giovedì 10 novembre 2022

Una guerra per farla finita...

 


Nel 1958 Karl Jaspers pubblica col titolo "La bomba atomica e il destino dell'uomo" un libro in cui intende mettere radicalmente in questione – come recita il sottotitolo – La coscienza politica del nostro tempo. La bomba atomica – esordisce nella premessa – ha prodotto una situazione assolutamente nuova nella storia dell’umanità, ponendola di fronte all’inaggirabile alternativa: «o l’intera umanità sarà fisicamente distrutta o l’uomo deve trasformare la sua condizione etico-politica». Se in passato, com’era avvenuto agli inizi delle comunità cristiane, gli uomini si erano fatte delle «rappresentazini irreali» di una fine del mondo, oggi per la prima volta nella sua storia, l’umanità ha la «possibilità reale» di annientare se stessa e ogni vita sulla terra. Questa possibilità, anche se gli uomini non sembrano rendersene pienamente conto, non può che segnare per la coscienza politica un nuovo inizio e implicare «una svolta nell’intera storia dell’umanità».

A quasi settant’anni di distanza, la «possibilità reale» di un’autodistruzione dell’umanità, che sembrava scuotere la coscienza del filosofo e coinvolgere immediatamente i suoi lettori (il libro fu ampiamente discusso) sembra diventata un fatto ovvio, che i giornali e gli uomini politici evocano ogni giorno come un’eventualità assolutamente normale. A furia di parlare di emergenza – in cui l’eccezione diventa come si sa la regola – l’evento che Jaspers considerava come inaudito si presenta come un’occorrenza tutto sommato banale di cui si tratta per gli esperti di valutare l’opportunità e l’imminenza. Dal momento che la bomba ha cessato di essere una «possibilità» decisiva per la storia dell’umanità e ci riguarda invece da vicino come una «casualità» fra le altre che definiscono una situazione di guerra, sarà bene allora riconsiderare da capo la questione, che forse non era stata posta nei suoi termini propri.

Tredici anni dopo, in un saggio intitolato significativamente L’apocalisse delude, Maurice Blanchot è tornato a interrogarsi sul problema della fine dell’umanità. E lo ha fatto sottoponendo a una critica discreta, ma non per questo meno efficace, le tesi di Jaspers. Se il tema del libro era la necessità di un cambiamento epocale, sorprende che «da parte di Jaspers, nel libro che dovrebbe essere la coscienza, la ripresa e il commento di questo cambiamento, nulla è mutato – né nel linguaggio, né nel pensiero né nelle formule politiche, che sono conservate e anzi bloccate intorno ai pregiudizi di tutta una vita, alcuni nobilissimi, ma altri molto ristretti… com’è possibile che una questione che mette in gioco il destino dell’umanità e tale che affrontarla non può che supporre un pensiero interamente nuovo, non ha rinnovato la lingua che l’esprime e non produce che delle considerazioni parziali e partigiane nell’ordine politico o urgenti e emozionanti nell’ordine spirituale, ma identiche a quelle che si sentono ripetere invano da duemila anni?». L’obiezione è certamente pertinente, perché non solo il libro di Jaspers si presenta come un’ampia monografia accademica che intende esaminare il problema in tutti i suoi aspetti, ma ciò che l’autore intende opporre alla distruzione è il luogo comune di «una pace universale senza bombe atomiche, con una nuova vita economicamente fondata sull’energia nucleare». Non meno singolare è che alla bomba atomica sia affiancato come un pericolo altrettanto mortale il dominio totalitario del bolscevismo, con il quale è impossibile venire a patti.
Il fatto è, sembra suggerire Blanchot, che una prospettiva apocalittica del genere è necessariamente deludente, perché presenta come un potere nelle mani dell’umanità qualcosa che, in verità, non è tale. Si tratta, infatti, di «un potere che non è in nostro potere, che indica una possibilità di cui non siamo padroni, una probabilità – diamola per probabile-improbabile – che esprimerebbe una nostra potenza soltanto se la dominassimo in modo sicuro. Per ora, tuttavia, noi siamo altrettanto incapaci di dominarla che di volerla, e per una ragione evidente: noi non siamo padroni di noi stessi, perché quest’umanità, capace di essere totalmente distrutta, non esiste ancora come un tutto». Da una parte un potere che non si può potere, dall’altra come preteso soggetto di questo potere una comunità umana, «che si può sopprimere, ma non affermare o che si potrebbe in qualche modo affermare soltanto dopo la sua sparizione, attraverso il vuoto, impossibile da afferrare, di questa sparizione, qualcosa, dunque, che non si può nemmeno distruggere, perché non esiste» (p. 124).

