Ren Jianxin, entro pochi mesi potrebbe diventare il padrone dell’intera agricoltura italiana, che ci piaccia o meno. E’ una delle persone più potenti al mondo. La disposizione liquida monetaria di cui dispone si aggira intorno ai 500 miliardi di euro, pari al pil di Grecia, Portogallo, Slovenia, Croazia e Macedonia tutte insieme; nazioni, queste, la cui agricoltura è già nelle sue mani. Ma lui punta decisamente all’Italia (in Spagna gli è andata male e si è ritirato, è per questo che ha dirottato su di noi). E’ una persona garbata, molto gentile, simpatica, solare, dicono molto intelligente. E’ il volto autentico (in carne e ossa) di quello che in Italia i social networks amano definire con una locuzione ridicola e infantile: i poteri forti.
I poteri forti, oggi, hanno quest’immagine. E’ il Presidente della più importante azienda chimico-farmaceutica del pianeta, la ChemChi, che sta per China National Chemical Corporation la cui sede centrale si trova nel centro finanziario di Pechino. E’ anche l’amministratore delegato e il supervisore del direttore finanziario. E’ membro permanente del comitato centrale del Partito Comunista Cinese, dato che lo stato possiede il 96% delle azioni di questo colosso.
Il 3 febbriao 2016 ha firmato un contratto di acquisizione considerato il più alto mai registrato in Cina in tutta la sua storia: 43 miliardi di dollari pagati in contanti sull’unghia. Ha comprato la Syngenta, la più importante azienda europea produttrice di sementi e pesticidi. La società è svizzera e ha la sede legale a Ginevra. L’acquisto era iniziato in sordina,Chinese style, circa un anno e mezzo fa, attraverso la mediazione di due piccole società finanziarie legate alla Pirelli di Milano, avvalendosi della normativa che rientra all’interno degli accordi bilaterali italo-svizzeri, concessi dalla Ue a Italia, Francia, Austria e Germania, suoi paesi confinanti. Il fatto è che, nel frattempo, il signor Ren Jianxin, era arrivato otto mesi fa a Milano e si era comprato il 100% delle azioni della Pirelli che, dal 1 Gennaio 2016 è diventata parte del gruppo della ChinaChem.
La finanza americana ha accusato il colpo, capendo che per la Monsanto la festa è finita perché non è in grado di competere e contrastare lo strapotere del signor Ren, il quale -nel frattempo- si è praticamente comprato Poste Italiane e altre 345 aziende italiane. Così almeno gli americani danno l’annuncio, spiegando le ragioni per le quali il colosso statunitense abbandonerà in questo 2016 il territorio italiano.
Tradotto vuol dire che dal 2017 gli agricoltori italiani -senza che venga detto loro niente, senza che vengano fornite informazioni geo-politiche globali, e quindi a loro insaputa- saranno costretti a produrre ciò che il governo cinese stabilisce corrisponda ai loro interessi. Detto in sintesi, nella maniera più elementare possibile, significa che i pomodori e le zucchine italiane se le mangeranno i cinesi e per la stragrande maggioranza delle aziende agricole italiane ci sarà una riconversione (peraltro già annunciata) e dovranno produrre -pena il fallimento- soia, girasoli e derivati perchè questa è la politica agricola europea della Cina che si piazza nel cuore dell’Europa.
Le televisioni annunceranno il crollo delle borse europee (soprattutto quelle italiane) sostenendo che è in corso un attacco speculativo contro di noi. Non è vero niente. E’ questo contratto che sta facendo andare a picco il mercato europeo. Quantomeno questo è ciò che sostengono diversi analisti finanziari europei, e io sono d’accordo con loro.
Erano già diverse settimane che sul Wall Street Journal, Financial Times, canale televisivo di Bloomberg, gli analisti anglo-americani raccontavano la pessima scelta strategica dell’Italia che -per salvarsi- sta vendendo tutta se stessa al Qatar, agli Emirati Arabi Uniti e all’Arabia Saudita, ma soprattutto alla Cina.
Ma in questo paese la stampa non informa la popolazione su ciò che accade, avendo scelto di trasformare tutto in gossip irrilevante (vedi scontro Ue-Renzi su futili motivazioni retoriche).
Lo scontro -e questo sì davvero micidiale, una vera guerra all’ultimo sangue- si sta svolgendo, invece, nell’indifferenza generale, ad Amsterdam. In Italia nessuno ne ha parlato. Con un’unica eccezione che -quantomeno al sottoscritto- conferma il fatto, ancora una volta, che Adriana Cerretelli è senza alcun dubbio, attualmente, il miglior professionista mediatico che il nostro paese abbia prodotto negli ultimi dieci anni. Suo l’articolo apparso su Il Sole 24 Ore (immediatamente nascosto e non a caso non diffuso e non condiviso) nel quale ci raccontava che cosa sta accadendo e su che cosa si stanno letteralmente scannando in Olanda, purtroppo con pessime notizie per l’Italia perché la Cina si è presentata con una enorme massa di liquidità a disposizione del decotto sistema bancario corrotto nazionale e -il buon senso ci consente di comprenderlo-quando si sta alla canna del gas, si accetta ogni aiutino, chiunque sia a darlo. Qui di seguito vi ho postato l’articolo della Cerretelli (l’italiana in assoluto più stimata in Europa dai colleghi eruopei degli altri paesi nel campo dell’informazione mainstream, in Italia pressoché sconosciuta) perché penso possa essere utile per comprendere uno degli attuali scenari reali (molto reali) sul palcoscenico economico-politico della vita vera.
