Il «Fondo per la difesa», che l’Unione europea ha lanciato il 22 giugno 2017, è stato definito un «passo storico» dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Resta da vedere in quale direzione. Il Fondo rappresenta una massiccia iniezione di denaro pubblico nell’industria bellica europea.
Esso comincia con lo stanziare 90 milioni di euro nel 2017-2019 per la ricerca su nuove tecnologie militari, in particolare sistemi robotici per le forze navali e terrestri. Dal 2020 lo stanziamento per la ricerca militare salirà a 500 milioni di euro l’anno.
A questo si aggiunge uno stanziamento ancora maggiore per incentivare la cooperazione tra i paesi Ue nello sviluppo congiunto e nell’acquisizione di sistemi d’arma: essi possono, ad esempio, investire congiuntamente per sviluppare lo stesso tipo di drone o acquistare in blocco lo stesso carrarmato per ridurne il costo (una sorta di «gruppo di acquisto solidale» per la guerra). Per tale settore il Fondo stanzia 500 milioni di euro per il 1919 e 2020 e un miliardo di euro l’anno dopo il 2020.
Grazie all’«effetto moltiplicatore» si prevede di generare investimenti complessivi nell’industria bellica Ue pari a 5 miliardi di euro l’anno dopo il 2020.
Il Fondo non è alternativo ma complementare agli impegni finanziari che i paesi Ue membri della Nato hanno assunto nella Alleanza, di cui fanno parte (dopo la Brexit) 21 dei 27 membri dell’Unione europea. Nel 2014 essi hanno assunto l’impegno, richiesto dall’amministrazione Obama, di destinare al militare almeno il 2% del pil. Finora, oltre agli Usa, solo Grecia, Estonia, Gran Bretagna e Polonia hanno superato tale soglia.
L’Italia, calcola il Sipri, spende per il militare l’1,55% del pil, ossia circa 70 milioni di euro al giorno di denaro pubblico. Salendo al livello della Grecia (2,36%, nonostante la crisi economica), spenderebbe oltre 100 milioni al giorno; salendo a quello degli Usa (3,61%), spenderebbe oltre 160 milioni di euro al giorno. Il 2%, insiste Trump, è ormai insufficente per i crescenti compiti della Alleanza.
La spesa militare dell’Italia, che il Sipri colloca all’11° posto mondiale nel 2016, è in realtà più alta di quella iscritta nel bilancio del ministero della Difesa. Nell’ultima Legge di bilancio vengono stanziati (sempre con denaro pubblico) quasi 10 miliardi di euro per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, fregate Fremm, elicotteri da attacco Mangusta.
Sotto la voce «Edilizia pubblica, compresa quella scolastica» sono stanziati 2,6 miliardi per il Pentagono italiano, voluto dalla ministra Pinotti per riunire in un’unica struttura i vertici di tutte le forze armate. Essa sorgerà nella zona aeroportuale di Centocelle a Roma, dove è già stata trasferita la Direzione generale degli armamenti con il suo staff di 1500 persone.
La Direzione degli armamenti dovrà ora ingrandirsi per gestire l’ulteriore potenziamento dell’industria bellica italiana, già in ottima forma. Nel 2016, l’export italiano di armi è aumentato di oltre l’85% rispetto al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Grazie alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi.
Nel disegno di legge per l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa», approvato lo scorso febbraio dal Consiglio dei ministri, l’industria militare viene definita «pilastro del Sistema Paese». Esso viene ora rafforzato dal Fondo Ue per la «difesa», mentre si demolisce l’Articolo 11, pilastro della Costituzione.
Esso comincia con lo stanziare 90 milioni di euro nel 2017-2019 per la ricerca su nuove tecnologie militari, in particolare sistemi robotici per le forze navali e terrestri. Dal 2020 lo stanziamento per la ricerca militare salirà a 500 milioni di euro l’anno.
A questo si aggiunge uno stanziamento ancora maggiore per incentivare la cooperazione tra i paesi Ue nello sviluppo congiunto e nell’acquisizione di sistemi d’arma: essi possono, ad esempio, investire congiuntamente per sviluppare lo stesso tipo di drone o acquistare in blocco lo stesso carrarmato per ridurne il costo (una sorta di «gruppo di acquisto solidale» per la guerra). Per tale settore il Fondo stanzia 500 milioni di euro per il 1919 e 2020 e un miliardo di euro l’anno dopo il 2020.
Grazie all’«effetto moltiplicatore» si prevede di generare investimenti complessivi nell’industria bellica Ue pari a 5 miliardi di euro l’anno dopo il 2020.
Il Fondo non è alternativo ma complementare agli impegni finanziari che i paesi Ue membri della Nato hanno assunto nella Alleanza, di cui fanno parte (dopo la Brexit) 21 dei 27 membri dell’Unione europea. Nel 2014 essi hanno assunto l’impegno, richiesto dall’amministrazione Obama, di destinare al militare almeno il 2% del pil. Finora, oltre agli Usa, solo Grecia, Estonia, Gran Bretagna e Polonia hanno superato tale soglia.
L’Italia, calcola il Sipri, spende per il militare l’1,55% del pil, ossia circa 70 milioni di euro al giorno di denaro pubblico. Salendo al livello della Grecia (2,36%, nonostante la crisi economica), spenderebbe oltre 100 milioni al giorno; salendo a quello degli Usa (3,61%), spenderebbe oltre 160 milioni di euro al giorno. Il 2%, insiste Trump, è ormai insufficente per i crescenti compiti della Alleanza.
La spesa militare dell’Italia, che il Sipri colloca all’11° posto mondiale nel 2016, è in realtà più alta di quella iscritta nel bilancio del ministero della Difesa. Nell’ultima Legge di bilancio vengono stanziati (sempre con denaro pubblico) quasi 10 miliardi di euro per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, fregate Fremm, elicotteri da attacco Mangusta.
Sotto la voce «Edilizia pubblica, compresa quella scolastica» sono stanziati 2,6 miliardi per il Pentagono italiano, voluto dalla ministra Pinotti per riunire in un’unica struttura i vertici di tutte le forze armate. Essa sorgerà nella zona aeroportuale di Centocelle a Roma, dove è già stata trasferita la Direzione generale degli armamenti con il suo staff di 1500 persone.
La Direzione degli armamenti dovrà ora ingrandirsi per gestire l’ulteriore potenziamento dell’industria bellica italiana, già in ottima forma. Nel 2016, l’export italiano di armi è aumentato di oltre l’85% rispetto al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Grazie alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi.
Nel disegno di legge per l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa», approvato lo scorso febbraio dal Consiglio dei ministri, l’industria militare viene definita «pilastro del Sistema Paese». Esso viene ora rafforzato dal Fondo Ue per la «difesa», mentre si demolisce l’Articolo 11, pilastro della Costituzione.
Manlio Dinucci
(il manifesto, 24 giugno 2017)
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