mercoledì 14 dicembre 2016

Eritrea - Fulvio Grimaldi: Intervista con Elias Amarè


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"In Africa, tutto ciò che è progressivo, tutto ciò che tende al progresso si dice comunista, distruttivo. Piegarsi sempre e accettare qualsiasi cosa offerta dai colonialisti. Siamo solo uomini onesti e il nostro unico obiettivo è: liberare il nostro paese, costruire una nazione libera e indipendente". (Patrice Lumumba).

“La nostra rivoluzione è e deve essere l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese. La nostra rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà, più democrazia, più dignità”. (Thomas Sankara)

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Ho avuto la fortuna di conoscere Elias Amarè prima in Italia, in occasione del congresso del movimento giovanile del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, l’organismo nato dal EPLF (Fronte Popolare Eritreo di Liberazione), protagonista della guerra anticoloniale e oggi al governo in Eritrea, e poi nel suo paese, nel quale ci ha accompagnato da un capo all’altro, arricchendo la nostra esperienza di studio e visiva con gli approfondimenti di uno straordinario conoscitore del presente, del passato e della rivoluzione in corso. Nel girare il nostro docufilm sull’Eritrea non avremmo potuto fare a meno delle informazioni, precisazioni, curiosità, dei suggerimenti, incontri, contatti che questo grande intellettuale rivoluzionario africano, conoscitore anche del mondo e delle cruciali questioni geopolitiche e geoeconomiche (ha vissuto a lungo negli Usa), ci ha elargito via via che toccavamo i vari aspetti sociali, culturali, ambientali, storici di questo bellissimo paese, vera avanguardia politica del continente. Il nostro docufilm, “ERITREA, UNA STELLA NELLA NOTTE DELL’AFRICA” non avrebbe potuto riuscire senza il fondamentale contributo di Elias. Elias è scrittore, giornalista e dirigente del Centro per la Pace nel Corno d’Africa.

 Come l’Italia si vedeva nel Corno d’Africa
Come è noto, l’area ha vissuto, dopo la colonizzazione italiana, una serie ininterrotta di scontri tra lo Stato più forte, l’Etiopia, oggi fiduciario dell’Occidente neocolonialista, e i paesi che si affacciano sulla costa strategica del Mar Rosso. La Somalia, dopo il fallimentare intervento Usa e Nato negli anni’90, è attualmente occupata da una brutale forza dell’Unione Africana sostenuta dagli Usa. Abbandonata al caos, sotto un regime fantoccio, vive una lotta di liberazione irrisolta. L’Eritrea, che domina lo stretto di Bab el Mandeb, il Golfo di Aden e l’imbocco del Mar Rosso, è l’unico Stato africano a rifiutare presenze militari Usa e di chiunque altro e a muoversi su una linea di indipendenza e giustizia sociale. Questo, e la sua collocazione su uno dei nodi geostrategici più cruciali del mondo, ambito dalle grandi potenze, le costano feroci sanzioni e costanti pressioni, aggressioni, campagne di demonizzazione.
La nostra conversazione con Elias ha avuto luogo all’ombra di un baobab, l’albero simbolo di questa parte del mondo, “albero-centro convegni”, dove anziani, giovani e, oggi, anche le donne del villaggio si uniscono per discutere e deliberare, secondo una formula di democrazia sostanziale.

