L’antica età dell’oro, nella quale la miseria e le guerre erano assenti perché era l’armonia della natura a predominare nell’organismo della società, era fondata sulla pastorizia e sulla raccolta dei frutti della terra.
La parola “economia” proviene da questa situazione aurea formata da due precisi concetti della lingua greca: “oìkos” e “nomòs”, che significano rispettivamente “casa” e “pascolo”.
Infatti “nomòs” non ha solo il significato di “pascolo” ma soprattutto di luogo del pascolare: la regione in cui la pastorizia è possibile e che pertanto determina il pascolo (“nomòs”) rende possibile “fare economia” nel senso più equilibrato del termine, cioè secondo una naturale sobrietà di accumulo di “pecunia” (dal latino “pecus”, pecora) adatta allo scambio mercatorio anche in tempi di scarsità di raccolto.
In altre parole, la tendenza egoistica di qualcuno all’accumulazione all’infinito di “capitale”, anche a danno di altri “soci” dell’“organismo sociale”, era scongiurata, perché l’economia della casa (cioè di “oìkos”, che significa non solo “casa” ma anche “territorio”), fondata sul pascolo (“nomòs”), era caratterizzata dall’avere quantità di capi di bestiame proporzionali alla qualità del territorio ospitante: greggi e mandrie non potevano crescere in modo esponenziale (come avviene oggi nell’economia non reale fondata su strumenti monetari illusori e su giochi di potere borsistici).
Una simile crescita esagerata sarebbe stata antieconomica perché avrebbe portato alla rovina l’intero “capitale” per mancanza di alimentazione adeguata del gregge.
Gregge o mandria erano dunque proporzionali all’area sulla quale si trovavano.
Diversamente dai manipolatori di capitali e dagli economisti, i pastori sani di mente trovavano insensato accumulare oltre le proprie possibilità di gestione.
Il primigenio strumento monetario per lo scambio di mercanzie (di beni e sevizi) nelle prime forme di mercato fu dunque la “pecunia”.
Il concetto di “capitale” proviene sia dal “capo” nel senso di testa umana o di capo di bestiame, sia dal “foraggio”: in latino "caput", plurale "capita", significa sia “testa” che “capitale”. E "capitum", che significa “foraggio”, “razione”, ha il medesimo plurale "capita"!
Anche da ciò si evince che il capitale ed il foraggio dovevano andare di pari passo.
L’aumento insensato di “capitale” sarebbe stato infatti controproducente per tutti.
Partiva da qui la ritualità della fede nelle divinità del luogo: si trattava di una “convenzione”, che a differenza delle nostre attuali fedi e convenzioni (o convinzioni partitocratiche) era “conveniente” per tutti. Quindi (si trattava di) una “convenzione” “conveniente” per tutti, cioè per ogni essere umano che per un motivo qualsiasi era “convenuto” in quel determinato territorio dell’organismo sociale.
Ecco dunque il senso del consumo rituale, offerto alla fine di ogni annata alle divinità locali. Era la necessità di consumare il sovrappiù di “capitale”, evitando così che deperisse inutilmente, cosa che avrebbe irritato gli dei, che generosamente avevano favorito il sobrio “accumulo”, cioè il mantenimento sano dei capi di bestiame durante la stagione.
Nell’età dell’oro non sarebbe dunque stato possibile accumulare capi di bestiame senza doversene prendere costantemente cura e senza foraggiarli!
Nei tempi antichi fra le divinità c’era la dea Moneta e la dea Pecunia.
Pecunia era una dea che i Romani invocavano per avere ricchezza in abbondanza, cioè un’economia fiorente.
Col prevalere dell’astratto sul concreto, cioè col primo “tradimento dei chierici” della storia, termina l’età dell’oro.
Il capitalista, cioè colui che possedeva capi di bestiame in modo armonico, era diventato preda della mentalità contadina, che aveva prevalso su quella del pastore.
Le cose perciò incominciarono a degenerare: il concetto stesso di ricchezza, anticamente legato al possesso di quantità di capi di bestiame proporzionata ai pascoli territoriali, si trasformò in quello di quantità crescente di capi di bestiame, grazie alle fosse contadine (corrispondenti ai moderni silos) per conservare il foraggio.
