Il 27 luglio 2024 il Comitato del Patrimonio Mondiale, riunito a Nuova Delhi, ha deliberato l’iscrizione della “Via Appia. Regina Viarum” nella Lista del Patrimonio Mondiale. Si tratta del 60esimo sito italiano riconosciuto dall’UNESCO.
Lunga più di 800 chilometri, la Via Appia è la più antica e la più importante delle strade costruite dagli antichi romani. Tracciata a partire dal 312 a.C. da Roma fino a Capua, arrivò a Benevento nel 268 a.C. e nel 190 a.C. a Brindisi, che funzionò quale principale porto dell’Impero romano verso l’Oriente, la Grecia e l’Egitto. Originariamente concepita come strada strategica per la conquista militare, divenne rapidamente una via fondamentale per il commercio e la produzione agricola. Lungo il tracciato, costruito con tecniche durature e innovative e disseminato di grandi opere di ingegneria civile, si svilupparono siti funerari, templi, acquedotti, ville patrizie, a cui si sono aggiunte poi sopraelevazioni medievali. Custodisce tuttora un patrimonio storico, archeologico e architettonico unico al mondo.
Il tratto romano
Il riconoscimento coinvolge 19 tratti della Via Appia.
Il primo segmento, quello della Città di Roma, è stato protagonista di vicende travagliate e contraddittorie. Qui già nelle attività di acquisizione, restauro e scavo della metà dell’800 ad opera di Antonio Canova, Giuseppe Valadier e Luigi Canina compare la visione di “museo all’aperto”: i reperti non vanno trasferiti e chiusi nei musei ma devono restare nel contesto in cui si trovano. Negli anni ’50 del secolo successivo, nonostante i primi riconoscimenti istituzionali di notevole interesse pubblico, a ridosso di sepolcri e mausolei vengono costruite strade, ville di attori, piscine, edifici per enti religiosi; il Comune autorizza, imponendo blande mitigazioni architettoniche. Lo scempio viene descritto in modo dettagliato in “I gangsters dell’Appia”, pubblicato su Il Mondo l’8 settembre 1953, il primo dei 140 articoli che Antonio Cederna dedicherà a questa Via («Oggi l’antico è tollerato solo se, fatto a pezzi insignificanti, può essere ridotto a ornamento, a fronzolo, a servo sciocco delle “esigenze della vita moderna”, del “traffico”, del “dinamismo del nostro tempo”, insomma quello che dicono “progresso”»).
Il Piano Regolatore del 1965, in linea con i suggerimenti di Cederna, vincola l’area da Porta San Sebastiano a Marino a parco pubblico e all’inedificabilità assoluta. Dopo poco tempo comincia ad infuriare l’abusivismo. Sorgono abitazioni, impianti sportivi, capannoni industriali, piazzali, magazzini, a cui si aggiungono trasformazioni minori che avvengono senza licenza e senza alcun criterio (dopo il 1967 solo nel Municipio VIII sono stati realizzati oltre un milione e trecentomila metri cubi di nuove costruzioni – Rapporto eseguito dallo studio DeA). Il fenomeno, in parte poi legittimato dalle tre leggi sui condoni edilizi, porta con sé anche l’intenso traffico veicolare. Alcuni edifici vengono demoliti, ma più spesso prevale l’inerzia dell’amministrazione.
Molto importanti i risultati ottenuti negli ultimi decenni dalla Soprintendenza Archeologica di Roma attraverso interventi di liberazione del basolato dall’asfalto e reintegro, dove necessario, con sampietrini dello stesso materiale di lava basaltica, ripristino delle crepidini (bordi dei marciapiedi), scavi di altissimo pregio e una sistematica campagna di acquisizioni (si pensi a Villa dei Quintili, Santa Maria Nova, Capo di Bove, Villa dei Sette Bassi, Mausoleo di Cecilia Metella e Castrum Caetani), consentendo finalmente la fruizione pubblica dei più importanti complessi monumentali.
Stralcio di un articolo di Maria Cariota di Salviamo il Paesaggio
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