LA CROCIERA
DEL “BRITANNIA”
I RETROSCENA DELLE PRIVATIZZAZIONI
ITALIANE
RICOSTRUITI ATTRAVERSO
QUATTRO INTERROGAZIONI PARLAMENTARI
Centro Studi
“Dino Grammatico”
Custonaci
PRESENTAZIONE:
L’AFFARE
DEL “BRITANNIA”,
UNA VICENDA
OSCURA
Il Centro Studi
“Dino Grammatico” con la presente pubblicazione intende divulgare
le vicende di uno dei periodi più travagliati, quanto poco
conosciuti, della storia recente della nostra Patria. Il caso del
“Britannia”, raccontato con dovizia di particolari in queste
pagine da Michele Rallo, ci da l’esatta idea delle perverse logiche
con cui ha preso il via il declino della nostra sovranità nazionale,
che oggi purtroppo sembrerebbe aver raggiunto il punto più basso
della sua triste parabola.
Dopo aver letto
questo lavoro verrà difficile per chiunque pensare che le
privatizzazioni di alcuni strategici asset italiani non siano state
pilotate dall’alta finanza europea, con la connivenza ovviamente di
parte del mondo politico nazionale. Il tutto avvenne a cavallo tra la
prima e la seconda Repubblica, ovvero in un periodo storico
abbastanza delicato, per il semplice fatto che si registrava la
caduta dei partiti tradizionali, che avevano governato l’Italia fin
dalla conclusione della seconda guerra mondiale, sotto i colpi delle
inchieste della magistratura. È singolare, tuttavia, che molti dei
nomi dei protagonisti di quella vicenda siano stati in seguito, o
siano ancora oggi, ai vertici delle Istituzioni nazionali ed europee.
Tanto per dare l’idea, molto gattopardesca, di quanto sia cambiato
tutto per non essere in realtà cambiato nulla.
Purtroppo
l’Italia, dai tempi dell’approdo del “Britannia”, conta
sempre meno negli scenari della geo-politica internazionale. Oggi
possiamo constatare, infatti, che le logiche europee hanno ormai
stabilmente prevalso sugli interessi nazionali. E, come se non
bastasse, le attuali politiche economiche di estremo rigore messe in
campo dalla Troika stanno condizionando la vita di circa cinquecento
milioni di cittadini dell’UE. Questa Europa, infatti, individua
nelle banche e nella finanza le risorse primarie del vecchio
continente; quando, invece, la vera costruzione europea non doveva
prescindere dalla valorizzazione delle ricchezze di ogni singola
Nazione. Del resto non era forse l’Europa dei campanili, dei
comuni, delle cento culture e delle mille diversità che nella nostra
fervida immaginazione speravamo sorgesse agli inizi degli anni
novanta? Purtroppo non si erano fatti i conti con i poteri forti
dell’establishment europeo che nel frattempo, mentre il “Britannia”
ormeggiava tranquillamente al porto di Civitavecchia, decideva i
destini delle privatizzazioni della Nazione italiana.
Il Centro Studi
“Dino Grammatico” è pertanto felice di poter essere strumento di
conoscenza di uno dei tanti misteri dell’Italia contemporanea. Non
possiamo, di conseguenza, non esprimere il nostro più sentito
ringraziamento a Michele Rallo per questo suo omaggio al nostro
istituto.
Fabrizio
Fonte
Presidente
del Centro Studi Dino Grammatico
PREMESSA:
IL CASO
“BRITANNIA”, LE PRIVATIZZAZIONI
E QUATTRO
INTERROGAZIONI
CONTROCORRENTE
Quando l’amico
e illustre collaboratore Michele Rallo mi ha fatto prendere visione
di certe sue interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta da
parte del Governo, sono stato fortemente incuriosito e lo ho invitato
a ricapitolarne la vicenda per i lettori de “La Risacca”. Troppi
silenzi hanno fatto seguito a quelle interrogazioni, tanto da
richiamare alla mente un vecchio adagio, per cui «chi tace
acconsente». È nata così la serie di cinque articoli pubblicati
fra il marzo e il settembre scorsi sulla rivista da me diretta e,
adesso, la loro riproposizione in forma di opuscolo.
Michele Rallo
(già deputato al parlamento nazionale nella XII e nella XIII
legislatura) ricostruisce la vicenda sul filo dei ricordi e, in
particolare, rivisitando il testo delle quattro interrogazioni da lui
presentate nel 1994.
