“Il
modo più efficace per distruggere i popoli è negare loro e
cancellarne la comprensione della propria storia”. (George
Orwell)
Martin McGuinness (Derry, 23 maggio 1950 – Belfast, 21 marzo 2017)
Erano
le cinque della sera e anche in Irlanda a quell’ora si finiva di
morire. E iniziava l’inganno dei vivi, di quelli che lo subirono,
di quelli che lo inflissero. Erano le cinque della sera tra il 30 e
il 31 gennaio 1972 e si era compiuta la mattanza di Derry, quella che
poi avremmo chiamato la Domenica di Sangue. Gli U2 ci avrebbero fatto
una canzone, Paul Greengrass ci avrebbe fatto un film che avrebbe
perpetuato l’inganno scaricando la mattanza ordinata dal governo di
Sua Maestà su qualche militare fuori di testa, Ci feci un film
anch’io. Anzi, era il momento culminante di un film che avevo
iniziato a girare due anni prima e che dei “troubles”,
dei guai, come chiamavano la guerra di liberazione
nordirlandese,.raccontava ciò che non è mai più stato raccontato.
Me lo aveva montato Marco Ferreri, nientemeno. Non c’è più,
disperso nei caveau delle polizie nordirlandese, irlandese e di
Scotland Yard. che lo confiscarono. La mia copia andò dispersa con
il resto dell’archivio di Lotta Continua, quando l’organizzazione
fu uccisa dai suoi fondatori.
Alle
cinque della sera gli spari del 1° Reggimento Paracadutisti erano
finiti. Camminando per i vicoli di Bogside, il cuore del ghetto
repubblicano, nazionalista, cattolico, irridentista, come lo volete
chiamare, si udivano lamenti e imprecazioni terribili. Ogni casa
trasudava il dolore per la perdita di un figlio, un padre, un marito,
un fratello, un amico. Da ogni casa usciva l’urlo della verità: 14
esseri umani, inermi e innocenti, massacrati a freddo dai sicari in
divisa di chi a Londra aveva ordinato che alle manifestazioni, alle
proteste, agli scontri con sassi e molotov, andava posto fine. O
questi “bastardi
fenians”
(antica definizione ingiuriosa della minoranza autoctona) si
sarebbero lasciati intimidire, terrorizzare e l’avrebbero smessa di
rivendicare parità con i coloni protestanti, unionisti con la
Corona, classe dirigente, classe ricca. Ma anche un proletariato e
sottoproletariato altrettanto escluso, ma fanatizzato dall’illusione
di essere della stessa “razza” dei padroni, nel giro nobile,
comunque non quello degli ultimi. Destino tragicomico dei sudditi
operai dei signori colonialisti. Avrebbero, i cattolici,
rinunciato a chiedere lavoro, case che non fossero “match
boxes”,
accesso alla pubblica amministrazione, alla sanità, a scuole decenti
e non britannizzate, la fine delle sevizie degli “Special
B”,
il corpo di picchiatori della polizia, e quella degli incursori e
piromani unionisti dai quartieri dove sventolava l’Union Jack.
O,
se non l’avessero capita, testa dura quella degli irlandesi, in
lotta contro il colonizzatore da oltre due secoli, che lo scontro da
civili contro le forze d’occupazione si militarizzasse pure. Che
tirassero fuori dalle vecchie pagine di storia – ultima
insurrezione dell’IIRA negli anni ’50 – la fanfaluca
dell’Irlanda unita e da sottoterra le vecchie spingarde. Per
l’esercito di Sua Maestà sarebbe stata un passeggiata e la
simpatia del mondo verso chi brandiva miseria, discriminazione,
apartheid, repressione, volontà di riscatto, si sarebbe tramutata in
revulsione verso i “terroristi” dell’IRA. Vecchio trucco. Che
non funzionò, neanche dopo vent’anni, dato che era la lotta di un
popolo. Funzionò solo quando una delle due parti accettò di
disarmare. La parte di Martin McGuinness.
Alle
cinque della sera stavo davanti a una tazza di tè, accanto a
un camino, in una “casa sicura”, nelle parti di Free Derry dove
l’esercito di occupazione non osava penetrare. Sullo schermo un Tg
esibiva un tronfio e arrogante generale, tronfio e arrogante come
solo i generali sanno essere, quelli anglosassoni poi… Generale
Ford, comandante in capo delle forze britanniche in Nordirlanda, cosa
cazzo stai dicendo? Che a ignari e pacifici parà i cecchini dell’IRA
avevano sparato dai tetti (neanche un ferito tra i militari) e che i
parà a malincuore avevano dovuto difendersi, rispondere ai
terroristi? Che pare ci siano alcuni feriti…..