Anche se si tratta di un articolo tecnico, è comprensibile a chiunque. Bisogna leggere tra le righe dell’articolo. L’Italia, purtroppo, finirà per perdere questa decisiva battaglia di Amsterdam. Quella autentica che decide il destino delle nazioni, altro che annunci! Altro che unioni civili o quote latte. Se non ci svegliamo e non capiamo che cosa sta accadendo, di questo meraviglioso nostro Bel Paese non ne rimarrà più nulla. Quantomeno, per noi italiani che lo abbiamo costruito, inventato e abbellito nelle ultime centinaia di anni.
Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://www.libero-pensiero.net
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La lunga marcia che la Cina non ha fatto «Una relazione sana ed equilibrata» è il mantra ricorrente a Bruxelles quando si tenta di capire quale sarà il prossimo passo nel futuro dei rapporti tra Europa a Cina. Frase che dice tutto e niente, abbastanza generica da cavare di impaccio chiunque non si voglia sbilanciare più di tanto per non soffiare sulle divisioni intra-europee né turbare il dialogo con Pechino, già in sé alquanto sussultorio, gravido di tanti rischi come di potenzialità reciproche.
Di carne al fuoco al momento ce ne è molta, fin troppa: i negoziati per un accordo Ue-Cina sugli investimenti che rimpiazzi le attuali 27 intese bilaterali, un accordo di libero scambio, sul modello di quelli stipulati con Corea del Sud, Canada e Giappone, cui Pechino punta con determinazione incontrando per ora un muro di gomma europeo. E, naturalmente, a distanza più ravvicinata, la decisione da prendere entro dicembre sulla concessione o meno dello status di economia di mercato al colosso asiatico. Status per il quale la Cina non ha certo le credenziali in regola.
Di quest’ultima questione discuteranno oggi ad Amsterdam, in una riunione informale, i 28 ministri Ue del Commercio. Non sono attese decisioni immediate. La Commissione presenterà infatti la sua proposta formale solo in estate alla luce dell’esito dello studio circa l’impatto globale che un eventuale disarmo unilaterale europeo sugli strumenti di difesa commerciale, dazi anti-dumping per intendersi, avrebbe sulla competitività della sua industria e sulla tenuta dei già disastrati livelli di occupazione europei.
«Il free trade non sempre coincide con il fair trade. Noi siamo favorevoli al libero commercio purchè le regole siano chiare e le rispettino tutti», sottolinea uno dei negoziatori Ue. «Invece la Cina si concentra sui diritti ma dimentica gli obblighi che pure le derivano dal Trattato di adesione al Wto nel 2001».
In quindici anni l’interdipendenza è cresciuta a dismisura in fatto di mutuo commercio e investimenti: l’interscambio viaggia su un miliardo di euro al giorno, l’Europa è il primo partner della Cina, viceversa la Cina è il secondo dopo gli Stati Uniti.
Tre milioni di posti di lavoro nell’Unione vivono di export verso il mercato cinese ma sono il doppio quelli che in Cina dipendono dal flusso di vendite nell’Ue, che non a caso accusa un disavanzo commerciale bilaterale.
Per entrambi, dunque, la posta in gioco è enorme: ambedue avrebbero molto da perdere da tensioni incontrollate o, peggio, rotture. Resta che un dialogo costruttivo non può che passare da un rapporto tra eguali. Che oggi non c’è.
Quando Pechino pretende di avere tutti i numeri per essere considerata una “normale” economia di mercato, dimentica che la sua mirabolante ascesa sulla scena globale è avvenuta a colpi di trucchi. Che persistono, nonostante le costanti pressioni Ue negli anni perché vi rinunciasse sul serio.
Interventismo massiccio dello Stato nell’economia come nel commercio, sovvenzioni pubbliche generosissime e regolarmente non notificate al Wto, molteplici barriere tecniche agli scambi, scarsa trasparenza, misure discriminatorie nei confronti degli stranieri che operano nel paese, restrizioni all’export di materie prime, scarsissima tutela della proprietà intellettuale sullo sfondo di un mastodontico accumulo di sovraccapacità produttiva, un’autentica minaccia letale per l’industria europea.
Un dato per tutti: nella sola siderurgia il surplus si eleva a 400 milioni di tonnellate, cioè a più del doppio dei 170 milioni di tonnellate che l’Europa produce ogni anno.
È evidente che questa è la fotografia di un’economia di Stato a pianificazione centralizzata, non di un’economia di mercato. Rinunciare con questo quadro all’attuale sistema di dazi anti-dumping, che in media impone sui prodotti cinesi venduti sottocosto un ricarico del 30%, equivarrebbe a dare il colpo di grazia ai concorrenti europei già in forte difficoltà.
Persino Cecilia Malstrom, il commissario svedese al Commercio noto per le sue convinzioni liberiste, sembra ora più cauta quando mette in cima alle sfide che la Cina deve affrontare «l’accelerazione delle riforme interne, il cui vero test sarà la correzione della sovracapacità produttiva nonché l’apertura del mercato interno».
Sarebbe ottimo se ciò bastasse a dare per scontata la vittoria finale del fronte europeo guidato dall’Italia che da sempre si batte per frenare nuove aperture alla Cina, premature come peraltro ritengono gli Stati Uniti. Ma è troppo presto perché, nonostante le pressioni dell’europarlamento e l’allarme di parte dell’industria tedesca, il pendolo di Angela Merkel sembra oscillare anche in questo caso, e non solo con i rifugiati, verso la politica della porta aperta. Non è escluso che alla fine il braccio di ferro si possa concludere con un verdetto salomonico: riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato, come da accordi Wto, senza il contestuale disarmo commerciale europeo per un congruo periodo transitorio. La solita, vecchia linea del male minore.
Adriana Cerretelli
Fonte: www.ilsole24ore.com
Link: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-02-02/la-lunga-marcia-che-cina-non-ha-fatto-080327.shtml?uuid=AChdNtLC
2.02.2016
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