Immagine di fantasia
Approfittando della situazione politica internazionale, nel 35 d.C., mentre Vitellio era alle prese con Artabano III, Re dei Parti, gli Zeloti giudei colsero il momento propizio del conflitto fra Roma e la Parthia per innescare la rivolta e liberare Gerusalemme, la Santa, dalla dominazione pagana...
"Venne poi la carestia che li rese sfrenati in modo travolgente"
Era in atto una grave carestia e il popolo affamato e “vessato dai tributi dovuti a Cesare” - incitato dai profeti zeloti con veementi prediche per il ripristino della Legge di Yahwè - si ribellò alla guarnigione romana pagana che stanziava nella Città Santa, massacrandola "... e sfasciarono tutto ciò che restava degli ordinamenti civili" (Bellum VII cap. 8). Questo richiamo fatto dallo storico è riferito in un lontano ricordo delle gesta eversive dello zelota Giovanni, tali da giungere a sopprimere gli "ordinamenti civili" costituiti dal governo romano e dai sacerdoti opportunisti del Sinedrio collusi con il potere imperiale.
Un discendente per parte di madre della stirpe reale asmonea, l’influente Rabbino di Gàmala, Giovanni detto il Nazireo*, figlio primogenito del Dottore della Legge, Giuda il Galileo, definito dallo storico "di grande potere", alcuni giorni prima della Festa delle Capanne del 35 d.C. (fine estate), si mise a capo della rivolta riuscendo a farsi riconoscere Re dei Giudei e insieme Sommo Sacerdote del Tempio, restaurando la prassi degli antenati monarchi Asmonei che rivestirono entrambi i sacri uffizi.
Un discendente per parte di madre della stirpe reale asmonea, l’influente Rabbino di Gàmala, Giovanni detto il Nazireo*, figlio primogenito del Dottore della Legge, Giuda il Galileo, definito dallo storico "di grande potere", alcuni giorni prima della Festa delle Capanne del 35 d.C. (fine estate), si mise a capo della rivolta riuscendo a farsi riconoscere Re dei Giudei e insieme Sommo Sacerdote del Tempio, restaurando la prassi degli antenati monarchi Asmonei che rivestirono entrambi i sacri uffizi.
* Come riferito con maggiori particolari nello studio precedente, siamo in grado di identificarlo attraverso l'analisi di un lontano ricordo riferito da Giuseppe Flavio alla fine della Guerra Giudaica, Libro VII cap. 8.
Per gli Ebrei, in quel momemto, fu il “Jeshùa” (Salvatore), della terra santa e, dopo essersi fatto consacrare Messia (Cristo) tramite il rituale dell'unzione descritto dalla ancestrale Legge, dette inizio ad un nuovo Regno, senza schiavi, in cui “solo Dio era Padrone”, adempiendo i precetti della "quarta filosofia, una novità sinora sconosciuta" ideata da suo padre Giuda di Gàmala.
Ma non durerà a lungo. Entro la fine dell’anno 35 d.C., Vitellio riusci a mettere in crisi Artabano costringendolo alla fuga e, dopo aver assoggettato nuovamente l’Armenia al dominio di Roma, da oltre il fiume Eufrate, "ove si era spinto col nerbo delle legioni romane e gli alleati", invase il Regno dei Parti, poi, "ritenendo bastevole aver fatto mostra delle armi romane ai Grandi Dignitari parti, rientrò in Siria ad Antiochia con le sue legioni". (Tacito, Annales VI 37).
Quando il condottiero romano raggiunse il Presidio, alla fine del 35 inizi del 36, venne informato degli eventi accaduti in Giudea e, dopo aver fatto riposare l’esercito nei quartieri invernali, si rimise in marcia alla testa delle sue legioni per riprendere Gerusalemme e giustiziare il monarca, che, illegittimamente, si era proclamato Re dei Giudei.
Nel frattempo aveva già inviato il Prefetto Marcello a Cesarea Marittima per rilevare Ponzio Pilato dal suo incarico. Il Legato imperiale "pro Praetore" considerò il Prefetto Ponzio Pilato, di rango equestre, responsabile della perdita di Gerusalemme non essendo riuscito a prevenire la sommossa. In occasione delle festività ebraiche, Pilato avrebbe dovuto rafforzare il contingente degli ausiliari romani, anzi tempo, come previsto dalle precise consegne militari.
Un paio di giorni prima della Pasqua del 36 d.C., Lucio Vitellio, dopo aver cinto d’assedio ed inviato un ultimatum alla Città Santa, ormai impossibilitata a resistere senza scorte di viveri (gli aiuti di Elena non poterono durare a lungo e sfamare un popolo intero), ne otterrà la resa e la consegna del Re abusivo.
