Povero
Giuseppi. Neanche il tempo di scongiurare il pericolo di un governo
Draghi per la “fase 2”, e già un altro incubo viene a turbare le
sue notti: quello di un governo “tecnico” affidato recentemente a Vittorio
Colao, il manager che lo stesso premier aveva incaricato di presiedere una delle tante task
force dai tratti
piuttosto fumosi.
Una
cosa è certa: nessuno sembra prendere più sul serio l’avvocato
Conte, nessuno appare disposto a lasciare a lui e a Rocco Casalino le
redini del governo per quando si dovranno affrontare problemi
infinitamente più complessi di quelli odierni. L’azzimato
“avvocato del popolo” ha fatto comodo come strumento per mettere
insieme una qualche maggioranza che scongiurasse le elezioni
anticipate, la vittoria immediata del fronte sovranista e – ultimo
non ultimo – la vittoria delle destre anche alle presidenziali del
2022. Sono serviti, in questa fase, il suo sapersi adattare ai più
spericolati cambi di maggioranza e la sua capacità di ricercare le
più ardite soluzioni di compromesso, di conciliare capra e cavoli,
il diavolo e l’acquasanta. Ma, malgrado lui si creda Napoleone,
nessuno di quelli che contano è disposto a seguirlo fino a Waterloo.
E
allora – ne abbiamo parlato su “Social” del 3 aprile – ecco
spuntare nuovamente il nome di Draghi, ed ecco i grandi organi
d’informazione (e i potentati che li posseggono) lanciarsi a corpo
morto in una sperticata campagna di beatificazione dell’ex
governatore della BCE, indicato all’opinione pubblica italiana come
un nuovo “uomo della provvidenza”, come l’unico elemento in
grado di tirarci fuori dai guai.
A
un certo punto – nella prima settimana di aprile – l’operazione
Draghi sembrava cosa fatta. Nei corridoi dei palazzi romani si
sussurrava che a muoversi in quella direzione sarebbe stato
addirittura lo stesso Mattarella, forse anche lui stufo
dell’esasperato protagonismo del Presidente del Consiglio, delle
troppe conferenze-stampa convocate all’ora dei telegiornali, degli
innumerevoli DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri)
con cui Giuseppi ha gestito monocraticamente l’emergenza sanitaria.
Peraltro – sia detto per inciso – fior di giuristi (valga per
tutti il nome di Sabino Cassese, presidente emerito della Corte
Costituzionale) hanno sollevato più di un dubbio sulla legittimità
del modo di procedere di Conte, considerato assai poco attento ai
poteri e alle prerogative del Parlamento, del Ministro della Salute e
dello stesso Presidente della Repubblica.
Forse
non è stato un caso che, proprio in quei giorni, Giuseppi II abbia
chiesto udienza al Papa. In fondo – stando almeno a certe voci di
corridoio – il vero ambiente di riferimento dell’ex avvocato del
popolo non sarebbero i Cinquestelle e neppure il PD (malgrado lo
spericolato endorsement
di Zingaretti), ma proprio la Santa Sede. Sarebbe stata la Segreteria
di Stato vaticana – giura qualcuno – a favorire l’elezione
dell’illustre sconosciuto Giuseppe Conte alla guida del governo
giallo-verde nel 2018 e poi di quello giallo-rosso nel 2019.
Sia
stato come sia stato, comunque, io non escluderei affatto che, nei
giorni del Draghi über
alles, il povero
Giuseppi sia andato a chiedere protezione oltretevere. Bergoglio –
si dice – ha un ascendente particolare su Mattarella.
Pur
se così fosse effettivamente stato, comunque, non credo che a
determinare l’affievolirsi e poi il definitivo tramonto
dell’operazione Draghi sia stata l’ipotetica connessione
bergogliano-mattarelliana, bensì – del tutto inconsapevolmente –
lo stesso Mario Draghi.
Mi
spiego. L’obiettivo finale di Sir
Drake – ne sono
tutti convinti – non sarebbe la Presidenza del Consiglio, ma la
Presidenza della Repubblica. In tale prospettiva, la guida del
governo della “fase 2” sarebbe servita soltanto a preparare il
terreno per il grande balzo del 2022. Draghi aveva cominciato a
muoversi abbastanza bene in vista di un governo di “unità
nazionale”; aveva anche aperto abilmente ai suoi avversari
sovranisti, con la nota intervista al “Financial Times”.
