Mi sento di suggerire una riflessione sui caratteri dell’overtourism, che com’è noto rappresenta la conseguenza peggiore del turismo di massa, sui concetti base per evitarlo e su come la lettura del paesaggio possa portare a vedere/conoscere il territorio in un’ottica diversa dalla visione turistica tradizionale, arrivando così a costituirne una valida alternativa.
La Treccani definisce l’overtourism il “sovraffollamento turistico, concentrato in alcuni periodi dell’anno in città e siti famosi, che provoca o può provocare danni ai monumenti e all’ambiente, oltreché disagi per i residenti”. Dunque un’accezione che non solo sancisce il carattere del tutto negativo dell’overtourism, ma sottende anche i presupposti affinché questo fenomeno non si verifichi. In estrema sintesi, tali presupposti sono:
a) Riconoscere i danni oggettivi causati dall’overtourism. Una posizione che in realtà non è sempre così scontata. È improbabile, ad esempio, che i gestori di un qualunque esercizio commerciale (ristoratore, venditore di souvenir o di prodotti tipici, ecc.) ritengano un danno il possibile incremento degli introiti grazie a un aumento esponenziale di turisti.
b) Non considerare il mero interesse economico come la sola priorità dell’offerta turistica. È la diretta conseguenza del presupposto precedente e richiede una visione politica che potrebbe costare molto in termini di consenso.
c) Accettare il fatto ineludibile che un territorio abbia limiti fisiologici di ricezione. Ogni viaggiatore sa che nella sua valigia più di tanto non ci entra, pena la rottura delle cerniere. Per un territorio vale la stessa legge fisica, dove la rottura delle cerniere corrisponde al complesso di problemi creati dal sovraffollamento.
d) Avere la consapevolezza del valore economico dell’integrità di un territorio dal punto di vista ambientale, storico e culturale. È sotto gli occhi di tutti il fatto che con la cultura non si mangia, sostenuto una decina di anni fa da un Ministro della Repubblica, sia del tutto falso. Per estensione, ciò vale anche per ambiente e storia.
Per quanto appaiano banali per la loro palese ovvietà, questi presupposti sono spesso disattesi nella gestione dei flussi turistici di un territorio creando così le condizioni per l’insorgere del fenomeno dell’overtourism. È altrettanto palese che la forma di turismo compatibile con tali condizioni è il cosiddetto turismo mordi e fuggi, la cui finalità non è conoscere il territorio che si sta visitando ma compiacersi di esserci stato, a prescindere da come lo si sia visitato e se la visita abbia portato o meno a un arricchimento delle conoscenze personali. È una visione decisamente “turistacentrica” che trova la sua massima espressione nei selfie dove il territorio è ridotto a sfondo della propria immagine ed è utile solo a provare che l’autore dello scatto è stato effettivamente in quel luogo. Se immortalare la propria presenza in un determinato territorio è lo scopo della visita, allora quel territorio altro non è che un silente oggetto di consumo che si aggiungerà alla lista del sedicente viaggiatore. Volendo fare un parallelismo con certe abitudini alimentari mi viene da dire che in questi casi siamo di fronte a casi di junk tourism, cioè turismo spazzatura, e non intendo solo l’effettiva produzione di rifiuti da parte del turista, che comunque costituisce un problema molto serio.
Per sperare di trovare un rimedio all’overtourism e alle sue nefaste conseguenze è necessario dunque cambiare il paradigma turistico ormai tipico dell’industria del settore, in cui il turista è ridotto a consumatore e il territorio a bene di consumo. A questo proposito si potrebbe pensare un ritorno alle origini stesse del turismo con modelli che riprendano il sentire dei viaggiatori che a partire dal XVIII secolo hanno dato vita al Gran Tour. È ovvio però che se l’intento è buono, altrettanto non si può dire sulla sua applicabilità pratica: questo tipo di approccio limiterebbe la fruibilità del territorio a fasce elitarie dal punto di vista sia culturale che economico, una condizione impensabile nel XXI secolo.