E pian piano l’uomo non capì più il senso dell’antico ritualismo.
Un esempio di ciò lo abbiamo tanto dal pagano Arnobio (255 - 327) quanto dal cattolico sant’Agostino (354 - 430), i quali, dimostrando di avere capito ben poco dell’armoniosa economia degli antichi tempi, rimproveravano i politeisti di aver posto Pecunia fra il numero delle loro Divinità da invocare.
Come Giuda che si lamentava con Gesù della sua economia epicheica che non riusciva a capire, Agostino è il prototipo del tradimento dei chierici, perché trovava indecente che la moneta fosse qualcosa di sacro. Ciò disturbava la vasta cultura di Agostino. Varrone (116 a.C. - 27 a.C.) opponendosi alle dichiarazioni di Giovenale (60 circa 140 circa) che l’aveva negata, aveva infatti provato l'esistenza di cerimonie propiziatorie di buona economia, ignote perfino alle persone più erudite.
Se consideriamo alcuni tratti mitologici della moneta, vediamo come questo concetto sia pian piano degenerato rispetto a quello antico.
Il termine "moneta" proviene dalla triade di significati del verbo latino "moneo", rispettivamente connessi alla "mente" (ram-"ment"-are), alle "membra" (ri-"membr"-are), ed al "cuore" (ri-"cor"-dare).
La parola latina "moneta" traduce infatti anche il greco "mnemosine", e Mnemosine era la personificazione divina, appunto, della memoria!
Il dimenticare collettivo di queste cose da parte di uomini nei fu sempre di più indebolito il giudizio critico, caratteristica essenziale dell’umano, fu letale anche per la moneta, che in tale contesto di mancanza di cultura è divenuta l'esatto contrario di ciò che avrebbe dovuto essere, cioè “deperibile” come i chicchi di grano delle messi di Giunone, per esempio!
Moneta era infatti il soprannome di Giunone, la dea chiamata anche “Avvertitrice” perché nel 390 a.C., durante l'invasione dei Galli, le oche sacre del suo santuario “Giunone Moneta”, situato nella sommità nord del Campidoglio, dettero l’allarme coi loro starnazzi, mentre il nemico cercava di assalire la collina con un attacco notturno.
In quel tempio si batteva moneta chiedendo consiglio alla dea, e in segno di ringraziamento per le sue risposte si stabiliva che il conio della moneta venisse effettuato sotto i suoi auspici.
La moneta avrebbe dovuto essere come il grano, qualcosa che come tutto quello che è messo nel divenire, nasce, cresce e muore, facendo sviluppare nel terreno una nuova spiga, utile per il pane e per una nuova semina nel ciclo fiorente del tempo.
Invece la moneta è divenuta un’illusione: qualcosa che anche se messa nel mondo del divenire è spacciata come essere eterno.
Infatti oggi si crede cosa buona e giusta che basti avere un capitale monetario, magari da giocare in Borsa, per vivere di rendita. Ma ciò porta solo ad un’economia degenerata che non c’entra nulla con l’economia reale né col “fare economia” fin qui inteso.
Con l’avvento del pensiero scientifico, e poi dell’illuminismo, e del livellante relativismo culturale, altri esempi di tradimenti dei chierici mostrano come, terminando la fede nelle antiche divinità del politeismo e quella nel monoteismo (morte di Dio), ne sia iniziata un’altra, quella nella scienza intesa come nuovo dogmatismo.
Che la fede antica sia scemata è senz’altro un bene ma a patto che gli dei che si vollero buttare fuori dalla porta della nostra coscienza come misticismo non ritornino poi in noi come superstizione scientifica.
Intendo per superstizione “quod super stat”, cioè “ciò che sta sopra”, vale a dire qualsiasi cosa possiamo porre sopra di noi come mero principio astratto immotivato. Oggi infatti non può più essere possibile un elemento unificatore degli esseri umani che gli esseri umani non possano verificare in se stessi.