Se, come sembra innegabile, la distruzione dell’umanità non è una possibilità di cui l’umanità dispone consapevolmente, ma resta affidata alla contingenza delle decisioni e delle valutazioni in buona parte casuali di questo o di quel capo di stato, l’argomentazione di Jaspers è allora distrutta dalle fondamenta, perché degli uomini che non hanno in realtà la facoltà di distruggersi non possono nemmeno prendere coscienza di questa possibilità per trasformare eticamente e politicamente la loro coscienza. Jaspers sembra qui ripetere lo stesso errore che aveva commesso Husserl quando, in una conferenza del 1935 su «La filosofia e la crisi dell’umanità europea», pur identificando nelle «deviazioni del razionalismo» la causa della crisi, aveva nondimeno affidato a una non meglio definita «ragione» europea il compito di guidare l’umanità nel suo progresso infinito verso la maturità. L’alternativa qui già chiaramente formulata fra «una scomparsa dell’Europa divenuta sempre più estranea a se stessa e alla sua vocazione razionale» e una «rinascita dell’Europa» in virtù di «un eroismo della ragione», tradisce l’inconfessabile consapevolezza che dove c’è bisogno di un «eroismo» non c’è più posto per quella «vocazione razionale» (di cui si precisa che contraddistingue l’umanità europea «dal selvaggio Papu», almeno quanto questi si differenzia da una bestia).
Ciò che una ragione benpensante non ha il coraggio di accettare è che la fine dell’umanità europea o della stessa umanità, consegnata ad aspirazioni anodine e vane, che lasciano intatto il principio che ne è responsabile, finisce col rovesciarsi, come Blanchot aveva intuito, in «un semplice fatto di cui non c’è nulla da dire, se non che è la stessa assenza di significato, qualcosa che non merita né esaltazione, né disperazione e forse nemmeno attenzione». Nessun evento storico – non la guerra atomica (o, per Husserl, la Prima guerra mondiale), non lo sterminio degli ebrei e certamente non la pandemia – può essere ipostatizzato in un evento epocale, se non si vuole che diventi un incomprensibile e vacuo idolum historiae, che non si riesce più né a pensare né a affrontare.
Occorre pertanto lasciar cadere senza riserve l’argomentazione di Jaspers, che sconta l’incapacità della ragione occidentale di pensare il problema di una fine che è stata essa stessa a produrre, ma che non è in grado in alcun modo di padroneggiare. Posta davanti alla realtà della propria fine, essa cerca di guadagnar tempo, trasformando questa realtà in una possibilità che rimanda a una realizzazione futura, a una guerra atomica che la ragione può ancora scongiurare. Sarebbe forse stato più coerente supporre che un’umanità che ha prodotto la bomba è già spiritualmente morta e che è della consapevolezza della realtà e non della possibilità di questa morte che occorre cominciare a pensare. Se il pensiero non può ragionevolmente porre il problema della fine del mondo è perché il pensiero si situa sempre nella fine, è in ogni istante esperienza della realtà e non della possibilità della fine. La guerra che temiamo è sempre in corso e non è mai finita, come la bomba una volta gettata a Hiroshima e Nagasaki non ha mai smesso di essere gettata. Solo a partire da questa consapevolezza la fine dell’umanità, la guerra atomica, le catastrofi climatiche cessano di essere fantasmi che atterriscono e paralizzano una ragione incapace di venirne a capo e appaiono invece per quello che sono: fenomeni politici già sempre attuali nella loro contingenza e nella loro assurdità, che proprio per questo non dobbiamo più temere come fatalità senza alternative, ma possiamo affrontare ogni volta secondo le istanze concrete in cui si presentano e le forze di cui disponiamo per contrastarle o sfuggirle. Questo è quanto abbiamo appreso nei due anni appena trascorsi e, di fronte a dei potenti che si rivelano sempre più incapaci di governare l’emergenza che essi stessi hanno prodotto, intendiamo farne tesoro.

Giorgio Agamben 






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