F.G: Cosa fa il Centro per la Pace nel Corno d’Africa?
E.A. Conduce ricerche sull’origine dei conflitti nel Corno che, come sappiamo, è una delle regioni più turbolente dell’Africa. Organizza conferenze, seminari, gruppi di lavoro per individuare percorsi e mezzi che promuovano la pace e risolvano i conflitti.
F.G. Non pare, però, che nel Corno d’Africa esistano al momento prospettive di pace. Perché questa regione è precipitata in una successione di tensioni e conflitti?
E.A. IL Corno d’Africa è da sempre un crocevia tra Africa e Medioriente , ma anche tra Sud e Nord del mondo. Le potenze coloniali europee e poi le superpotenze hanno sempre cercato di dominare la regione. Promuovono Stati neocoloniali che stiano al loro servizio, suscitano conflitti etnici, marginalizzano popolazioni, saccheggiano territori.  Nei 50-60 anni del periodo postcoloniale questa parte dell’Africa è stata ininterrotta scena di conflitti, di cicli di guerre, con il risultato di uno spaventoso impoverimento delle popolazioni. Si tratta di una delle aree di maggiore importanza strategica  del mondo: Mar Rosso, Bab el Mandeb, l’Oceano Indiano, il Golfo Arabo-Persico. L’interesse della grandi potenze, specie di quelle imperialiste, si concentra su questa zona alla luce di una strategia di dominio globale che presume il controllo su tutte le cruciali vie di comunicazione. Senza contare che l’’Africa è tutta sotto attacco. Ai grandi predatori non sfugge che possiede circa il 50% delle risorse naturali del mondo e gran parte della sua biodiversità.
F.G. Come possono i popoli della regione reagire a un tale destino, a una così forte concentrazione di interessi con le relative potenzialità militari ed economiche?
E.A. I popoli della regione hanno lottato contro questo dominio con movimenti di liberazione nazionale. Quello eritreo è stato uno dei più vincenti. Altrove, nell’Ogaden, nella regione degli Oromo in Etiopia, ci sono stati e permangono forti movimenti di lotta. Tutt’intorno alla nostra regione c’è stata una lunga fase in cui i popoli si sono organizzati e hanno condotto lotte di liberazione nazionale contro il dominio coloniale. Il successo non è stato sempre quello sperato, ma la resistenza, in una forma o nell’altra, è stata continua negli ultimi 60 anni. Solo che ai media non è consentito riferirne.
F.G. Come giudichi la situazione della Somalia che, dal rovesciamento del despota filoamericano, Siad Barre, nel 1991, si trascina tra aggressioni e conflitti interni. Si accusa l’Eritrea di sostenere la guerriglia delle forze islamiche contro il governo installato dall’Occidente.
E.A. Purtroppo la Somalia è un esempio classico di interventismo. Dopo la caduta di Siad Barre, alla Somalia non è mai stato consentito di ricostituirsi in Stato sovrano. Si sono promossi conflitti interni e interventi stranieri, il più recente dei quali è stata l’ennesima invasione dell’Etiopia, Stato cliente degli Usa. Si tratta di un caso da manuale. Durante l’ultimo quarto di secolo alla Somalia non è stato consentito, da parte delle potenze imperialiste e dei loro surrogati nella regione, di vivere in pace. L’accusa mossa all’Eritrea è totalmente priva di fondamento. Serve a coprire gli interventi coloniali e di destabilizzazione di ben altre potenze.
F.G. Come influisce sull’Eritrea questa drammatica situazione nel Corno?
E.A. La più grande minaccia per l’Eritrea è lo Stato vassallo dell’Etiopia che viene pressato dalle potenze imperialiste a condurre una costante guerre, strisciante o aperta, contro l’Eritrea. Si usano vari pretesti. La guerra del 1998-2000 viene presentata come un conflitto sui confini, ma trascende questo nodo. I confini non possono essere pretesti per grandi guerre. L’Eritrea viene costantemente presentata come fattore di disturbo, di destabilizzazione, il che capovolge i ruoli di vittima e di aggressore. Bisogna chiedersi perché viene vittimizzata dalle grandi potenze. La risposta è perché insiste sul suo cammino politico indipendente, di autodeterminazione anche economica  che focalizza tutte la proprie risorse su uno sviluppo autonomo e non accetta i diktat dell’ortodossia liberista provenienti dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e da altre grandi istituzioni che lavorano per l’egemonia dell’Occidente.
Considera anche che il governo di questa nazione non ruba. I dirigenti vivono una vita normale, quella dei cittadini qualsiasi. Non vedrai mai un nostro dirigente accompagnato da guardie del corpo, come succede da voi. Nessuna classe dirigente in nessuna altra nazione dell’Africa vive a questo modo. Vai dai vicini: il Primo Ministro dell’Etiopia, da poco deceduto, ha lasciato alla sua famiglia circa 8 miliardi di dollari.
Corrompere le classi dirigenti, renderle ricattabili, dipendenti, è altrettanto pericoloso dei complotti di destabilizzazione e degli interventi militari per procura. La corruzione è uno degli strumenti utilizzati dalle potenze straniere per ridurre le nazioni in schiavitù. Leader corrotti sono facili da manipolare e come regola essi fanno davvero poco per la propria gente ma tutto per la propria famiglia, le proprie clientele e per l’Impero. Le grandi potenze non vogliono che l’esempio eritreo venga replicato in Africa. Lo ripeto, l’Africa ha vaste risorse naturali. Le grandi potenze vogliono provare ad appropriarsi di queste risorse. Cosa accadrebbe se altre nazioni in Africa provassero a seguire l’esempio eritreo? Ai colonialisti di certo non converrebbe”.
