giovedì 7 luglio 2016

La supremazia religiosa non esiste - La lezione senza tempo di Ananda K. Coomaraswamy



L’intensificarsi dei contatti tra i cristiani e gli altri popoli che appartengono alla grande maggioranza dei non cristiani, ha acuito e reso più che mai urgente la necessità di capire la fede secondo cui gli altri vivono. Questa comprensione, oltre che desiderabile in sé, è indispensabile per risolvere di comune accordo i problemi politici ed economici dai quali i popoli del mondo sono oggi più divisi che uniti. Non è possibile instaurare relazioni umane con gli altri popoli finché il cristiano è convinto della sua superiorità o della sua maggiore saggezza e finché cerca soltanto di trarli al suo modo di pensare.

Il cristiano, che crede il mondo sua parrocchia, si trova di fronte alla dura necessità di farsi egli stesso cittadino del mondo; egli è invitato a partecipare a un symposium e a un convivium, non come presidente -già c’è un Altro che vi presiede, invisibile- ma come ospite fra molti altri.

Ormai a studiare le religioni diverse dalla propria sono tenuti tutti,
non soltanto i missionari di professione. Questo saggio, per esempio,
riassume una conferenza tenuta a un numeroso gruppo di insegnanti
nell’ambito di un corso di studi intitolato “Che cosa insegnare sugli
altri popoli”, promosso dal Comitato scolastico di New York e
dall’Associazione “East-West”. Qualcuno ha anche proposto di
promuovere in tutte le scuole e università l’insegnamento dei principi
basilari delle grandi religioni del mondo, come mezzo per favorire la
comprensione internazionale e sviluppare il concetto della
cittadinanza mondiale.

Ma sorge subito una domanda: “Chi è più adatto a impartire questo
insegnamento?”. È chiaro che non può capire una religione, né quindi
essere qualificato per insegnarla, chi è contrario a qualsiasi forma
di religione; sono pertanto esclusi i razionalisti, gli umanisti
scientisti e in definitiva tutti coloro che della religione non hanno
un concetto teologico ma puramente etico. È ovvio che l’ideale sarebbe
di affidare l’insegnamento delle grandi religioni soltanto a individui
che le professano; ma un ideale di questo genere oggi è realizzabile
soltanto nelle grandi università, per esempio a Oxford, ove è stato
proposto. In effetti, attualmente le religioni diverse da quella
cristiana sono insegnate soltanto nei seminari teologici e negli
istituti missionari, da individui che credono che il cristianesimo sia
l’unica vera fede, che approvano le missioni estere e intendono
preparare missionari a questo scopo specifico. In queste condizioni,
lo studio comparato delle religioni assume inevitabilmente una
colorazione del tutto diversa da quella delle altre discipline
scolastiche e non può non essere tendenzioso. È ovvio che se ci si
prefigge di insegnare qualcosa, questo qualcosa non può essere che la
verità: ma quando un insegnamento ha come presupposto che l’argomento
allo studio è intrinsecamente di minore importanza, e quando questo
argomento viene insegnato non con amore(1) ma soltanto per preparare
il futuro maestro ai problemi che dovrà affrontare, non si può non
sospettare che una parte almeno della verità sarà trascurata, se non
volontariamente almeno inconsciamente.

Se la scienza comparata delle religioni deve essere insegnata con gli
stessi criteri delle altre scienze, l’insegnante deve come minimo
riconoscere che la sua religione è soltanto una delle religioni da
“comparare”; egli non ha diritto di esporre una “teoria preferita”, ma
deve, nei limiti del possibile, presentare la verità imparzialmente.
In altre parole: sarà “necessario ammettere che le istituzioni che
partono dalle stesse premesse, cioè le istituzioni soprannaturali,
devono essere considerate globalmente, e la cristiana fra le altre”;
invece “oggi, se parliamo di imperialismo, o di pregiudizi razziali o
se paragoniamo il cristianesimo al paganesimo, rimaniamo tuttora
ancorati all’unicità… delle nostre istituzioni, dei nostri successi,
della nostra civiltà”(2). È inevitabile domandarsi a questo punto se
un cristiano irremovibilmente convinto che la sua fede è l’unica vera
possa in coscienza permettersi di illustrare una religione diversa
dalla sua, sapendo di non poterlo fare con onestà.

