioni, l’ultima condotta nel giugno
di quest’anno?
E.A. Per oltre 25 anni l’Eritrea è riuscita a mantenere la propria
indipendenza e sovranità contro soverchianti forze ostili. Già questo è un
successo e una fonte di ottimismo. A dispetto di tutta questa ostilità,
l’Eritrea ha rifiutato di essere dirottata, di farsi ostaggio e ha fortemente
investito in significativi progressi economici e sociali, ha continuato a
investire in programmi sociali decisivi, istruzione, sanità, servizi di base,
infrastrutture. Ma quella schiacciante ostilità, le sanzioni, la demonizzazione
che ci vengono inflitte, comportano vincoli e sfide che dobbiamo continuamente
sforzarci a superare. E’ chiaro che sono intese a bloccare il nostro progresso.
F.G. Dopo la caduta della
Libia di Gheddafi voi siete, insieme a pochissimi paesi africani, lo Zimbabwe,
l’Algeria, forse l’Egitto, un paese, una delle
nazioni che insistono sul proprio cammino, che non si sono fatte sottomettere
e non sono ancora state distrutte dalle grandi potenze, come è capitato alla
Libia, alla Somalia, ai paesi del Sahel. Che cosa ti suggerisce questo?
E.A. Le grandi potenze imperialiste vogliono imporci l’isolamento.
Ma non ci sono riuscite, nonostante grandi manovre politiche e
propagandistiche, tipo le calunnie, le menzogne. L’Eritrea ha rotto questo
isolamento e ha ora significativi rapporti di cooperazione con vari paesi che
hanno apprezzato le scelte del paese e hanno compreso i benefici reciproci che
se ne possono trarre. In Africa, è vero, sono pochi i paesi realmente indipendenti.
Ma i popoli in Africa stanno iniziando a risvegliarsi. Dopo un trentennio di
vicoli ciechi, di neocolonialismo rampante, dopo quanto è stato fatto alla
Libia e alla Somalia, i popoli si pongono domande e, tra le altre cose,
guardano al modello eritreo.
F.G. Un modello,
un’ispirazione, come lo è stata un tempo, che so, il Vietnam?
Perché non dovremmo poter
contribuire indicando una via alternativa? L’Eritrea è una nazione
relativamente piccola, con risorse limitate, ma sta andando bene in termini di
autosufficienza e progresso. La nostra parola d’ordine è resilienza, che
significa tante cose: resistenza, autosufficienza, fiducia in se stessi, tenuta
nelle difficoltà. Sono qualità che, se si diffondono, credo possano darci
speranza per il futuro del continente africano. Sono convinto che questo tipo
di rete tra popoli e movimenti alla fine dei conti risulterà decisivo. In
fondo, quel che conta quando si parla di democrazia, è la partecipazione
popolare. Non la democrazia che viene imposta dall’Occidente, ma una democrazia
vera, genuina, partecipatoria. Questa si deve espandere e realizzare.
F.G. Pensi che per
raggiungere questi risultati serva un sistema pluripartitico, come lo particano
e lo vogliono diffondere in Occidente?
E.A. No, no, per niente. Non credo che il multipartitismo che
l’Occidente vorrebbe imporre ai paesi africani sia la soluzione. Anzi, sarebbe
la fine. Tocca ai popoli africani decidere che tipo di cammino democratico
funzioni per loro, un modello fondato sui propri bisogni, vincoli, carenze,
storia. Comunque prerequisito fondamentale per una democrazia autentica resta
il processo della partecipazione popolare. E su questo punto gli esiti di molti
movimenti di liberazione nazionale non sono stati soddisfacenti. Molti di
questi movimenti, una volta arrivati al potere, si sono impadroniti dello Stato
e si sono dimenticati dei cittadini.
F.G. Che cosa ti rende
particolarmente orgoglioso di essere eritreo?
E.A. Orgoglioso? Che nonostante tutte le difficoltà incontrate non
abbiamo ceduto. Non siamo diventati un altro Stato cliente postcoloniale. Siamo
riusciti a mantenere la nostra indipendenza e sovranità. Questo mi rende
estremamente orgoglioso. Poi, essendo la liberazione nazionale un’operazione
anche culturale, come Amilcar Cabral ha sottolineato tanto tempo fa, ora
abbiamo una buona base per liberare noi stessi, liberare la nostra mente per
riconquistare il nostro retaggio di civiltà che era stato soppresso: le opere
d’arte, la letteratura orale e scritta, le tradizioni. Il fatto che siamo
riusciti a emancipare il nostro popolo dall’oppressione dei tempi coloniali. E’
una buona base su cui costruire una nuova Eritrea, un’Eritrea libera, che ha
fiducia in se stessa, in pace con se stessa e col mondo.
F.G. Mi potresti nominare
qualche personaggio che ha lasciato una traccia importante nella tua vita?
E.A. A citarli tutti verrebbe fuori un bel mosaico: Franz Fanon,
Amilcar Cabral, Thomas Sankara, Patrice Lumumba, Hugo Chavez, Che Guevara, Fidel
Castro, Evo Morales…. Un bel po’ di gente, come vedi, di cui la Terra ci è
stata prodiga. E nel tuo paese un’altra grande personalità che ammiro è Antonio
Gramsci. Spero di essere in grado, un giorno, di tradurre estratti dei suoi
Quaderni dal Carcere e vedere come il
suo concetto di egemonia possa essere espresso nella nostra lingua e adattato
alla nostra vita.
Fulvio Grimaldi
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