Il repubblicano Donald Trump – lo confesso – non mi entusiasma. Non condivido alcune sue spigolosità reazionarie e, men che meno, la sua sottovalutazione del problema ambientale. Una sua eventuale presidenza, probabilmente, non farebbe bene al buco nell’ozono. Ma, almeno, allontanerebbe lo spettro del peggiore degli inquinamenti, quello nucleare.
Non altrettanto può dirsi per la democratica Hillary Clinton, K.hillary per i nemici. La sua concezione della politica estera è più a destra di quella espressa da Romney quattro anni prima. Ciò spiega, forse, il sostegno aperto che le giunge dall’ala bellicista del Partito Repubblicano: i Bush, i Colin Power, i William Cohen, oltre che – naturalmente – l’ex candidato alle presidenziali Mitt Romney. Ma guarda le coincidenze: tutti i sostenitori delle guerre preventive, tutti i cow-boy suonati, tutti i bulli all’uranio impoverito, tutti gli affossatori del Medio Oriente laico, tutti fraternamente uniti, al di là delle appartenenze partitiche, attorno a colei che li rappresenta tutti, che tutti li coinvolge, li esalta nella grande avventura della democrazia esportata a colpi di bombe, a forza di “eserciti di liberazione” comprati e pagati con moneta sonante. Lei, la protagonista della miriade di e-mail compromettenti portate alla luce da WikiLeaks, la “regina del caos” che emerge minacciosa da una irriverente biografia non autorizzata (Diana Johnstone: Hillary Clinton regina del caos. Zambon editore, € 15,00).
La Johnston – ex addetta stampa del gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo – ripercorre puntualmente la “carriera” dell’aspirante presidentessa: a partire da quando – nel 1999 – semplicemente “consigliava” al marito Bill di annientare la Jugoslavia con i bombardamenti NATO (durarono 78 giorni), fino ai più recenti “consigli” che – in qualità di Ministro degli Esteri – ha fornito a Barak Obama per distruggere la Libia di Gheddafi. In mezzo, tanti “piccoli” episodi che la videro protagonista come Segretario di Stato (cioè Ministro degli Esteri) della prima presidenza Obama: dal 2009 al 2013, dal colpo-di-Stato contro il Presidente dell’Honduras (democraticamente eletto) alla guerra mediatica contro il Presidente della Federazione Russa, colpevole di opporsi all’arroganza a stelle e strisce.
Né le mie preoccupazioni muovono soltanto dal passato di Killary, perché il suo presente è – se possibile – ancor più inquietante. Mi riferisco a quella ragnatela di vicinanze, dazioni, contribuzioni – e non voglio usare parole più grosse – che sembra emergere dall’esame di tre diversi fiumi di danaro: l’attività privata di conferenzieri dei coniugi Clinton, i fondi della campagna elettorale di Hillary e, soprattutto, la cassaforte “filantropica” di famiglia, la Clinton Foundation.
Per esaminare con qualche dettaglio questi tre filoni non basterebbero mille pagine. Mi limiterò a citare soltanto qualche elemento di pubblico dominio, qualche fatterello appreso dalla lettura de “La Regina del Caos” e, soprattutto, dai file di WikiLeaks.
Intendiamoci, gran parte delle vicende e delle “dazioni” in questione non sono considerate un reato dalla legge statunitense, le cui regole (si fa per dire) reputano legittima l’attività delle lobby; cioè dei gruppi di interesse che cercano di influenzare i politici, le istituzioni ed i processi legislativi. In qualunque paese d’Europa una attività del genere sarebbe considerata corruzione, ancor più grave se di proporzioni assai vaste. Secondo la “morale” americana, invece, non è così. E nessuno osa sospettare che se un imprenditore versa, per esempio, un milione di dollari nelle casse di un partito o di una “fondazione”, lo faccia perché si aspetta che i beneficiati gliene facciano poi guadagnare due, o tre, o dieci. No, si presume che siano tutti benefattori disinteressati, ovvero “filantropi”, come vengono definiti i benefattori più benefattori di tutti.
Tra gli interventi filantropici – immagino – ci sono quelli di grandi gruppi industriali e di grandi banche “d’affari” (affari loro, penso), che alle personali fortune della famiglia Clinton sono solite contribuire con un cachet prossimo a un quarto di milione di dollari per ogni singola “conferenza” offerta ad uno scelto pubblico di dirigenti e/o clienti. Naturalmente, le singole banche sono libere di ripetere le conferenze per altre due, tre, quattro volte, moltiplicando così il gettone di presenza dell’anziana donzella (o talora del suo giuggioleggiante consorte). In tal modo – secondo la CNN – soltanto fra il 2001 e il 2015 l’attività di conferenzieri avrebbe fruttato ai Clinton qualcosa come 153 milioni di dollari (parenti stretti di 300 miliardi delle nostre vecchie lirette).
Evidentemente, la signora Clinton non sarà mai stata neanche sfiorata dal dubbio che ricevere tanti soldi da soggetti finanziari particolarmente potenti, possa essere inelegante. Così come – scommetto – non si sarà mai chiesta perché i tre principali contributori della sua Foundation (nell’ordine di decine di milioni di dollari) siano il Regno dell’Arabia Saudita, un noto magnate con doppio passaporto israeliano e americano, ed un meno noto magnate ukraino conosciuto per i suoi rapporti con Israele. Naturalmente, l’elenco degli estimatori della Fondazione Clinton comprende anche tanti benefattori minori, di quelli che contribuiscono solo con elargizioni fra un milione e dieci milioni di dollari: la Goldman Sachs, la Boeing, Murdoch (quello di Sky), il solito Soros (quello che semina rivoluzioni “democratiche” nel mondo intero), l’Emiro del Quwait, la Coca-cola, la Exxon, la Chevron, la Fondazione Rockfeller e così via miliardando. Ci sono, naturalmente, tanti governi di Paesi stranieri, soprattutto delle aree petrolifere. In coda, i morti di fame che hanno versato contributi fra i 100 e i 250 mila dollari alla benefica Fondazione. E fra i morti di fame – sorpresa – anche il governo italiano: per la precisione il Ministero dell’Ambiente.
Naturalmente, lungi da me l’idea di fare del facile moralismo, anche a prescindere dall’episodio “di colore” del nostro Ministero. Se in America le leggi consentono certi comportamenti (ma Trump non sembra essere completamente d’accordo), la Clinton può benissimo fare quello che fa. Non mi spaventa la sua disinvoltura amministrativa. Mi spaventa, invece, apprendere che tra i suoi principali finanziatori ci siano paesi e personaggi che sono apertamente fautori dello scontro con la Russia, poco importa se in Siria o in Ukraina. E scontro con la Russia – non nascondiamoci dietro un dito – significa guerra nucleare. Né la Clinton – da first lady prima e da segretario di Stato poi – ha mai dato prova di moderazione. Tutt’altro. I guai in cui ci troviamo ora – tanto per non restare nel vago – con la polveriera libica sul punto di esplodere, li dobbiamo principalmente a lei
Decisamente, non mi sentirei tranquillo sapendo che la valigetta con i pulsanti per scatenare la guerra atomica si trovasse nelle sue mani.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.