Un paio di giorni prima della Pasqua del 36 d.C., Lucio Vitellio, dopo aver cinto d’assedio ed inviato un ultimatum alla Città Santa, ormai impossibilitata a resistere senza scorte di viveri (gli aiuti di Elena non poterono durare a lungo e sfamare un popolo intero), ne otterrà la resa e la consegna del Re abusivo.
Fu il Sinedrio, convocato dal Sommo Sacerdote del Tempio Giovanni in un momento così drammatico, a decretare la fine del Re ed il suo breve regno. Così argomentò Caifa, agli anziani riuniti, l'intimazione di Vitellio della resa di Gerusalemme: "Considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv 11, 50).
Questa testimonianza, sopravvissuta alle censure ecclesiastiche praticate al "vangelo di Giovanni", già da sola dimostra come il pericolo per l'intera nazione giudaica non poteva essere costituito dalle semplici forze ausiliarie reclutate da un Prefetto, individuato nei vangeli in Ponzio Pilato. Soltanto un Proconsole "Legatus Augusti" come Lucio Vitellio - capo dello Stato Maggiore romano di stanza ad Antiochia in Siria, inviato da Tiberio con pieni poteri su tutto il contingente militare dello scacchiere d'Oriente - era in grado di distruggere una eventuale rivolta degli Ebrei coordinata in una "Santa Alleanza".
Per Giovanni, il "Salvatore" Re dei Giudei, non vi fu alcuna possibilità di scampo e accettò il suo destino: la crocifissione. Venne arrestato e portato nella Fortezza Antonia, incatenato e piantonato a vista. La Veste Sacra, depositata nel Tempio, assegnata in tutela al Sommo Sacerdote Gionata, appena nominato da Vitellio e figlio del sadduceo conservatore Sommo Sacerdote Anano ("Anna" dei vangeli); mentre il Diadema (la Sacra Corona) ritornò sotto la custodia del Tribuno, Comandante della Guarnigione romana e rimarrà nella fortezza sino a che, per volere di Claudio Cesare, potrà cingere il capo del futuro Re dei Giudei, Erode Agrippa il Grande.
Il giorno successivo, dopo un lungo, inutile, interrogatorio, sotto tortura, per fargli confessare i nomi dei complici ed i particolari sulla organizzazione rivoluzionaria, Giovanni il Nazireo, figlio di Giuda, venne crocefisso, pubblicamente, come monito agli Ebrei per rimarcarne la sottomissione all'Impero Romano.
Era il capo dei Farisei Zeloti, la setta fondata da suo padre, la più popolare fra i Giudei per i principi filosofici e gli scopi prefissi. E gli Zeloti, come gli Esseni, erano votati al martirio pur di “salvare” la Terra Promessa da Dio al popolo d’Israele. In quanto Capi degli Zeloti, la esecuzione dei fratelli, figli di Giuda il Galileo, doveva essere pubblica: un esemplare monito agli Ebrei. Nove anni dopo Giovanni, nel 45 d.C., toccherà a suo fratello, Giuda.
Anche se questi fu ucciso da Cuspio Fado, lontano da Gerusalemme, la sua testa fu portata nella Città santa e lì esposta: altro avvertimento significativo. Due anni dopo, nel 47 d.C., sarà la volta di Giacomo e Simone: anch'essi crocefissi pubblicamente dopo essere stati catturati e processati dal Procuratore Tiberio Giulio Alessandro.
Non sarà così per il quinto fratello, il più giovane. Nel 66 d.C., Giuseppe, detto Menahem*, capo degli Zeloti, dopo aver distrutto la guarnigione romana di Gerusalemme, anche lui, come Giovanni, riuscirà a proclamarsi Re dei Giudei ma verrà ucciso dalle Guardie del Tempio agli ordini della aristocrazia sacerdotale che aveva spodestato.
* Identificare Menahem con Giuseppe, il quarto fratello di Giovanni "Jeshùa", sarà semplice come l'uovo di Colombo.
Zeloti, Esseni, Farisei, Sadducei e il popolo tutto, distanziati da un fitto cordone di sbarramento composto da miliziani romani, presenziarono in silenzio, impotenti, alla morte di Giovanni, sopraggiunta dopo una lunga agonia "fra i più atroci tormenti d'ogni sorta fino all'ultimo istante di vita" (Bellum VII cap. 8, 272), consapevoli del suo significato... mentre fuori Gerusalemme erano accampate le legioni di Roma. In base alla legge romana, alla vittima predestinata veniva appeso al collo un cartello con il nome e la motivazione della pena capitale.
I N R I : IOHANNES NAZIREVS REX IVDAEORVM
Emilio Salsi
...................................
Commento di Joe Fallisi:
Le parole riportate da Caifa: "Considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" indicano probabilmente la genesi, nella fantasia dei racconti popolari e dei prominenti che ne fornivano l'interpretazione, della figura del Cristo agnello sacrificale e salvatore, giunto, con la propria immolazione, non solo a mondare i "peccati" della sua gente, ma del mondo intero.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.