In data 11 gennaio 2016 il professore Stefano Rho,
53 anni, tre figli e una moglie disoccupata, docente di Filosofia
presso il Liceo linguistico “Giovanni Falcone” di Bergamo, stimatissimo
da colleghi e famiglie degli studenti e amato dai propri allievi, è
stato licenziato in tronco. Assenteista? Fannullone? Incapace?
Impreparato? Possiamo essere contenti che finalmente lo stato faccia
“piazza pulita” dei suoi dipendenti indegni?
Nulla di tutto questo. Rho, con la fedina penale immacolata,
è stato licenziato perché, all’atto dell’immissione in ruolo, non ha
dichiarato che il 15 agosto del 2005, 11 anni fa, è stato “sorpreso” da
zelanti forze dell’ordine, alle due di notte, dopo una festa di paese, a
orinare presso un cespuglio, «atto contrario alla pubblica decenza».
Per tale “gravissimo” gesto, all’epoca dei fatti Rho ha preferito non
procedere con alcuna opposizione alla già ridicola ratifica, pagando
l’ammenda di 200 euro decisa dal giudice di pace. Il suo caso, grazie a
una eccezionale mobilitazione partita dai suoi studenti, ha avuto
rilievo nazionale, venendo trattato da stampa (articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della sera),
tv, social network, petizioni on line. Lo scorso 8 febbraio il
Consiglio provinciale di Bergamo ha approvato all’unanimità una mozione
urgente per la «revoca delle sanzioni disciplinari»; e interpellanze
sono state presentate in Parlamento. Forse, visto il clamore mediatico e
l’indignazione collettiva, la vicenda del povero professor Rho avrà un
finale positivo.
Tuttavia, il suo non è un caso unico. Alcuni statali sono stati
licenziati perché, essendo ricoverati in ospedale, malconci, non hanno
inviato comunicazione di malattia o perché, in terapia psichiatrica,
quindi poco “lucidi”, non hanno fatto richiesta di giustificazione per
un paio di giorni di assenza. Oppure perché a causa di brevi assenze
orarie giornaliere, recuperate lavorando del tempo in più. Altri
“statali” sono stati cacciati per non aver pagato gli alimenti alla
moglie (ora, da licenziati, li pagheranno di certo!) o per altre
irregolarità per le quali non è prevista menzione nel casellario
giudiziale. Insomma, siamo giunti dai licenziamenti impossibili ai
licenziamenti fin troppo facili. Dal lassismo alla cieca persecuzione.
Il lavoro nel settore del pubblico impiego è divenuto soffocante,
infarcito di incombenze burocratiche assurde. Il clima è oppressivo. La
qualità della vita lavorativa peggiora in modo proporzionale alla
continua perdita delle garanzie previdenziali e assicurative. Mai alcuna
considerazione della professionalità e dei meriti pregressi dei
dipendenti pubblici o dei “casi umani”, sempre cecità e abitudine a
trattare i lavoratori come schiavi e i cittadini come sudditi, premiando
servilismo, comportamenti di facciata, formalismi, acquiescenze, e
assumendo un atteggiamento implacabile verso piccole mancanze, magari
formali, ma non sostanziali. Al riguardo non è nemmeno il caso di
parlare di giustizia borbonica perché, specialmente dopo le “revisioni
storiche” di Pino Aprile,
i Borboni avrebbero di che protestare. Però è il caso di fare alcune
considerazioni, esprimere alcune perplessità e porgere alcune domande.
Poiché ogni giorno vengono denunciati casi di “sfaticati pubblici”
(ma i dirigenti non controllano mai? dormono anche loro?), si dà forse
il caso che motivazioni apparentemente nobili come la punizione dei
fannulloni e l’aumento dell’efficienza siano usate come una clava per
punire chi non si adegua al conformismo e all’omologazione? Oppure, per
farsi facile propaganda politica? O, addirittura, per fare spending review
su stipendi e pensioni, che, visto l’andazzo, nessuno potrà raggiungere
a 70 anni perché tutti, per qualche assurda inadempienza, saranno
licenziati prima?
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 122, febbraio 2016)
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