1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o
trenta, o anche settanta, secondo l’estro)
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione –
democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola
accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla
per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di
memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi
Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per
non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto
in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro
devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno
cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a
favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi”
di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti
che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la
volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del
resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci
anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il
tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al
raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli
italiani”, diciamo: parlate per voi.
2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente
il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del
Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a
proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo
fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con
disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto
2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma
di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato
all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità.
Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera
Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da
“analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme
istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica,
esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò
che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi
dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è
l’Europa alla quale volete dare risposte?
3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo:
chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra
“governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia,
presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso,
partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in
linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della
rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile
alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice
“governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.
4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento,
l’organo della democrazia
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto
con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per
l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e
non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti
dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione
come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di
rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per
l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non
sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di
democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere
tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla
Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di
rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle
più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di
non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista
una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa
vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale
premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per
portarla a compimento. (…)
5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente
capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme
sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per
debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo
dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite
nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti
all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce
di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati
come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni
parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo
parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di
favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le
istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a
raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli
elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la
riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da
parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in
spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle
minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi
diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.
6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è
un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli
sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria
costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di
convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e
la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I
governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo
d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come
credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno
forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri,
comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si
vuole. (…)
7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali
non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio
della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma
costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei
nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in
Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia
di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base
le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a
Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della
Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima
ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi
concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del
Senato. (…)
8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una
genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi
e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum
confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori
porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il
referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo
trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una
Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un
governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna
referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si
trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte
politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che
dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi
completamente allineata.
9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si
tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare
i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una
trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la
piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano
dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per
linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un
intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La
democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di
oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà
adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché
siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a
questo adeguamento spacciato come riforma.
10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente,
avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino
Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del
Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi
renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le
istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza
democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si
parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della
democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della
“democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di
consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza,
in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)
11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del
nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore
dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono,
ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace
affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti
istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente
attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”.
Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta
piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della
politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento.
Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli
occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per
portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli
ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia)
che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli
organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli,
ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far
opera costituente.
12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo
l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato
un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro
vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori
costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro
che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in
venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri
riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare
completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente:
istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono
in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di
governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni
è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica
incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate
a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)
13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione
preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la
riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è
mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso
un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel,
che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota,
la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito
in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati,
perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di
garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova
alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre
alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto
referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e
autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto,
che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese
per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di
voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete
l’essenza. (…)
14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da
numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della
Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante
audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad
approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme
costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un
lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni
modifica della collocazione delle competenze e delle procedure
corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che
si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e
della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo
davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo
“eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della
Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per
ottenere la fiducia della Camera. Quanto poi alla bontà del testo di
riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la
definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla
Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e,
se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi
rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La
funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per
(sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle
disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze
linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione
di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la
legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni
fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni
di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che
stabilisce le norme generali, le forme e i termini della
partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della
normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che
determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio
di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui
agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma,
116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120,
secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Se questo
pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato
la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto
milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai
contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni
dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione
nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato
e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto
enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se
saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali.
Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità
alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma,
se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più
ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di
“conformità”. Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a
che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del
cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a
modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con
parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato
il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità
l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno
dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma
lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a
favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore
dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza
parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa:
patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare
insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non
è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”? Dov’è
oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della
Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a
“limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le
Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi
e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si
riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se
manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra
libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al
più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è
utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a
dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente
strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma
sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli
volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della
scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la
codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la
vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la
conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già
hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente,
politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare.
Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai
parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i
parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non
nuocere. Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione
della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La
Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma
costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa.
L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo
significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la
nostra libertà. Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che,
per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli
meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è
destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua
insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse
meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.
15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e
uno Zagrebelsky
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire
che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle
politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che
devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla
democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un
motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il
valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare
candidamente un suo retro-pensiero. Questo: che tra una Costituzione e
una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che,
quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in
accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è
costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare
rassicurante.
Gustavo Zagrebelsky
Commento di Giorgio Mauri:
RispondiElimina“Mi sto chiedendo se Servegnini, che ha contato la "cazzate" sparate da Trump nel confronto con la Clinton, abbia preso nota di quelle di Renzi il 30 settembre 2016 nel confronto con il nobile e intelligente Zagrebelsky. Credevo che Trmup fosse capace di una cafonaggine e di una sfacciataggine irraggiungibili, ma Renzi lo supera in tutto e per tutto, compreso il mellifluo e irritante uso di espressioni demodé e deprimenti quali "Gufi", "Capelloni", per arrivare al "come lei mi insegna" e all'uso rivoltante del "quando tu hai di fronte etc. etc." Un "vecchio" (Renzi) che non ci ha risparmiato nulla, affondando il coltello nell'ignoranza più profonda, nella mistificazione più svergognata e nella totale mancanza di intelligenza nell'esporre le proprio "fandonie". Eppure in molti compreranno questa bufala. Io mi chiedo come sia possibile pensare di essere in democrazia allorché uno non eletto fa un accordo con uno destituito da parlamentare per cambiare la costituzione, senza sapere nulla in materia, e con il voto di parte di un parlamento illegittimo pretende pure di procedere!”