Il
referendum – si sa – è un istituto giuridico di “democrazia
diretta”, cioè di democrazia vera. Consiste nel chiedere
direttamente al corpo elettorale di pronunziarsi su questioni di
primaria importanza. Ciò per evitare che su tali materie gli eletti
del popolo possano decidere in difformità con il sentire di quanti
li hanno incaricati di rappresentarli.
E
siccome democrazia
significa potere (cratos)
del popolo (demos),
ecco che il referendum si incarica di rimettere le cose a posto,
dando priorità alla volontà degli elettori rispetto a quella degli
eletti. Naturalmente, non sempre gli eletti gradiscono, perché ciò
viene a privarli della possibilità di esercitare il loro potere nel
modo più libero e incontrollato. Ciò spiega il motivo dei tanti
ostacoli che – in maniera più o meno aperta – la classe politica
ha sempre posto al ricorso a questa elementare manifestazione di
democrazia.
Per
quanto riguarda l’Italia, in particolare, già “la Costituzione
più bella del mondo” limita fortemente l’uso dei referendum: sia
escludendo aprioristicamente determinate materie (fisco e trattati
internazionali); sia ammettendo soltanto referendum abrogativi (è il
caso del referendum di domenica prossima, che chiede di cancellare un
provvedimento legislativo già approvato) ed escludendo ogni formula
propositiva.
Ma
non è tutto. Perché gran parte della classe dirigente ha
sistematicamente sabotato il ricorso ai referendum abrogativi,
soprattutto quando era chiaro che la volontà del corpo elettorale
era contraria a quella del ceto politico. L’arma più usata per
evitare di dover obbedire alla volontà popolare è stata – da
sempre – quella del quorum.
La legge italiana, infatti, prevede che un referendum sia valido solo
se si è recata alle urne la metà più uno del corpo elettorale.
Norma, questa, chiaramente anacronistica. Poteva avere un senso fino
a qualche decennio fa, quando la gente votava in massa alle elezioni
di ogni ordine e grado. Non certo ora, con un astensionismo
fortissimo ed in crescita continua. Alle elezioni nazionali del 1976
andò a votare il 93% del corpo elettorale. Adesso – dato delle
europee del 2014 – ad onorare le urne è stato soltanto il 57%
degli aventi diritto; percentuale che si riduce ulteriormente se
depurata dai numerosi voti bianchi o nulli.
In
un contesto del genere è quasi impossibile che un qualunque
referendum possa ottenere una partecipazione superiore al 50%. Ecco,
così, un aiutino calato dal cielo per
chi sa di essere perdente:
basta invitare a disertare le urne o ad “andare al mare” per
essere quasi certi di bypassare il giudizio popolare.
Naturalmente,
nessuno di quei signori ammetterà mai di aver voluto continuare a
governare in modo palesemente antidemocratico. Anzi, diranno che il
tale referendum non si sarebbe mai dovuto fare, perché il mancato
raggiungimento del quorum dimostra che la maggioranza degli italiani
non è interessata alla specifica materia. Bugìa pietosa: la
maggioranza degli italiani – più semplicemente – non crede più
nella politica e, sbagliando, delega a chi va a votare la
responsabilità di decidere per tutti. Il rimedio – chiaramente –
non è non fare i referendum, ma ridurre il quorum richiesto ad una
percentuale ragionevole: oggi, non più del 35-40%.
D’altro
canto – se non ricordo male – in tutti gli altri Stati
dell’Unione Europea il quorum per la validità dei referendum è
assai più basso che in Italia. A proposito: in Olanda – dove il
quorum richiesto è del 30% – si è svolto la settimana scorsa un
referendum sull’allargamento mascherato dell’UE all’Ukraina;
allargamento che avrebbe aperto le porte dell’Europa a milioni di
migranti ukraini, in fuga da una situazione economica disastrosa dopo
che il Paese è stato trasformato in un avamposto militare
anti-russo. Ebbene, gli olandesi hanno detto “no” con una
percentuale schiacciante (vicina ai due terzi) sbugiardando la
politica eurodipendente e filoamericana del governo dell’Aja.
Naturalmente, gli organi d’informazione italiani si sono ben
guardati dal dare risalto all’evento, ma secondo molti osservatori
internazionali questo potrebbe essere il primo de
profundis
per l’Europa, che probabilmente favorirà la vittoria dei “si”
ad un altro referendum, quello che da qui a qualche mese deciderà
dell’eventuale uscita dell’Inghilterra dall’Unione.
Ma
torniamo all’Italia e al referendum di domenica 17 aprile 2016. Dunque, è
evidente che gli italiani sono contrari alla politica petrolifera (si
fa per dire) del governo Renzi; sono contrari ad “affittare”
pezzi di territorio nazionale agli stranieri perché si prendano il
petrolio (poco) e ci lascino i dissesti ambientali (molti); sono
contrari a mettere in pericolo l’immenso patrimonio naturale dei
nostri mari a fronte di pochi spiccioli di royalties;
sono contrari a puntare ancòra su fonti energetiche vecchie,
inquinanti e sempre meno redditizie, mentre l’Italia ha a
disposizione immense risorse naturali da poter utilizzare per la
produzione di energie rinnovabili, non inquinanti, a costi irrisori e
– cosa da non sottovalutare – in grado di generare una
occupazione dieci volte superiore a quella impiegata nel settore
delle fonti fossili.
Quale
sia l’opinione degli italiani – dicevo – è evidente. Così
come è evidente che quel mattacchione che ci ritroviamo alla
Presidenza del Consiglio vuole continuare a governare come meglio gli
aggrada. È per questo che invita gli italiani a non andare a votare
domenica prossima. Perché sa che il voto sarà nettamente contrario
alla sua linea.
Ecco
un altro buon motivo per andare a votare domenica: per assestare un
primo colpo alla Total e a Renzi insieme. Un po’ come hanno fatto
in Olanda l’altro giorno: con un solo voto hanno mandato "a fanciullo" l’Europa, il governo, gli americani e l’immigrazione.
Sarebbe
bene che anche noi italiani cominciassimo ad usare al meglio l’arma
del voto. Anche perché è la sola arma che ci è rimasta.
E
ricordiamoci che questo è un referendum abrogativo: per dire NO a
Renzi e alle multinazionali, dobbiamo votare SI.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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