lunedì 11 novembre 2019

Taranto ai tempi dell'ILVA: "Vivi a Tamburi e poi muori..."


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Vivi a Tamburi e poi muori...

Nel documentario “L’Italia al tempo della peste” racconto Taranto al tempo dell’Ilva, gli incontri, le vittime, i combattenti, i criminali, gli indifferenti. Madri, padri, bambini, medici, militanti, Alessandro Marescotti, l’attivista e scienziato di Peacelink che, più di ogni altro, con passione e competenza, da decenni scrive, parla, documenta, denuncia, grida. Pochi lo ascoltano. Nessuno di coloro che hanno preso le decisioni. Semmai i giudici che ce l’hanno messa tutta a bloccare la strage, potere indipendente dello Stato, sabotato dall’altro potere. Marescotti mi ha accompagnato per Tamburi, il quartiere dove le strade sono frequentate solo da polvere nera, residui di metalli pesanti, ossidi. Dove a lottare contro le polveri di carbone ci sono solo i murales. Mi ha indicato i quattro o cinque pezzetti di prato, tossici, recintati perché i bambini non si azzardino a giocarci a pallone. Non si gioca per le strade di Tamburi. Si gioca poco per le strade di tutta la città, visto che all’Ilva si aggiungono cementifici, raffinerie, depositi di carburanti, le navi Usa.


Poi sono salito nelle case dove, lungo la tromba delle scale, panni appesi ad asciugare provavano a ridurre al minimo l’anneramento. Negli appartamenti le donne, tutte con qualche parente ammalato o morto di cancro e altre patologie da Ilva, mi facevano strisciare il dito lungo le pareti per ritirarlo nero. E non era neanche una di quelle giornate del vento da nord o nord-ovest, che il nero te lo spara fin nelle viscere, quando le scuole chiudono per far vivere un altro po’ i bambini. Donne che mi chiedevano, mortificate, di non riprenderle perché, hai visto mai, qualcuno in fabbrica potrebbe prendersela col marito a causa di qualche verità, qualche pianto. Poi, a faccia voltata, ululavano.


Rientrando, con alcuni attivisti dell’organizzazione “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, quelli che da decenni chiedono la chiusura della “più grande acciaieria d’Europa” (così qualcuno, a petto in fuori, glorifica il killer), ho deciso che non la si può pensare che come loro. Il mostro va ucciso, punto. L’hanno tenuto in vita i complici, da Vendola a Renzi e a tutti i governi fino ad oggi, con scudi e Salva-Ilva di un cinismo complice, pari a quello di chi impicca o crocifigge prigionieri siriani, o bombarda matrimoni afghani, o stupra manifestanti a Santiago. Poi ci sono coloro che pensano che senza l’industria pesante, senza acciaio, in crisi ovunque e ovunque nemico dell’ambiente e dei viventi, non si va avanti, resta senza lavoro una comunità. Forse hanno ragione oggi, con questo modello di sviluppo, dell’1% straricco e del resto che si dibatte tra fame e veleni. Sicuramente non domani, visto che si parla di riconversione ecologica. Perché alimentare i forni col gas, anziché col carbone e la truffaldina e letale truffa che vuole l’Italia hub del gas (purchè non russo), è come i pannicelli caldi che i Cinquestelle applicano al bubbone PD.


Taranto ha pagato. Ora basta. Hanno pagato tutti i luoghi sui quali, con virulento odio cristiano-capitalista per la bellezza e per chi l’aveva coltivata e ne godeva, si è abbattuto il fuoco velenoso del drago, cancellando civiltà antiche, vite di ogni specie, incanti prodotti in faticosi secoli dalla Natura, da Trapani a Capo Passero in mare, da Siracusa ad Augusta, a Cornigliano, fiore avvizzito della Riviera di Ponente, alle spalle di Venezia che sulla faccia viene schiaffeggiata da Grandi Navi e Mose, in tutto lo Ionio e l’Adriatico, vietato a Ulisse e ai suoi marinai. E, per sempre, a Omero, che sarebbe davvero il male assoluto. Sono scomparsi gli ulivi, la civiltà che alitava tra i suoi rami e i suoi uomini, si sono mangiati il mare e le coste. A forza di industrie pesanti, le potenze si sono gonfiate come rane. Ora scoppiano. Ma scoppiano su cimiteri zeppi di gente che è morta di lavoro sotto quella pioggia di rane, o non ce l’ha fatta neanche ad arrivare al lavoro, spesso neppure alla scuola. Anche per un solo bambino divorato dal mostro, l’Ilva deve scomparire come tale. Non mi si dica che la settima potenza del mondo non saprebbe sistemare dieci, quindici, ventimila lavoratori. Già solo a riaggiustare la Puglia. E poi l’Italia.

Qualcuno ghignerà: “Bravo, la decrescita felice”… Non lo so. Ma l’ILVA ha da morì. Questo sì.   


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