Dopo
la mia esperienza di inviato di guerra in Palestina, Guerra dei Sei
Giorni del 1967, dove si raccontava di un popolo, qui insediato dalla
Bibbia, a rischio di essere gettato in mare da sbrindellate armate
arabe, mentre invece il suo esercito, il quarto al mondo, radeva al
suolo villaggi con i vivi dentro, pensavo di essermi corazzato
rispetto alle verità dei padroni. Ma qui la faccia tosta arrivava al
sublime e ti insegnava che di quelle “verità” non devi fidarti
mai, che il padrone, il dominatore, il capitalista mente sempre e
sempre per la gola. La sua gola di antropofago.
.
McGuinness
nei giorni in cui mi salvò dai parà.
A
quel punto era necessario salvare le mie foto e registrazioni audio.
Documentavano tutto, il corteo pacifico dei 20mila, l’irruzione del
battaglione parà sulla coda della marcia, dai primi agli ultimi
spari, il panico, la folla disperata o furibonda in fuga, le urla
delle donne, le bestemmie e gli insulti degli uomini. Le teste
fracassate, le pance bucate, i colori del viso che diventavano gialli
e poi bianchi, il pilastro scheggiato dalla pallottola sopra la mia
testa, i buchi nella finestra mentre scattavo foto e che erano la
reazione della carabina Sterling di uno degli assassini.
C’era
il parà che, ginocchio a terra, prende la mira, il ragazzo di 16
anni, Jack Duddy, che fermo, a braccia aperte, come inciso nell’aria,
non ci credeva e la pallottola la becca nel cuore, crolla, sbianca.
Piovono raffiche, ma siamo tutti lì attorno a lui che scolora, a
occhi spalancati come attoniti, il prete eroico, l’infermiere
eroico, un vecchietto eroico, per soccorrere, indifferenti alla morte
che stava loro addosso. Lo sollevano, lo portano via a braccia,
braccia penzoloni, curvi per schivare gli spari che continuano. Io
sparo scatti su scatti contro gli spari su spari. Su Jack e poi su
Barney, su Jim, su Patrick…..Oggi una di quelle foto ci saluta da
una facciata, quando entriamo a Derry, ancora “free”.
La
radio militare, intercettata dai ragazzi di un’IRA allora nascente
a Derry, aveva ordinato di “arrestare quel fotografo straniero,
utilizzando qualsiasi mezzo necessario”. Mettere le mani sul
materiale che avrebbe potuto incriminare, non solo soldataglia
abbrutita, ma un governo, un’eccellenza dell’Occidente civile. La
stampa internazionale, accorsa per la manifestazione dei diritti
civili più grande dall’inizio della rivolta, era stata confinata
nella cittadella protestante, dietro le barriere tirate su
dall’esercito. Non doveva vedere, raccontare. Ma noi giornalisti
poveri abitavamo tra le famiglie del ghetto, eravamo già al di qua
della barriera, avevamo visto, potevamo raccontare. Qualcosa di
diverso di quanto blaterato dal generale Ford. Dovevamo essere
fermati, i materiali sequestrati.
Conoscevo
Martin McGuinness, neanche vent’anni, già capo della brigata di
Derry dell’IRA Provisional. La serietà e l’allegria di un
combattente antico e giovane. Un carisma sconfinato. Era una notte
buia e tempestosa, consentitemi la citazione banale, ma appropriata.
Per la nebbia non si vedeva a tre metri dalla macchina. Una fortuna.
Per vie secondarie, carrarecce, tratturi, fendendo una nebbia che ci
occultava ai britannici, Martin mi portò alla vicina frontiera con
la Repubblica, contea di Donegal. Scambio di vetture e
accompagnatori, efficienza che avrebbe mantenuto in piedi la
resistenza fino al 1998, Venerdì Santo, accordo del disarmo e della
“pacificazione”. E oltre. E così che, dai giornali e dalla tv di
Dublino, una verità altra, rispetto a quella del generale serial- e
masskiller, potè raggiungere il mondo e far capire, a chi a capire
era disposto, “di che lacrime grondi e di che sangue” il
monopolio della forza dei padroni che si proclamano Stato. Il loro.
