Oggi commetto un peccato sociale: mi domando se l’Unione Europea deve o no vivere in eterno. Personalmente, vorrei che sopravvivesse: è inetta ma benevola. Tuttavia, i segnali non sono buoni e bisogna - se non altro per prudenza - porsi delle domande. Cosa succede se salta?
Per gli anglo-americani, “the elephant in the room” è quel gigantesco problema che tutti fanno finta di non vedere. È lì, incombe, ma è disdicevole parlarne. L’elefante occidentale del momento è la sopravvivenza dell’Unione Europea. Il Trattato di Schengen sulla libera circolazione—il coronamento dell’unità europea—è nei fatti morto.
C’è la Brexit e il crescente sospetto delle diplomazie extra Ue che Bruxelles, piuttosto che cercare un accordo con gli inglesi, tenti di obbligarli ad abbandonare la partita. Qualcuno pensa che se escono di continuo nuove condizioni irricevibili—la cessione di diritti su Gibilterra (inglese dal 1713) alla Spagna o un processo per l’Irlanda del Nord (inglese da circa il 1650) analogo alla restituzione di Hong Kong alla Cina—sia perché l’Unione si sarebbe accorta dell’impossibilità di raggiungere un accordo accettabile a tutti i 27 stati membri: il fallimento, se deve esserci, dev’essere colpa di qualcun altro…
Il buio oltre la Manica trova un riflesso ad Est, dove l’Ue ora vuole togliere il voto nelle istituzioni europee alla Polonia—una democrazia elettiva sì, ma non “politically correct” come piace a Bruxelles. Il paese si era già permesso di agire in autonomia contro la crisi migratoria. Il tentativo di spingerlo fuori dal Governo europeo però non piace per niente agli altri membri del “Gruppo di Visegrad”—Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e, in divenire, anche Austria—che forse ne vedono il loro futuro. A Sud, dove la debolezza economica rende l’Italia sostanzialmente pacifica, la Svizzera invece dà segni di forte insoddisfazione con la sua “parziale integrazione” nell’Ue.
La Presidente della Confederazione, Doris Leuthard, ha recentemente detto che il Paese potrebbe presto indire un referendum popolare per “chiarire” quel rapporto. Intanto, la Svizzera medita di non versare più il pagamento di un miliardo di euro al “Fondo di Coesione” di Bruxelles. Poi c’è un altro problem State: la stessa Germania, specialmente alla luce della sua relazione “peculiare” con la Russia. Un diplomatico britannico ride: “I russi hanno comprato metà Berlino, a partire da ‘Gazprom Gerhard’ (Schroeder, l’ex cancelliere, ora Presidente della Rosneft russa) per arrivare alla ‘tea lady’ che gira con il carrello negli uffici”. La Cancelliera Merkel personalmente detesta Vladimir Putin, ma, con la difficoltà a formare un nuovo governo tedesco, il “ferro” di cui sarebbe fatta appare tendere sempre di più verso la latta.
Vista la confusione, vista l’impazienza tedesca—aldilà di quali possano essere i rapporti con la Russia— non sorprende che girino con insistenza chiacchiere di incontri “informali ed esplorativi” per esaminare la possibile creazione di una sorta di “nocciolo duro” dell’Unione—forse Francia, Germania, e i paesi Benelux—e lasciare gli altri al loro destino e al ruolo di stati buffer protettivi dei primari.
L’unico grande progetto di unità ancora attuale è la creazione di un esercito comune europeo, ma finché consisterebbe di “truppe da parata” prese in prestito—e con Jean-Claude Juncker come “Commander in Chief”—non tutti i paesi membri ne condividono l’urgenza. Non doveva andare così. Non era stato promesso un “Tausendjähriges Reich”—il “regno millenario” dei tedeschi—ma l’Unione doveva resistere nel tempo. Non è ancora andata. Forse ce la fa, ma quant’è grande quell’elefante!
James Hansen - hansen@hansenworldwide.com
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