Il tutto ruota
attorno ad un convegno che nel giugno 1992 – pochi mesi dopo la
nascita dell’Unione Europea – si era svolto a bordo del
“Britannia”, lo yacht della Regina d’Inghilterra; convegno che
riguardava una auspicata (da chi?) politica di privatizzazione
dell’industria pubblica italiana, politica che sarebbe stata poi
effettivamente attuata. Al convegno partecipavano esponenti del mondo
degli affari britannico e manager pubblici italiani.
Fra tutti,
spiccava il nome del dottor Mario Draghi (allora Direttore generale
del Tesoro, poi Governatore della Banca d’Italia ed oggi
Governatore della BCE), il quale svolgeva una prolusione
introduttiva. Null’altro voglio dire sul convegno, rimandando alla
diffusa trattazione che si potrà leggere nelle pagine seguenti.
Voglio invece
spendere qualche parola sulla contestualizzazione che Michele Rallo
opera, collocando l’evento in un quadro assai più ampio, che
prende le mosse dalla formazione di una cordata italiana
pro-privatizzazioni negli anni ’80 e continua poi attraverso i
primi anni ’90, sovrapponendosi ad avvenimenti nazionali e
internazionali: la caduta del Muro di Berlino, la stagione di Mani
Pulite in Italia, l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della
Repubblica (in vece di Andreotti) e di Amato alla Presidenza del
Consiglio (in vece di Craxi), e tanti altri.
Direi – anzi –
che l’aspetto più interessante di questa pubblicazione è una
sorta di “ipotesi investigativa” che ne viene fuori: l’ipotesi,
cioè, di un progetto politico di vecchia data, tendente alla
spoliazione della nostra economia nazionale, i cui effetti perversi
si palesano oggi con una epocale crisi politica, economica e sociale.
È una chiave di
lettura particolarissima ed intrigante, non priva di un certo alone
da “giallo internazionale”. Non è detto che sia esatta al cento
per cento, ma è certamente credibile; ed ancor più credibile appare
nel contesto della ricostruzione storico-politica che ne traccia
l’ex-deputato trapanese, oggi apprezzato commentatore politico.
Un ultimo
aspetto vorrei sottolineare. Quello della personale vicenda politica
del nostro collaboratore, quale traspare soprattutto nelle pagine
iniziali ed in quelle conclusive di questa ricostruzione. È la
vicenda di un “uomo politico” (non di un “politicante”) che
ha svolto il suo mandato con linearità, anche a costo di entrare in
contrasto con il vertice del suo partito e di pagare in prima persona
per le sue scelte. Oggi, a distanza di vent’anni, il triste
tramonto di certi personaggi – sedotti e poi abbandonati dai poteri
forti – dà forse ragione e rende giustizia all’onorevole Michele
Rallo.
Aldo
Messina
Direttore
della rivista “La Risacca”
UNA MATRICOLA IN PARLAMENTO
E
LE DISAVVENTURE
DE “L’ITALIA SETTIMANALE”
Non ho mai amato la
materia economico-finanziaria. I miei interessi culturali hanno
sempre privilegiato la storia e la politica. E “politica” –
aggiungo – intesa come l’arte di interpretare la storia in atto,
la storia del momento presente. Eppure, da quando nel 1994 venni
eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, sono stato per
certi versi costretto – per adempiere al mio dovere di
rappresentanza degli interessi nazionali – a dedicare una
attenzione crescente al settore economico-finanziario. Perché –
intuivo allora confusamente – nel mondo stava avvenendo qualcosa di
strano, quasi una guerra non guerreggiata dell’alta finanza contro
le nazioni e i popoli. Soprattutto contro le nazioni e i popoli di
quella Unione Europea che era stata creata appena due anni prima –
nel 1992 – e che già allora sembrava essere divenuta il bersaglio
privilegiato degli assalti della speculazione finanziaria
internazionale.
Fui quasi costretto
ad occuparmi di tale materia – dicevo – e lo feci con due soli
ausìli: “L’Italia
Settimanale”, la
rivista di Marcello Veneziani che ogni settimana era una miniera di
informazioni preziose; e don
Antonio Parlato, un deputato-gentiluomo di grande esperienza e
capacità, che in quegli anni tentava di costituire una specie di
club di parlamentari di destra che si facessero alfieri degli
interessi del Meridione. A quei tempi Internet non era ancora
fruibile, e l’unica fonte d’informazione erano i giornali. Da
qui, il ruolo fondamentale di pubblicazioni come “L’Italia
Settimanale”.
