martedì 28 gennaio 2025

Quel ponte che pende...

 


"A parlare del ponte sullo Stretto argomenti se ne trovano, da una parte, dall’altra. Quanto legittimi gli uni, tanto gli altri, con taluni che paiono di buon senso ed altri che invece s’inabissano con la ragione nelle profondità del mare di Scilla e Cariddi. Ma a parlare degli uni per stoltezza manifesta, o degli altri come cosa di buon senso, senza dire quali siano e per quali propendo, francamente mi venne a noia. Che a me preme assai, invece, puntare indice d’attenzione su altro aspetto assai meno frequentato e che riguarda un dato preciso: se l’isola è attaccata con tale legaccio cementante al continente, essa non è più tale, al massimo si fece isola al guinzaglio, meglio, escrescenza ectoplasmica di continente, derubricata a promontorio, non ci si riconosce più in quella come fu da che l’uomo vi abitò. Certo, “là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro) 

E se questo è vero, quell’incombenza immanente del naufragio appartiene all’isola, pure a chi vi nacque. Ne rappresenta sempre l’archetipo illustrativo, incontrovertibile, esattamente come dato anagrafico con tanto di firma del sindaco. Negarsi detto dato, ancorché a tratti ed a taluno poco avvezzo ad i-solitudini possa apparire luttuoso, è come piombarsi in dimensione da smemorato, privarsi d’un io irripetibile, divenire altra cosa che pare piuttosto io indistinto. Questo mi dice l’argomentazione sghemba e desueta sul legaccio continentale. Me lo dice pure che quando vado via io stesso dall’isola, a valigie non ancora pronte, già mi struggo, prima ancora, anzi, a pensiero solo di farle.

      

Aveva voglia Nisticò di classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come cozza, dattero, riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna di viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine, la lasci accanto a te. 

Tuttavia, per consapevolezza di tale innata abiezione d’accoglienza, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, quei sassi, isole essi stessi, li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. È come mentire a se stessi, innanzitutto, che si finisce per crederci più noi che gli altri. Gli altri se ne accorgono della natura mendace della difesa e, consapevoli e avversi alle i-solitudini con quel vezzo di farsi porto sicuro, ibride per oscure provenienze, preferiscono tendere guinzagli, meglio se a robusta campata. L’isolano, invece, se per ragioni di modernità se ne deve andare solo per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluta parenti e amici, fazzoletto in mano, si sente mancare il terreno sotto i piedi, s’avvede d’allontanamento da porto sicuro come stesse andando a sfidare cannibali nel Borneo. Posto che nel Borneo di cannibali ce ne siano, che quella pure è isola con tanto di isolani che potrebbero averlo fatto credere, sempre a scanso d’equivoco, per timore di visita di continentale.

Ad ogni buon conto, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Pure per questo nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, pigrizia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova in mezzo, circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in quell’unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca e talaltra dall’accondiscendenza d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. In tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto. Salvo che qualcuno, da qualche altra parte, non voglia mettergli il guinzaglio, per guidarla come gli pare, a dispetto del mare. Se non bastasse c’è all’orizzonte progetto di museruola.

Giovanni Carbone



Fonte: https://www.labottegadelbarbieri.org/sul-ponte-si-e-detto-ma-qualcosa-no/

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