“È assurdo ricercare negli esseri singoli del mondo - dice Rudolf Steiner - qualcos’altro di comune, al di fuori del contenuto ideale che il pensare ci fornisce. Tutti i tentativi tendenti ad un’altra unità universale che non sia questo contenuto ideale ottenuto per mezzo del pensare applicato alle nostre percezioni, devono fallire. Né un Dio umanamente personale, né energia o materia, né la volontà, senza idee, di Schopenhauer, possono far da unità universale” (E questo lo dice nel cap. 5° de “La filosofia della libertà).
La degenerazione della moneta e dell’economia ingigantì a tal punto la povertà della maggior parte degli esseri umani a favore del gruppo dei manipolatori di capitali, che l’uomo, credendo illuminata la convinzione che per contrastare l’arricchimento dei ricchi a discapito dei propri simili sempre più depauperati, dovesse operare NON più nella concretezza di una cultura basata su logica di realtà come è per esempio quella della conoscenza dell’etimologia del termine “economia”, bensì con un atto di imperio, cioè con atti di forza istituzionalizzati.
Così facendo, però, mentì a se stesso. Ingannò se stesso.
Tale tradimento dei chierici fu infatti anche l’implicita svalutazione dell’individuo umano a favore della Legge del gruppo, divinizzata.
Infatti, l’atto di forza istituzionalizzabile, per risultare giusto, avrebbe dovuto necessariamente essere regolato da una legge impersonale che tenesse conto dell’interesse generale considerato superiore a quello individuale.
In tal modo, cercando di far risultare giusto un atto di imperio sull’uomo che imperasse sulla degenerazione delle cose e degli uomini, non ci si accorse che l’atto di imperio fu il via ad un’ulteriore degenerazione, la quale diventò addirittura materia di studio nelle istituzioni delle scuole dell’obbligo. E ciò avvenne secondo la stessa logica astratta che aveva già provveduto ad imperare sull’economia reale, cioè concreta.
Infatti nella logica di realtà non potrà mai essere giustificato l’imperio dell’uomo sull’uomo (a meno che si volesse definire la natura umana come malvagia, ma ciò imporrebbe che l’uomo non si occupasse in modo assoluto di nulla, essendo malvagio…
Dunque l'economia non solo degenerò. Perfino l'etimologia del termine "economia" incominciò ad essere intaccata, così che si fece di essa una non-scienza: un valore normativo, impositivo, e forzoso.
È risaputo che l’odierna degenerazione istituzionale dei nostri legislatori ha come attività principale l’occuparsi di virgole, punti ed accenti, cioè di punteggiature. Punteggiature che però fanno la differenza. Un esempio di due secoli fa può chiarirlo: un condannato aveva presentato domanda di grazia al re (Umberto I). Il Ministro di Grazia e Giustizia aveva inoltrato la domanda con questa postilla: “Grazia impossibile - virgola - lasciarlo in prigione”. Il re invece spostò la virgola così “- virgola - impossibile lasciarlo in prigione” e diede la libertà al condannato.
Ecco perché ho ritenuto necessario spiegare spesso che l’etimologia di “economia” studiata oggi nelle scuole di Stato è un’aberrazione.
La parola greca "nòmos" significa “norma”, “legge”. Non significa “pascolo”. Quello è “nomòs”. “Nòmos” invece riguarda il diritto, ma il diritto non c’entra nulla col “nomòs” inserito nella parola “eco-nomia”, che significa, appunto, “pascolo”; e neanche c’entra con l’economia reale, la cui logica è quella degli scambi che si fanno al mercato.
Lo Stato di diritto, non dovrebbe occuparsi di tali scambi se non vuole essere un diritto di Stato, cioè un conflitto di interesse permanente.
Il cambio d’accento da “nomòs” a “nòmos”, operato dal tradimento dei chierici universitari che sono culo e camicia coi legislatori del malaffare, con tutti i politici compiacenti, e con tutta la cultura massmediatica, è letale per l’economia, e genera la cosiddetta economia politica, o la politica economica che dir si voglia, vale a dire l’amministrazione politica dell’economia, che è la MORTE dell’economia.
Il pensiero che vuole realizzare una cosa del genere ce lo mostrano i numerosi programmi di partito e di governo odierni.