Nel
corso della mia lunga frequentazione di quel popolo indomito, la più
lunga lotta anti-coloniale della storia umana, Martin McGuinness l’ho
incontrato tante volte. Mi informava, mi faceva conoscere cose,
aspetti, compagni partigiani, il capo di Stato Maggiore a Dublino,
allora McStiofain, la sua bellissima mamma che mi cucinava l’arrosto
di agnello. Mi ha onorato della sua fiducia. Gli ho voluto bene anche
dopo che le scelte, più del gran capo Gerry Adams che sue, avevano
contrapposto la sua visione su ciò che sarebbe stato bene, per la
sua comunità e per l’Irlanda tutta, alla mia e a quella di coloro
che ritennero di mantenere fede al giuramento di liberazione,
al poeta combattente Bobby Sands e ai suoi dieci compagni, morti,
avvolti in coperte luride, dopo due mesi di sciopero della fame, per
non essersi fatti travestire e degradare da criminali comuni. Come
alle migliaia di martiri dell’unità, dell’identità, della
libertà.
Bobby
Sands e Nelson Mandela
Un
quarto di secolo di lotte, dopo due secoli di lotte, dopo la carestia
– “disastro naturale” come i tanti manovrati dai potenti - a
metà dell’800, che aveva dimezzato, tra morti ed emigranti, la
popolazione d’Irlanda perché abbandonata al morbo delle patate,
mentre i latifondisti inglesi si arricchivano con l’esportazione di
ogni bene irlandese. Dopo la mutilazione della nazione, con la
negazione dell’indipendenza alle sei contee del Nord. Dopo Bobby
Sands e i suoi compagni assassinati da Margaret Thatcher. Dopo una
storia infinita di sogni e sangue, di sopportazione al limite del
sovrumano, non poteva finire così. Con un governo provinciale
fantoccio a Belfast, comandato a distanza da Londra e in cui gli
schiavisti d’antan e di sempre dividono un potere vernacolare con
gli schiavizzati di ieri e di sempre. Perché nelle condizioni di
vita, nelle privazioni sociali, nella subalternità politica, nello
spadroneggiare degli unionisti (a cui non si è chiesto di
disarmare!) nulla è cambiato.
Qualche
serie di casette a schiera in più. Un posto da subalterno in
polizia, o nell’amministrazione. Le strade rattoppate. I pub
riverniciati. Le scuole alla pari. Ma sempre, come ribadiscono
episodi che ricorrono oggi come ieri, a rischio di teppisti unionisti
armati.
Martin
McGuiness ne era diventato il co-premier accanto ai proconsoli di
Londra, gli unionisti orangisti, dichiaratamente fascisti, di Ian
Paisley. Se il cuore di un combattente temprato come lui non ha
retto, a soli 66 anni, penso di poter immaginare che sia stato anche
per quella resa, per quell’Irlanda verde e unita sparita
dall’orizzonte, per quell’inchino alla regina, per la rabbia di
tanti, per i sogni di gioventù, per dover affrontare nella sua Derry
gli sguardi di dolore e di sgomento dei suoi, di coloro di cui a
vent’anni aveva impersonato la dignità e la certezza della
vittoria. Per dover collaborare, con padroni e nemici di una vita,
alla persecuzione e repressione di quanti, nel Nord, soffrono
esattamene come prima e di coloro, suoi compagni d’un tempo, che
insistono a non arrendersi e continuano a chiamarsi IRA, Real
IRA, Continuity IRA, come
nei secoli.
Gerry
Adams se ne è andato al Sud, nella Repubblica. Sinn Fein, il partito
che si diceva braccio politico dell’IRA, è diventato braccio
politico di una tenue socialdemocrazia sud- irlandese che, irritata
dalla Brexit, sogna di proseguire un boom, che è tutto del capitale
e delle multinazionali, restando nell’UE, nelle fauci di chi macina
nazioni e classi subalterne..
Il
24 gennaio 2013 moriva Dolours Price. Militante repubblicana, non era
ancora una volontaria dell’IRA Provisional quando la portai in
Italia, per un giro di conferenze nelle università. Lei e la sorella
Marian, nel 1973, misero bombe al palazzo di giustizia di Londra,
l’Old Bailey. Un atto simbolico, non ci rimase nessuno. Ma furono
condannate all’ergastolo, poi ridotto a vent’anni. Accusò Adams
di tradimento, di aver addirittura negato di essere stato capo di
stato maggiore dell’IRA. Per questo, denunciò, fu minacciata da
elementi del Sinn Fein. Morì per un eccesso di barbiturici, senza
aver mai dato segni di volontà di morte, combattiva più che mai.