Quando decidiamo di insegnare qualcosa sugli altri popoli, ci troviamo
di fronte al problema della tolleranza. La parola non è piacevole:
tollerare è sopportare, accettare in continuità l’esistenza di quelle
che sono o sembrano essere forme di pensiero diverse dalla nostra; e
non è affatto piacevole anche solo “sopportare” i nostri vicini, i
nostri colleghi, così come non è neppure piacevole sentire che le
nostre più radicate istituzioni e credenze sono pazientemente
“tollerate”. Inoltre, se oggi il mondo occidentale è più tollerante di
quanto non fosse alcuni secoli fa o di quanto non sia mai stato dalla
caduta di Roma, ciò è dovuto in larga parte al fatto che gli uomini
non sono più sicuri che esista una verità di cui si possa essere
certi, e sono piuttosto inclini all’idea “democratica” che l’opinione
di un individuo sia altrettanto valida di quella di un altro,
specialmente nei campi della politica, dell’arte e della religione. La
tolleranza è una virtù puramente negativa, che non esige alcun
sacrificio dell’orgoglio spirituale e non include alcun rifiuto del
nostro senso di superiorità; può essere raccomandata soltanto se
significa astenersi dall’odiare o perseguitare quelli che hanno o
sembrano avere abitudini o fedi religiose diverse dalle nostre. La
tolleranza così intesa ci permette addirittura di avere compassione di
coloro che non essendo come noi meritano per ciò stesso la nostra
compassione!

La tolleranza, portata agli, estremi, implica l’indifferenza, e a
questo punto diventa inaccettabile. Noi non propugniamo che si tolleri
l’eresia ma piuttosto che si arrivi a un accordo sulla verità. La
nostra tesi è questa: una retta educazione alla religione comparata
deve prefiggersi di dare all’allievo la capacità di discutere con i
credenti delle altre fedi la validità di dottrine specifiche(3),
lasciando sospesa la questione della verità o falsità, superiorità o
inferiorità globali dei singoli corpi dottrinari, almeno finché ci sia
data l’occasione di verificare sotto quali aspetti essi differiscono
realmente l’uno dall’altro e se questi aspetti sono essenziali oppure
accidentali. Noi diamo per scontato, ovviamente, che le differenze
sono inevitabilmente accidentali, dal momento che “la conoscenza delle
cose è relativa al modo soggettivo del conoscere”. Un allievo ha il
diritto che gli venga insegnato almeno a riconoscere i simboli che fra
loro si equivalgono: per esempio la rosa e il fiore di loto (Rosa
Mundi e Padmavati); che ilsoma è l’equivalente del “pane e acqua della
vita”; che il creatore di tutte le cose è -non accidentalmente ma
necessariamente- un “falegname”, dal momento che l’elemento di cui e
fatto il mondo è “ilico”, cioè “materiale”. Questa prospettiva che noi
proponiamo ha il vantaggio immediato di non essere in contrasto con
l’ortodossia cristiana, anche la più rigida. Nessuno ha mai negato che
le credenze pagane contengano verità; anche san Tommaso era convinto
di poter trovare nelle opere dei filosofi pagani “prove estrinseche e
probabili” delle verità del cristianesimo. Egli, ovviamente, conosceva
soltanto i pensatori classici, gli ebrei e qualche arabo, ma non c’è
ragione perché oggi un cristiano dotato di una struttura intellettuale
adeguata non debba imparare a scoprire e a rallegrarsi di scoprire,
per esempio nelle dottrine dei Veda, del sufismo, del taoismo, o degli
indiani d’America, prove estrinseche e probabili della verità che egli
soggettivamente conosce. Sicuramente, lo studioso cristiano trarrà
notevoli vantaggi, nella esegesi e comprensione della dottrina
cristiana, dai suoi contatti con credenti di altre fedi. La sua fede,
infatti, suo malgrado non può sottrarsi del tutto ai condizionamenti
del clima intellettuale nominalistico nel quale egli è nato e
cresciuto; mentre l’orientale -per il quale i miracoli attribuiti al
Cristo non rappresentano un problema- è ancora un realista, nato e
cresciuto in un clima di realismo, per cui è in grado di avvicinarsi a
Platone o a san Giovanni, a Dante o a Meister Eckhart più
semplicemente e più direttamente che lo studioso occidentale, il quale
è inevitabilmente condizionato, almeno in parte, dai dubbi e dalle
difficoltà cui vanno soggetti coloro che sono stati educati in un
ambiente in massima parte profano.