Lo stesso Matteo Renzi, insediandosi come capo del governo italiano, ha per esempio dichiarato innanzitutto che la cosa più importante per un governo è la scuola, ovviamente la scuola dell’obbligo in cui si fanno studiare cose dall’accento sbagliato (bisognerebbe ricordargli!)! Infatti ci si basa ancora sull’errore etimologico di Rousseau, che riferendo l’economia ai termini “oikos” e “nòmos”, la spiegò come governo della casa “saggio e legittimo” (Rousseau, “Grande Encyclopédie”, 5° vol.).
Si crede che certi settori di produzione vadano amministrati collettivamente per omologarli in campi amministrativi più vasti, cioè in una sorta di centrale amministrativa che diriga il tutto in una sorta di mega ufficio economico centrale che amministri tutto il consumo e tutta la produzione.
Ma cosa c’entra il diritto con la produzione e il consumo o con la routine dell'amministrazione politica da applicare alla vita economica?
In base a tali programmi può solo verificarsi che la vita economica diventa completamente politicizzata perché gli interessati conoscono solo l'amministrazione della politica.
E ciò non significa altro che la distruzione politica della vita economica.
“Nomòs” non va d’accordo con “nòmos” perché il pastore non ha bisogno della “Legge” della pastorizia, così come il pescatore non ha bisogno della “Legge” della pescagione, o come il cacciatore non ha bisogno della “Legge” della cacciagione.
Ogni creatore di beni necessita solo della sua immaginativa morale e si muove in conformità a questa.
Il “Nòmos”, la “Legge”, non serve alla creatività umana perché la creatività umana può creare la “Legge”, ma non viceversa.
Oggi è necessario più che mai rendersi conto che questa prassi che si vuole imporre alla vita economica è qualcosa che le è del tutto estraneo, e che pertanto può solo devitalizzarla.
Quasi sempre, chi parla di programmi per riformare l’economia o addirittura di rivoluzionarla per dare lavoro a tutti è, tutto sommato, un puro e semplice politico che vive nel pregiudizio secondo il quale ciò che ha imparato in ambito politico vada bene anche per l’amministrazione dell'economia.
Ma un risanamento del ciclo economico può aver luogo solo se l’economia è studiata e gestita a partire dalle sue condizioni di vita specifiche, così come queste risultano anche dalla logica di realtà presente nell’etimologia del termine “economia”.
I riformatori politicanti dell’economia vogliono solo che sia la gerarchia di uffici centrali detta “Stato” a stabilire cosa dev’essere prodotto e cosa dev’essere studiato a partire dalle scuole elementari fino alle università.
Tanto la cultura, quanto l’intera produzione degli Stati è così subordinata a una gerarchia di amministratori politici.
E questo è il succo della maggior parte delle idee di riforma economica del presente.
Non ci si rende conto, o non ci si vuole rendere conto, che con simili riforme non si può che restare all’odierno livello di crisi senza eliminare i danni che, al contrario, non possono che crescere a dismisura.
Ogni socializzazione di questo genere può solo portare distruzione, e non può produrre niente di proficuo per il futuro.
Oggi l’Europa si sta reincarnando nell'URSS proprio a causa dell’amministrazione politica dell'economia, e in base a leggi che l’economia non ha in sé, dato che “nomòs” non è “nòmos”!
Carestia e suicidi sono dovuti alla intromissione forzosa della politica nell’economia.
Basti pensare che in questi tempi di crisi conclamata “la Comunità europea concede un indennizzo per la distruzione degli agrumi in eccesso” (G. Falcone, "Cose di Cosa Nostra", Ed. Rizzoli, Milano, p. 144).
Se per la logica economica ciò è giustificabile, dato che rendendo rara una merce la si rende più cara, ciò non dovrebbe essere giustificato per il diritto. La logica economica non dovrebbe coincidere con quella giuridica, dato che quest’ultima dovrebbe implicare il concetto di uguaglianza fra gli uomini.
Se i bambini muoiono di fame, se i genitori si suicidano, e se i politicanti dell’economia di Stato in combutta coi legislatori fanno in modo di incentivare la distruzione degli agrumi (questo è solo un esempio), significa che il concetto di uguaglianza per questi ultimi non vale, dato che costoro evidentemente si sentono diversi...
Nereo Villa
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