Tutti sanno cos’è una matrioska. È una di quelle tipiche bambole russe che si compone di più pupazzette di varia dimensione, concentriche – diciamo così – che si collocano una all’interno dell’altra. All’esterno, l’involucro più grande, la “madre”. Al suo interno una bambola più piccola, che ne racchiude una ancora più piccola, e così via fino alla più piccola di tutte, il cosiddetto “seme”.
È un meccanismo ingenuo ma efficace: serve a presentare l’immagine esterna di una bambola-madre, ed a nascondere l’origine vera dell’oggetto, il “seme”. Un po’ come le “scatole cinesi”, e un po’ – anche – come certe notizie diffuse dalla grande stampa internazionale.
Prendete i cosiddetti Panama Papers, per esempio. Sono una “madre” formata da 11 milioni e mezzo (mica bruscolini!) di documenti riservati, che uno smaliziato haker avrebbe sottratto ai blindatissimi archivi dello studio legale panamense-israeliano Mossack Fonseca, per farli poi pervenire – bontà sua – all’International Consortium of Investigative Journalists.
Il Consorzio – con sede a Washington – è la seconda bambola della serie: è costituito da un pull di 165 giornalisti “d’inchiesta” appartenenti ad un centinaio fra le maggiori testate liberal americane ed europee. E, tuttavia, il Consorzio non è nato da uno spontaneo afflato cooperativistico di giornali e giornalisti, ma da un lungimirante impulso ricevuto nel 1997 dal Center for Public Integrity.
E siamo alla terza matrioska, americana anche questa. Il CPI è una specie di “esercito della salvezza” della politica internazionale, la cui missione ufficiale è di vigilare sugli abusi delle classi dirigenti del mondo intero. Naturalmente, nella loro immensa saggezza, i moralisti del Centro si riservano di decidere loro quali siano i “cattivi” da tenere d’occhio, da seguire con particolare attenzione, alla ricerca spasmodica di un qualunque indizio che ne riveli abusi o debolezze. In particolare, sono i loro analisti a stabilire chi governa in modo democratico e chi no. E nel mondo di oggi – si tenga presente – un sospetto di mancata democrazia può anche costare una rivoluzione “spontanea” modello Ukraina, o un esercito “liberatore” che si materializza dal nulla con tanto di carriarmati e di missili, come in Libia o in Siria.
Ma c’è una quarta bambola, il “seme”. O meglio – nella fattispecie – i “semi” che nel lontano 1989 finanziarono la nascita del Centro e che, a tutt’oggi, ne sono i principali supporter. Fra questi – apprendo dal prezioso blog di Giampaolo Rossi – il Rockfeller Fund e la Ford Foundation, due organizzazioni che sono note per rappresentare, oltre ai grandi poteri finanziari di Wall Street, anche storici e consolidati legami con il Dipartimento di Stato USA e con le “agenzie” che ne supportano l’azione. Ma c’è un terzo “seme”, fra gli altri, che a me sembra particolarmente significativo: è l’Open Society Foundations, organizzazione politico-filantropica che fa capo a Georges Soros, magnate americano (ma ebreo-ungherese d’origine) protagonista di alcune speculazioni finanziarie che hanno impoverito intere nazioni: ivi compresa l’Italia, vittima del suo attacco speculativo del 1992 che ci costò una svalutazione della lira del 30% ed una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari. Questo fior di filantropo ha impiegato una parte dei suoi miliardi per sostenere certe strane “rivoluzioni colorate” in varie parti del globo, incurante dei rischi per la pace mondiale che potrebbero derivare da una politica di destabilizzazione generalizzata. L’ultimo suo pallino è l’Ukraina, da lui concepita come potenziale casus belli che potrebbe propiziare una guerra fra Russia ed Unione Europea:«I membri dell’Unione Europea sono dei paesi in guerra – ha dichiarato – ed essi devono cominciare ad agire come tali.» L’ultima sua bordata contro l’odiato Putin, il finanziere l’ha lanciata in una intervista al quotidiano inglese “The Guardian”, che – guarda caso – è stato una fra le maggiori casse di risonanza dell’affare dei Panama Papers. Come a dire: dalla madre al seme e dal seme alla madre. Come volevasi dimostrare.
Naturalmente, non occorre dire che tutta questa gigantesca operazione made in USA (a proposito, avete notato che non è coinvolto un solo nominativo americano?) aveva un obiettivo preciso: Vladimir Putin. Peccato che non siano riusciti a trovare neanche un file a suo nome, e che i giornalisti investigativi e filantropici abbiano dovuto ripiegare su personaggi “a lui vicini”; in particolare su un amico violoncellista, il quale sembra accantonasse fondi per comprare uno Stradivari ed altri preziosi strumenti da museo.
Intanto, pochi giorni fa, è stata resa pubblica la situazione patrimoniale del leader russo. Il suo stipendio è grosso modo equivalente a 10.000 euro al mese, diciamo la metà di quanto guadagna un deputato regionale siciliano. Case: può naturalmente contare su tutta la sterminata dotazione degli immobili pubblici che sono a disposizione del Presidente della Repubblica Russa, ma la sua residenza di riferimento è un’abitazione di 150 metri quadri, più o meno un quinto dell’attico di un cardinale romano.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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P.S. Al referendum del 17 aprile 2016 il Quorum non è stato raggiunto (come ci si aspettava) ma risultato schiacciante: 86% di SI, 14% di NO. Puntuale la smargiassata del capo dei boy-scout, che canta vittoria per questo risultato, visto come beneaugurante in previsione del referendum di ottobre. Forse il Vispo Tereso dimentica che il referendum sulle sue miracolose riforme sarà confermativo e non abrogativo. Il che significa che non sarà necessario alcun quorum. Quindi con gli stessi numeri (considerato che gli astensionisti dovrebbero essere più o meno gli stessi) potrebbe prendere una tranvata da 86 a 14, essendo quindi costretto ad onorare la promessa di togliersi dalle balle. Contento lui...
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