F.G. Come vedi il futuro immediato e a medio termine, tenendo conto che l’Etiopia continua ad occupare territori eritrei e a minacciare nuove aggressioni, l’ultima condotta nel giugno di quest’anno?
E.A. Per oltre 25 anni l’Eritrea è riuscita a mantenere la propria indipendenza e sovranità contro soverchianti forze ostili. Già questo è un successo e una fonte di ottimismo. A dispetto di tutta questa ostilità, l’Eritrea ha rifiutato di essere dirottata, di farsi ostaggio e ha fortemente investito in significativi progressi economici e sociali, ha continuato a investire in programmi sociali decisivi, istruzione, sanità, servizi di base, infrastrutture. Ma quella schiacciante ostilità, le sanzioni, la demonizzazione che ci vengono inflitte, comportano vincoli e sfide che dobbiamo continuamente sforzarci a superare. E’ chiaro che sono intese a bloccare il nostro progresso.
F.G. Dopo la caduta della Libia di Gheddafi voi siete, insieme a pochissimi paesi africani, lo Zimbabwe, l’Algeria, forse l’Egitto, un paese, una delle  nazioni che insistono sul proprio cammino, che non si sono fatte sottomettere e non sono ancora state distrutte dalle grandi potenze, come è capitato alla Libia, alla Somalia, ai paesi del Sahel. Che cosa ti suggerisce questo?
E.A. Le grandi potenze imperialiste vogliono imporci l’isolamento. Ma non ci sono riuscite, nonostante grandi manovre politiche e propagandistiche, tipo le calunnie, le menzogne. L’Eritrea ha rotto questo isolamento e ha ora significativi rapporti di cooperazione con vari paesi che hanno apprezzato le scelte del paese e hanno compreso i benefici reciproci che se ne possono trarre. In Africa, è vero, sono pochi i paesi realmente indipendenti. Ma i popoli in Africa stanno iniziando a risvegliarsi. Dopo un trentennio di vicoli ciechi, di neocolonialismo rampante, dopo quanto è stato fatto alla Libia e alla Somalia, i popoli si pongono domande e, tra le altre cose, guardano al modello eritreo.
F.G. Un modello, un’ispirazione, come lo è stata un tempo, che so, il Vietnam?
Perché non dovremmo poter contribuire indicando una via alternativa? L’Eritrea è una nazione relativamente piccola, con risorse limitate, ma sta andando bene in termini di autosufficienza e progresso. La nostra parola d’ordine è resilienza, che significa tante cose: resistenza, autosufficienza, fiducia in se stessi, tenuta nelle difficoltà. Sono qualità che, se si diffondono, credo possano darci speranza per il futuro del continente africano. Sono convinto che questo tipo di rete tra popoli e movimenti alla fine dei conti risulterà decisivo. In fondo, quel che conta quando si parla di democrazia, è la partecipazione popolare. Non la democrazia che viene imposta dall’Occidente, ma una democrazia vera, genuina, partecipatoria. Questa si deve espandere e realizzare.
F.G. Pensi che per raggiungere questi risultati serva un sistema pluripartitico, come lo particano e lo vogliono diffondere in Occidente?
E.A. No, no, per niente. Non credo che il multipartitismo che l’Occidente vorrebbe imporre ai paesi africani sia la soluzione. Anzi, sarebbe la fine. Tocca ai popoli africani decidere che tipo di cammino democratico funzioni per loro, un modello fondato sui propri bisogni, vincoli, carenze, storia. Comunque prerequisito fondamentale per una democrazia autentica resta il processo della partecipazione popolare. E su questo punto gli esiti di molti movimenti di liberazione nazionale non sono stati soddisfacenti. Molti di questi movimenti, una volta arrivati al potere, si sono impadroniti dello Stato e si sono dimenticati dei cittadini. 
F.G. Che cosa ti rende particolarmente orgoglioso di essere eritreo?
E.A. Orgoglioso? Che nonostante tutte le difficoltà incontrate non abbiamo ceduto. Non siamo diventati un altro Stato cliente postcoloniale. Siamo riusciti a mantenere la nostra indipendenza e sovranità. Questo mi rende estremamente orgoglioso. Poi, essendo la liberazione nazionale un’operazione anche culturale, come Amilcar Cabral ha sottolineato tanto tempo fa, ora abbiamo una buona base per liberare noi stessi, liberare la nostra mente per riconquistare il nostro retaggio di civiltà che era stato soppresso: le opere d’arte, la letteratura orale e scritta, le tradizioni. Il fatto che siamo riusciti a emancipare il nostro popolo dall’oppressione dei tempi coloniali. E’ una buona base su cui costruire una nuova Eritrea, un’Eritrea libera, che ha fiducia in se stessa, in pace con se stessa e col mondo.
F.G. Mi potresti nominare qualche personaggio che ha lasciato una traccia importante nella tua vita?

E.A. A citarli tutti verrebbe fuori un bel mosaico: Franz Fanon, Amilcar Cabral, Thomas Sankara, Patrice Lumumba, Hugo Chavez, Che Guevara, Fidel Castro, Evo Morales…. Un bel po’ di gente, come vedi, di cui la Terra ci è stata prodiga. E nel tuo paese un’altra grande personalità che ammiro è Antonio Gramsci. Spero di essere in grado, un giorno, di tradurre estratti dei suoi Quaderni dal Carcere  e vedere come il suo concetto di egemonia possa essere espresso nella nostra lingua e adattato alla nostra vita.

Fulvio Grimaldi

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