È opinione di molti commentatori che la soluzione al turismo mordi e fuggi sia il cosiddetto turismo di qualità, termine complesso che interessa i vari aspetti dell’attività turistica, (strutture ricettive, offerta turistica, gestione dei flussi turistici, ecc.) ma che sembra trovare un denominatore comune nell’adozione di criteri sostenibilità volti a salvaguardare il territorio in quanto tale (ambiente, storia e cultura) senza ridurlo a oggetto di consumo. Tra gli aspetti peculiari di questo tipo di turismo vi è, da una parte, il desiderio del turista di conoscere il territorio che sta visitando, e, dall’altra, il desiderio della comunità locale di farsi conoscere nei suoi caratteri più veri e tipici. Due condizioni tra loro complementari tese a trovare un punto di incontro nella reciproca soddisfazione di entrambi gli attori.
È qui che, a mio modo di vedere, trova senso riflettere, come suggerito in apertura di questo articolo, sul ruolo che il paesaggio può avere nel perseguire un turismo di qualità. Chi ha seguito i miei contributi al blog, sa come ritenga essenziale adottare un approccio percettivo-cognitivo al paesaggio, inteso come il prodotto delle azioni naturali e/o umane e delle loro interrelazioni, in piena corrispondenza con i dettami della Convenzione del Consiglio Europeo del Paesaggio. In quest’ottica, il turista vedrà nel paesaggio una fonte di informazioni per avvicinarsi alla conoscenza del territorio, mentre la comunità locale lo considererà un elemento essenziale da mostrare al turista desideroso di conoscere il territorio. In sostanza il paesaggio diviene uno strumento di dialogo tra il turista attento al significato dei segni del territorio (uscendo così dal ruolo passivo che ha nel turismo di massa per diventare un viaggiatore “attivo”), e il territorio stesso (comunità locale) che palesa i suoi caratteri. Il solo linguaggio per attivare questa reciproca corrispondenza è la lettura del paesaggio che porti il viaggiatore a interpretare i segni che la comunità locale ha saputo, voluto o potuto imprimere sul suo territorio. Per fare un esempio banale, un viaggiatore che visiti un territorio caratterizzato da una presenza diffusa di vigneti avrà modo di capire che la comunità locale ha probabilmente un’importante tradizione vitivinicola che vale la pena di conoscere. D’altra parte, la comunità locale attraverso il carattere dei suoi vigneti, quindi il suo paesaggio, ha modo di informare il viaggiatore che la sua attività vitivinicola è il frutto di una tradizione che vale la pena di scoprire. Ovviamente il fatto che i vigneti suggeriscano una locale tradizione vitivinicola non è certo una novità per qualunque viaggiatore, ma si provi per un attimo a estendere questa procedura interpretativa a altri segni meno scontati. Ad esempio, la presenza di un Mc Donald all’ingresso del paese circondato dai vigneti potrebbe far pensare a una contaminazione della cultura gastronomica che intacca la tipicità del luogo. Anche la presenza di capannoni industriali tra i vigneti può indurre il visitatore che abbia contezza del possibile inquinamento a nutrire dubbi sulla qualità del vino che ne deriva.
In realtà, l’interpretazione dei segni di un territorio può andare ben oltre il rapporto diretto causa/effetto e portare a scoprire realtà del tutto inattese di sicuro interesse per il viaggiatore che voglia conoscere il territorio che sta visitando. È quanto ho cercato di illustrare nel mio PAESAGGI DI VIAGGIO – Il mondo visto da un viaggiatore non turista, dove applico la suddetta procedura interpretativa in 36 luoghi sparsi per il mondo selezionati in base al tipo di messaggio che il viaggiatore può recepire osservandone il paesaggio.
Una visione che si ispira sì allo spirito dei grandi viaggiatori del passato ma al tempo stesso segue metodi e forme di pensiero assolutamente accessibili a chiunque abbia una minima capacità di discernimento.
Frederick Bradley