Non ci furono indagini.
Se
oggi giri per i quartieri delle opposte comunità, trovi che non è
cambiato niente. A Falls Road di Belfast come a Derry, repubblicani,
a Shankill Road come a Coleraine, unionisti, gli stessi murales, gli
stessi vessilli, le stesse invocazioni di giustizia, le stesse accuse
di repubblicanesimo, gli stessi simboli e ricordi di guerra. Hai
voglia a parlare dell’accordo del Venerdì Santo 1998, Good
Friday, qui
in sostanza non è cambiato niente. Ci sono ricapitato l’anno
scorso, per deporre all’ennesima inchiesta su Bloody Sunday,
stavolta condotta dalla polizia nordirlandese, figurarsi. Già i
militari della strage si sono rifiutati di deporre e nessuno li
condannerà mai. Tanto meno i mandanti. Il mio avvocato e grande
amico, Ciaran, che è anche il legale di molti prigionieri
repubblicani e di coloro che dai filo- britannici sono stati offesi,
mi ha portato in giro per tutta Belfast. Pareva il 1970, o 80,
o 90.
A
Derry ci sono tornato per il 45° anniversario della Domenica di
Sangue. C’ero stato, invitato dal Comitato delle Famiglie delle
vittime, nel 1992, al ventesimo anniversario. Al 30° no. Niente
invito, c’era stata la “pacificazione” e uno come me, che agli
inglesi, nuovi partner, le palle le aveva rotto parecchio, avrebbe
stonato nell’atmosfera della pacificazione. Stavolta sono
stato invitato dai “dissidenti”, gli “Artisti di Bogside”,
Tom Kelly, suo fratello William (morto da poco) e Kevin Hasson. Sono
gli autori dei più bei murales di Derry, compreso quello tratto
dalla mia foto di Jack Duddy. Vanno in giro per il mondo a far
raccontare ai muri dolori e onori degli oppressi, infamie e ottusità
degli oppressori.
Anche
a Derry non è cambiato niente. La povertà è la stessa di allora,
la gente più malmessa, il corteo della ricorrenza ancora combattivo,
ma senza sorrisi. La brutta, la tragica novità è la spaccatura
all’interno di una comunità che era rimasta compatta a dispetto di
tutto. I cambiamenti, le svolte, le “innovazioni” di Gerry Adams
non sono passati. Non nella maggioranza. Così Adams la sua cerimonia
l’ha fatta quasi da solo, davanti all’ingresso di “Free Derry”,
attorniato da pochi. Nel corteo per il solito percorso, dal verde
della collina di Creggan alla valle delle casette “match
box”
di Bogside, c’erano tutti gli altri, con le bandiere dell’Irlanda
unita.
Solo
la mattina, davanti al cippo con i nomi delle vittime, s’è vista
un po’ di unità. Gli stanchi, gli irriducibili. E qui c’era
anche Martin McGuinness. Si era dimesso dal governo di Stormont (così
si chiama il palazzo a Belfast), un po’ perché gravemente
sofferente di cuore, ma anche perché la collega, co-premier della
destra-ultrà unionista, era rimasta coinvolta in uno scandalo
immobiliare e non si voleva dimettere. E forse, ancora, per cose più
profonde. Che quella mattina segnavano il suo viso pallido.
Fulvio Grimaldi
Post Scriptum di Fulvio Grimaldi -
RispondiEliminaIl funerale di Martin McGuinness, https://www.facebook.com/176817059041033/videos/1337739349615459/ comandante dell’IRA, eroe della resistenza nordirlandese fino all’accordo del 1998 che avrebbe portato un’apparente pace, ma nessuna soluzione ai problemi sociali e civili della comunità repubblicana e tanto meno alla questione storica della riunificazione nazionale. Martin McGuinness, nonostante i dissensi di coloro che non hanno accettato gli accordi, resta profondamente nel cuore della comunità repubblicana. Il suo contributo alla resistenza, al risveglio delle coscienze, è incancellabile. Era un mio amico e ha salvato me e la mia documentazione della Domenica di Sangue dal tentativo degli stragisti britannici di liquidarci.