La prospettiva che abbiamo suggerito ci fornisce immediatamente la
base per una comprensione e una cooperazione reciproca. L’obiettivo
finale cui tendiamo è una definitiva “riunione delle Chiese”, in un
senso molto più ampio di quello che ha in genere questa espressione:
occorre instaurare alleanze attive -per esempio tra cristianesimo e
induismo o islamismo-, sulla base dell’accettazione comune di alcuni
principi fondamentali in vista di una loro concorde ed effettiva
applicazione ai campi contingenti dell’arte (artigianato) e della
prudenza, ponendo fine alla guerra civile in atto fra i membri
dell’unica famiglia umana, tra i figli dell’unico e identico Dio “che
tutti unanimi concordano nel riconoscere, greci e barbari”, come
diceva Filone(4). Il professor Goodenough si riferisce a questa
affermazione quando scrive: “Per quanto mi pare di capire, qui Filone
esprime la pura e semplice verità sul paganesimo così come egli lo
vedeva e non come è stato sempre travisato dall’apologetica
cristiana”.

È inutile dissimulare che simili alleanze interconfessionali dovranno
segnare la fine di tutte le iniziative missionarie quali esse sono
attualmente; conferenze e incontri interconfessionali dovranno
sostituire quelle spedizioni di proselitismo che hanno come unico e
permanente risultato la secolarizzazione e la distruzione delle
culture esistenti e lo sradicamento degli individui. Voi avete già
raggiunto il punto in cui cultura e religione, utilità e significato
sono stati dissociati e possono perciò venir considerati ognuno a sé:
ma questo non si è ancora verificato per quei popoli che vi proponete
di convertire, per i quali religione e cultura sono un’unica e
identica realtà, per i quali nessuna delle funzioni vitali è
necessariamente profana o slegata dai principi. Se anche riuscirete a
convincere gli indù che le loro scritture rivelate sono valide
esclusivamente “come testi letterari”, voi avrete ottenuto
semplicemente di ridurli al livello dei vostri studenti universitari,
che leggono la Bibbia -quando la leggono- soltanto come testo
letterario. In India -ha fatto notare suor Nivedita, l’allieva più
illustre di Patrick Geddes e autrice di The Web of Indian Life- il
cristianesimo “lascia dopo di sé l’ubriachezza”(5), perché se tu
insegni a un uomo che quanto ha sempre creduto giusto è sbagliato,
sarà dispostissimo in seguito a pensare che quanto ha creduto
sbagliato sia giusto.

