Sappiamo bene che il cinema, come in genere lo conosciamo oggi, è per lo più un parto hollywoodiano: la celebre “fabbrica dei sogni” cucita su misura, ai suoi esordi, per il pubblico americano - che masticava idealismo a buon mercato e voglia di evasione - per sopperire alla mancanza congenita di una storia, una cultura, delle radici ben identificabili.
Nel melting pot statunitense, ottenuto dalla simbiosi abbastanza artificiale di molte razze umane e fondato sull’obliterazione di una razza, il cinema viene a colmare dei vuoti di identità culturale notevoli e sostanziali, mescolando l’ingenuità dell’epopea di un Nuovo Mondo tutto da costruire con la velleità di proporsi come il paradigma del “buono” per eccellenza; viaggiando sulla scia dell’antica – e prestigiosa - figura mitologica dell’eroe, riveduto e corretto a stelle e strisce. Che qui spesso incontra la sua nemesi chiudendosi come un circolo vizioso in un clichè ridondante e ottuso ma a volte cavandosela anche con qualche lode e sorprendendoci tutti quanti.
Di questo è capace questo popolo dai mille volti, sebbene in genere si adegui a quello greve, piatto ed esasperatamente conformista e patriottico del mangiatore di burger e masticatore di pop corn, sventolatore di bandiere ai raids politici e inguaribilmente vincolato all'idea di land of freedom.
Così, in qualche illuminata occasione l’ordinario “uomo della strada” yankee riscatta il suo anonimato dilatando in modo esponenziale l’immaginazione al cinema e identificandosi con l’eroe americano di turno: Mr. Deeds che vince la lotteria, Mr. Smith che va a Washington, lo sceriffo di turno del Far West, il Padrino: e sogna….
Ma attenzione, perché in questo contesto praticamente tutto è possibile –come le vicende dei protagonisti dei film del resto – e il genio dei pochi viene sguinzagliato delle possibilità, praticamente smisurate, offerte dal mondo della celluloide: gli americani, proprio per la loro natura di essere mille razze e nessuna in particolare, sono in grado di toccare estremi difficilmente raggiungibili altrove, e il “paese delle opportunità” diventa terreno di caccia per il visionario di razza come per il più miserabile opportunista, l’idiota imbalsamato e il sublime artista.
Tutto questo miscuglio di genio e follia, di bassezza e acume non poteva che riversarsi sul grande schermo, rifugio conclamato delle aspirazioni americane, frustrate o no che siano: ed ecco che nel cinema d’oltre oceano abbiamo capolavori assoluti come i più deplorevoli pasticci, la banalità più totale e il tocco profetico e ispirato, la vicenda coinvolgente perché la sentiamo fortemente nostra o i più astrusi copioni lontani da ogni possibile pianeta dell’anima.
C’è sempre, ad Hollywood forse più che altrove, uno spiraglio per le “opportunità” di scrollarsi di dosso - almeno parzialmente –l’ossessione del budget come la mentalità di regime, e arruffianandosi un po’ pubblico e produttori, di uscirsene con delle proposte mica male, delle ideuzze vincenti: il mistero del new deal trasferito al mondo del cinema.
Che diventa così il veicolo per un modo tutto nuovo di fare mito: raccontarlo per immagini in movimento. A volte sono gaffe clamorose, ma in alcuni casi- nemmeno tanto isolati – riescono a produrre delle risonanze profonde nel nostro animo e a segnarlo profondamente, forse anche involontariamente oppure per sbaglio (ma qualcuno ci sarà anche in America che ha l’occhio rivolto al di sopra delle apparenze) collegandosi a quel mundus imaginalis in cui si ritrovano gli archetipi del nostro retaggio umano, di tutti noi; e il “sogno” diventa realtà.
Perché, fondamentalmente, lo è.
Simon Smeraldo
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