martedì 13 ottobre 2015

SORVEGLIARE, NORMARE, PUNIRE ... così il sistema impera....




“Non è recludendo il prossimo che lo si convince della bontà delle
proprie idee” (Dostoevskij, citato da Michel Focault in apertura del
suo “Storia della follìa”, 1961). L’affermazione è così evidente da
sembrare ovvia, e spinge spontaneamente alla riflessione: “Qualcuno,
nella nostra società, vuole ancora convincere qualcun altro della
bontà delle proprie idee?”. 
Oppure, vi hanno tutti, o quasi,

rinunciato ? L’organizzazione della vita sembra ormai strutturata
molto di più sulla imposizione che sul convincimento. Certo, svolge
formalmente opera di convincimento la propaganda ideologica dei mass
media, perennemente all’opera per convincere il lettore che il potere
è buono, giusto e volto a tutelare il suo bene (ma quando qualcuno
dichiara di “volere il tuo bene” è prudente cominciare a tenerselo
stretto: se il bene è tuo, perché lo vogliono ? Si accontentino del
loro, senza volerti defraudare de tuo !). Ma possiamo davvero definire
“libera opera di persuasione” ciò che è una insistente ripetizione
ossessiva, mirante a distruggere per sfinimento le difese di ogni
dissenziente dal pensiero dominante, con tecnica palesemente
goebblesiana. Il mantra della “prevenzione contro il terrorismo” è
diventato un classico del non sense ripetuto ad ogni piè sospinto,
onde giustificare qualunque nefandezza, compreso il bombardamento
terrorista di un ospedale, come è avvenuto dieci giorni fa a Kunduz,
per opera dell’aviazione militare assassina statunitense. Dunque, ogni
dubbio e riflessione sullo stato di insalunrità del convincimento nel
nostro ambito sociale è legittimo. Con “sorvegliare e punire”,
dall’inquietante sottotitolo “Nascita della prigione” (1971), in gran
parte partorito dalle riflessioni delGIP (Gruppo di informazione sulle
prigioni) già quarant’anni fa Focault ha dato corpo chiaro ai nostri
peggiori sospetti: viviamo in un mondo che non è interessato a
convincere, quanto piuttosto a imporre il proprio ordine, con ogni
strumento utile, secondo la vecchia logica macchiavelliana del “fine
che giustifica i mezzi”. La prigione, oggetto originale della
riflessione dell’autore, è storicamente una invenzione abbastanza
recente, rispetto alla pratica più antica del supplizio punitivo. Ma
essa corrisponde solo ad una evoluzione del metodo, che dalla
punizione del corpo si trasferisce a qualla dell’anima. La prigione
trasforma il procedimento punitivo in una disciplina, realizzata da
una sorveglianza gerarchica che intende normalizzare il comportamento
attraverso una serie di sanzioni costrittive. L’ideale di un simile
metodo viene manifestato da un vecchio progetto, quello del
“panoptikon” dell’utilitarista Jeremy Bentham, una casa di reclusione
progettata in modo tale che ogni suo abitante sappia di essere
continuamente visto, o quanto meno visibile, senza poter invece vedere
i propri carcerieri. Il controllo è quindi potenzialmente assoluto, e
soggetto alla norma che viene continuamente imposta tramite la
minaccia della sanzione per ogni possibile tragressione. Tutto questo
ricorda qualcosa. Ricorda, ad esempio, le scuole, non a caso vissute
da molti studenti come sorte di “prigioni”. Vere prigioni certamente
non sono, ma una qualche filosofia carceraria tuttavia le
caratterizza: attraverso la mitizzazione della regola, della norma,
cui ci si deve sottomettere, pensa la sanzione ideata a punizione di
chi la contravvenga. Il mondo umano, certamente, funziona attraverso
la condivisione di regole che accomunino i membri di un gruppo, ma
sono date situazioni di forte disimmetria tra chi le regole impone e
chi le subisce. In modo particolare, questa situazione risulta strana
e poco giustificabile agli occhi di chi, avendo adottato una mentalità
scientifica di costruzione del pensiero, concepisce come “regole”
quell’insieme di comportamenti individuati e costruiti sia ad
imitazione (e comprensione!) della natura, sia quali strumenti
realizzati allo scopo di ottenere un dato risulttao. Ma il risultato
richiesto deve essere una scelta, e così pure i mezzi che si vogliano
impiegare: la facoltà di scelta dovrebbe stare a fondamento
sperimentale perennemente in fieri nelle mani di tutti i partecipi ad
una impresa. Solo così, tramite progressiva sperimentazione e feedback
si possono individuare le regole più utili e funzionali alle
realizzazioni comuni. Ma il vero metodo di ricerca scientifico è poco
funzionale al potere dell’uomo sull’uomo, potere con il quale, anzi,
non poche volte si è trovato in aperto conflitto, fin dai tempi di
Copernico, Giordano Bruno e Galileo. Purtroppo, la sorveglianza, la
norma e la sanzione dominano ancora la cultura organizzativa del
sociale reale. Adeguare un organismo a una norma può essere ottenuto
anche con i metodi applicati ai cani di Pavlov (il quale, tuttavia,
non era un comportamentista). Bisogna fare attenzione, davanti a
queste tecniche, e pensarci bene, a scanso di cattive sorprese. Con
metodo pavloviano, durnate la difesa contro l’invasione nazista, molti
cani russi vennero addestrati a correre sotto la pancia dei carri
armati, dove trovavano il cibo preparato per sfamarli. Fino al giorno
in cui quei cani vennero liberati davanti ai panzer tedeschi, contro i
quali si lanciarono a capofitto, correndo sotto di loro. Ignari di
avere legato addosso un carico di dinamite collegato a un innesco
pronto a scattare quando l’antenna fissata sopra la schiena avrebbe
toccato il corpo metallico inferiore dei carri armati nazisti. Così
esplosero, uno dopo l’altro, i cani addestrati a conformarsi alla
norma. Un destino che il potere normalizzatore riserva non ai soli
cani. Un destino da evitare, proprio rifiutando le tecniche della
normalizzazione coatta.

Vincenzo Zamboni



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