Abbiamo bisogno tutti indistintamente di resipiscenza e di
conversione, di un “cambiamento dello spirito” e di una “svolta”, non
già da una fede all’altra ma dall’incredulità alla fede. Non esiste
forma di tolleranza peggiore di quella che ci fa avvicinare un nostro
simile per dirgli: “Noi due stiamo entrambi servendo lo stesso Dio: tu
alla tua maniera, io alla Sua”. Il principio di “traversare mari e
continenti per fare un solo proselito” potrà seguitare a essere
applicato soltanto finché durerà la nostra ignoranza della fede degli
altri popoli. Fornire aiuti sanitari ed educativi con lo scopo
precipuo di ottenere conversioni è una forma di simonia e una
infrazione all’ordine: “Guarite i malati…; non portate né oro né
argento nelle vostre bisacce né monete per il vostro viaggio…; andate
piuttosto come pecore in mezzo ai lupi”. Dovunque andate, non
atteggiatevi a maestri o superiori ma comportatevi come ospiti o, come
potremmo dire oggi, come “incaricati d’affari”; e non tradite le
confidenze di coloro che vi hanno ospitato ricambiandole con calunnie.
Dal vostro concetto di “vocazione” dovete eliminare ogni nozione di
“missione civilizzatrice”; infatti ciò che qui per voi è “il fardello
dell’uomo bianco”, la sono “ombre bianche nei mari del Sud”. La vostra
civiltà “cristiana” sta concludendosi in un disastro e voi siete così
sfrontati da offrirla agli altri? Rendetevi conto di quanto diceva J.
M. Plumer: “Il metodo più sicuro per tradire i nostri alleati cinesi è
quello di vendere loro, regalare o imprestare il nostro [americano]
livello di vita”(6). Al presente e nell’immediato futuro -mi scriveva
un mio amico parlando di Shri Ramakrishna- vi riuscirà quanto mai
arduo convincere l’Oriente che la civiltà europea è in tutti i sensi
una civiltà cristiana, oppure convincerlo che esistono europei
ragionevoli, giusti e tolleranti fra i “barbari” di cui l’Oriente ha
paura.

Il termine “eresia” significa scelta, avere opinioni proprie, pensare
come ci piace. Oggi che vale la regola di “pensare per sé” (a
condizione che il pensare sia tale al cento per cento), possiamo
afferrare il vero significato di “eresia” soltanto se ci rendiamo
conto che il suo equivalente moderno è “tradimento”. L’unica eresia
importante, e forse l’unica eresia reale del cristianesimo moderno
agli occhi dei credenti delle altre fedi, è la sua pretesa di avere
l’esclusività della verità; questo infatti è tradire Colui che “non
rimase mai senza un testimone”, e trova un parallelo soltanto nel
rinnegamento di Cristo da parte di Pietro. E chiunque dice ai suoi
amici pagani: “La luce che è in voi è tenebra”, offende non soltanto
essi ma anche il Padre dei lumi. In base al notissimo commento di
sant’Ambrogio a 1 Cor. 12, 3: “Tutto ciò che è vero, da chiunque sia
stato detto, viene dallo Spirito Santo” (affermazione accettata da san
Tommaso d’Aquino), voi potreste sentirvi domandare: “Con quale
criterio tu pretendi di distinguere fra la tua religione “rivelata” e
la nostra religione “naturale” della quale anche noi affermiamo
l’origine soprannaturale?”. Potreste trovarvi impacciati nel
rispondere.

La pretesa di una validità esclusiva non è fatta per favorire la
sopravvivenza del cristianesimo in un mondo che vuole mettere alla
prova ogni cosa. Al contrario, essa può indebolire enormemente il suo
prestigio di fronte alle altre tradizioni in cui prevale un
atteggiamento molto diverso e che non vedono la necessita di
impegnarsi in discussioni polemiche. Come si esprime un eminente
teologo tedesco, “la cultura umana (Menschheitsbildung) è qualcosa di
unitario e le diverse culture che la compongono sono i dialetti
dell’unico e identico linguaggio dello spirito”(7). La controversia
che oppone il cristianesimo alle altre religioni sembra a un orientale
un errore tattico nel conflitto tra ideale e motivazioni sensate, così
come per gli Alleati sarebbe stato un errore scendere in campo contro
i cinesi. L’orientale non si lascia attirare nella controversia,
perché per lui vale ciò che io ho spesso ripetuto ad amici cristiani:
“Anche se voi non siete sulla nostra sponda, noi siamo sulla vostra”.

Ananda K. Coomaraswamy

Articolo originariamente pubblicato su «Motive», maggio 1944

(Fonte: www.estovest.net)


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