Se
nonché, quello del 2022 – stando sempre ai si dice – sarebbe
anche il sogno proibito di Romano Prodi, capo indiscusso del più
potente degli ambienti della sinistra italiana, quello di una destra
economica di fatto che detta la linea alla sinistra ufficiale:
euro-oltranzismo, privatizzazioni, riforme “strutturali”,
eccetera.
Ecco,
dunque, che negli ambienti “che contano” qualcuno ha cominciato a
fare le pulci alla candidatura Draghi ed alla ipotesi di un governo
di “unità nazionale”: pericoloso – si sussurra in certe stanze
romane – sostituire l’attuale maggioranza giallo-rossa con una
più ampia maggioranza di nuovo conio, che potrebbe implodere da un
momento all’altro e ricacciare i grillini nelle braccia della Lega.
Meglio,
dunque – continuano i sussurri – puntare a mantenere l’attuale
quadro politico anche nel dopo-Conte. L’uomo giusto per questa
operazione, naturalmente, non potrà essere Mario Draghi. Su chi
puntare, allora, per un governo “tecnico” che non metta in
pericolo i futuri assetti quirinalizi?
Ecco,
a questo punto, spuntare il nome di Vittorio Colao, manager –
secondo alcuni – “dalle indubbie capacità”, appena nominato
alla guida dell’ennesimo comitato tecnico (in totale sono ben 15,
forti di 450 “esperti”) che dovrebbe aiutare il governo a varare
la “fase 2”.
Altri,
tuttavia, non sono del tutto concordi sulle indubbie capacità. Per
esempio, il temutissimo Luigi Bisignani (forse uno degli uomini più
potenti d’Italia) così si esprime sul quotidiano romano “Il
Tempo”: «Primo
della classe, tanto puntiglioso quanto poco creativo, Colao è solo
la contromossa di un gruppo di potere per cercare di rendere più
difficile la corsa per Palazzo Chigi di Mario Draghi; dove, peraltro,
quest’ultimo non pensa proprio di andare, puntando direttamente al
Quirinale. Ma, a parte la narrazione entusiastica, chi sono gli
sponsor e cosa faceva il super manager [Colao] a Londra dopo che, in
anticipo e certamente non per sua volontà, bensì per i non
brillanti risultati, aveva lasciato Vodafone? Fondamentalmente andava
in bicicletta per le campagne e si annoiava, il fondo General
Atlantic non riusciva a sfamare il suo ego, convinto com’è di
essere il nuovo Marchionne, del quale non ha mai dimostrato né la
statura internazionale, né la necessaria conoscenza di un sistema
complesso come quello italiano. A spingerlo nelle braccia di
Mattarella, prima in funzione anti Conte e poi anti Draghi, è stata
una manovra accerchiante che politicamente ha due nomi, Enrico Letta
e Paolo Gentiloni, con l’appoggio di tutto un mondo cattolico, tra
cui spiccano Massimo Tononi, ex presidente di Cassa Depositi e
Prestiti, Romano Prodi, i soliti Guzzetti e Bazoli e i consulenti di
McKinsey che l’ha sempre sponsorizzato e che ora lui “ricambia”,
con forza, in ogni dove.»
A
voler dar retta a Bisignani, dunque, una eventuale premiership di
Vittorio Colao (che i buontemponi già chiamano Colao
Meravigliao) non
sarebbe poi una soluzione così brillante come si vuol far credere. A
meno che il suo còmpito non sia soltanto quello di evitare
consultazioni anticipate e di assicurare uno svolgimento “normale”
delle prossime elezioni presidenziali. Purtroppo, però, prima di
arrivare a scegliere il successore di Sergio Mattarella ci sarà da
assicurare la sopravvivenza dell’Italia alla crisi post-Coronavirus
ed all’attacco frontale che – Mes o non Mes – nei prossimi mesi
sarà mosso al nostro assetto economico da una Unione Europea che è
ormai soltanto il paravento del Quarto Reich di madame Merkel.
Speriamo
bene.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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