venerdì 2 febbraio 2018

"Italiani. Una faccia una razza" - L'etnia che non deve essere nominata...


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Ogni tanto – se ci fate caso – stampa e televisioni si avventano su una qualche frase banale pronunciata da un personaggio qualsiasi, per creare artificialmente un “caso” da agitare nella polemica politica.
Si potrebbe pensare ad una semplice manifestazione di infantilismo “ideologico”, ma così spesso non è. Ci troviamo di fronte – nella gran parte dei casi – ad una precisa strategia mediatica, volta ad indurre l’opinione pubblica a considerare normali cose che normali non sono e, viceversa, a considerare improponibili, inammissibili cose perfettamente normali, che rientrano nell’ordine naturale delle cose.

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L’ultimo caso è quello della “etnia bianca”, evocata dal candidato leghista alla presidenza della regione Lombardia, Attilio Fontana. Nel corso di un intervento, Fontana aveva detto che una invasione così massiccia e incontrollata di immigrati africani prefigura sviluppi demografici che possono alterare le caratteristiche identitarie della popolazione italiana.
Cosa chiara, evidente, sotto gli occhi di tutti. Eppure – apriti cielo – l’affermazione del Fontana ha provocato una immediata levata di scudi, un coro iroso di tutte le prèfiche del politicamente corretto, indignate per l’uso della parola “razza”, per di più accompagnata dall’aggettivo “bianca”.
I primi a stracciarsi le vesti sono stati i Vescovi della neo-chiesa bergogliana, il cui portavoce ha dichiarato che “razza bianca” era una espressione legata a ricordi infausti «che pensavamo fossero sepolti definitivamente». D’obbligo, al riguardo, il riferimento alle leggi razziali del fascismo, ma dimenticando due millenni di antisemitismo di matrice cristiana (da Sant’Agostino in poi).
A seguire, la Comunità Ebraica di Milano, che in una nota ufficiale affermava che «l’unica razza esistente è quella umana» e che ogni riferimento alla razza bianca «porta indietro gli orologi del tempo».
Sostanzialmente, dopo avere riscritto la storia piegandola alle convenienze della politica, si vuole adesso riscrivere anche la scienza antropologica, cancellando l’esistenza delle etnie umane ed il colore della pelle.

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Le razze sono una realtà talmente evidente da non poter essere ignorata da alcuno. «La razza – cito da Wikipedia – identifica la classificazione degli esseri umani in gruppi in base ai loro tratti fisici, alla discendenza, alla genetica, o alle relazioni tra queste caratteristiche.»
Ovviamente – come dovrebbe esser chiaro ad ogni persona di normale buonsenso – ammettere l’esistenza di diverse razze non c’entra nulla col razzismo (cioè con l’idea della superiorità di una razza rispetto alle altre) né tanto meno con la difesa della “purezza” di una razza. Oggi, in una società mondiale globalizzata, pensare di mantenere una netta separazione delle varie razze è del tutto irrealistico. Contrariamente al passato, oggi i matrimoni misti rientrano nella normalità. Ma sono un fatto individuale, dettato dai sentimenti e dalle scelte personali; la qualcosa ne fa un fenomeno limitato nel numero, tale da non mettere in discussione l’identità complessiva (il “fenotipo” direbbero gli antropologi) di una popolazione.

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Viceversa, c’è qualcuno che vorrebbe quasi imporre la mescolanza di razze, etnie, culture, confessioni religiose, facendone non un fatto di scelte individuali, ma uno strumento per la cancellazione delle identità nazionali dei vari popoli. Via i bianchi, i neri e i gialli, per dar luogo ad un unico coacervo meticcio, possibilmente color caffellatte. E via i cristiani, gli ebrei, i musulmani, gli induisti, per fare posto a una sola religione che metta al centro dell’universo un Dio indistinto e abulico, buono per tutte le stagioni e per tutti i conformismi. Quanto alle lingue, l’inglese dovrebbe diventare la lingua franca dell’universo mondo, relegando la Divina Commedia e gli altri capolavori della letteratura europea in una sorta di ghetto per ruderi della mentalità fascista.
Non crediate che stia esagerando, perché è proprio questo il progetto dei poteri forti della finanza mondialista: la cancellazione delle identità nazionali, in primo luogo attraverso una immigrazione selvaggia e, poi, attraverso una integrazione ancor più devastante. E, con le identità nazionali, via anche ogni idea di giustizia sociale, di dignità del lavoro, di benessere economico. Via tutto, a pro del concetto di un profitto senza regole, senza diritti, senza certezze collettive. Orbene, è logico che, in uno scenario del genere, ogni riferimento alla nostra identità nazionale – sia questo il presepe o la razza bianca – susciti scandalo.

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Ma – pur considerando naturale che vi sia una certa aliquota di matrimoni misti – gli italiani vogliono che le caratteristiche complessive della loro etnìa, i loro fenotipi rimangano gli stessi di sempre:  lingua neo-latina, cultura occidentale, razza bianca.
Non è razzismo. È semplicemente il rifiuto dell’annientamento della propria identità nazionale.

Michele Rallo -  ralmiche@gmail.com

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1 commento:

  1. Commento psicostorico: "“Quando la città retta a democrazia si ubriaca, con l’aiuto di cattivi coppieri, di libertà confondendola con la licenza, salvo a darne poi colpa ai capi accusandoli di essere loro i responsabili degli abusi e costringendoli a comprarsi l’impunità con dosi sempre più massicce d’indulgenza verso ogni sorta d’illegalità e di soperchieria;

    quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per poter continuare a vivere e ad ingrassare nel fango;

    quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e c’è nato;

    quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e
    consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine, c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto, e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?

    In un ambiente siffatto, in cui tutto si mescola e confonde; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo sulle gambe di chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella reciprocità e moltiplicazione dei lavori; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe in armi a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?

    Ecco, secondo me, come nascono e donde nascono le tirannidi. Esse hanno due madri. Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa colpa di averla condotta a tanto disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza, che della tirannide è pronuba e levatrice.


    Così muore la democrazia: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo.»

    (Platone. La Repubblica, Cap. VIII)

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