Apro una parentesi:
la rivista andava a gonfie vele, ma – per motivi che mi sfuggono –
il suo direttore Marcello Veneziani venne defenestrato nel 1995, e
poco dopo il pacchetto azionario venne ceduto ad un editore
uruguaiano (avete letto bene: uruguaiano) il quale poi fallirà nel
giro di pochi mesi. Alcuni (e, fra le righe, lo stesso Veneziani)
ritengono che i fatti che andrò a narrare fossero stati all’origine
della decisione (di chi?) di far tacere una voce assai scomoda.
Peraltro, anche il
sottoscritto – che delle rivelazioni de “L’Italia
Settimanale” si
fece megafono in Parlamento – ebbe qualche riverbero negativo sulla
propria carriera politica. Ma di questo parlerò più avanti.
UNA STRANA COINCIDENZA:
IL CICLONE “MANI PULITE”
Dunque, nel
febbraio 1993 (durante il primo governo Amato ed a metà circa della
breve XI Legislatura) “L’Italia
Settimanale” aveva
rivelato che alcuni mesi prima – per l’esattezza il 2 giugno
1992, nel pieno del ciclone di Tangentopoli – si era svolto uno
strano convegno a bordo del “Britannia”,
lo yacht della Regina Elisabetta d’Inghilterra che, per
l’occasione, si trovava ancorato nel porto romano di Civitavecchia,
dunque in acque territoriali italiane.
Attenzione alle
date: la stagione di “Mani pulite” era iniziata nel febbraio
precedente, con l’arresto di Mario Chiesa. Le elezioni dell’aprile
successivo avevano visto un arretramento dei partiti tradizionali (a
beneficio di Rete e Lega Nord) ma, tutto sommato, una pur affannosa
tenuta del quadro politico. Eppure – complice anche la coincidenza
(?) dell’attentato mortale al giudice Falcone – gli effetti del
ciclone giudiziario determinavano la mancata elezione dei due
maggiori uomini politici italiani alle cariche apicali dello Stato e
del Governo: in maggio Giulio Andreotti doveva rinunziare alla
Presidenza della Repubblica in favore di Oscar Luigi Scalfaro; ed un
mese più tardi Bettino Craxi dovrà farsi da parte nella corsa alla
Presidenza del Consiglio, lasciando campo libero al socialista più
amato dai “mercati”, Giuliano Amato. Venivano così eliminati
dalla scena politica i due elementi di maggior spessore, due politici
di razza che avevano le capacità per comprendere la vastità del
sommovimento in atto sulla scena internazionale, dopo la recentissima
fine dell’Unione Sovietica e l’inizio della politica americana di
egemonizzazione dell’intero globo terraqueo.
Certo, la
Magistratura italiana non si era inventata niente: le inchieste sulla
classe dirigente della “prima repubblica” erano in buona parte
più che fondate. Ma non v’è dubbio che la stagione di
Tangentopoli abbia cancellato dalla scena politica del nostro Paese
l’unico Presidente del Consiglio che avesse avuto il coraggio (ai
tempi della crisi di Sigonella) di contrastare a muso duro il
Presidente degli Stati Uniti. E non v’è dubbio, del pari, che
Tangentopoli abbia indotto un personaggio del calibro di Giulio
Andreotti a ritirarsi sotto la tenda e ad attendere serenamente la
conclusione della propria avventura terrena.
ARRIVANO I BRITISH
INVISIBLES
Chiedo scusa al
lettore per la lunga digressione, necessaria – tuttavia – per
inquadrare temporalmente il convegno del Britannia.
Il 2 giugno 1992, dunque: una settimana dopo l’elezione di Scalfaro
alla Presidenza della Repubblica (25 maggio) e tre settimane prima
dell’elezione di Giuliano Amato alla Presidenza del Consiglio (28
giugno). E ancòra – se vogliamo inquadrare l’avvenimento in un
più vasto contesto internazionale – pochi mesi dopo la fine
dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) e la firma di quel trattato
di Maastricht che aveva segnato la nascita dell’Unione Europea
(febbraio 1992). All’epoca – si tenga presente – l’attacco
all’economia italiana era già stato sferrato, ma nulla lasciava
prevedere i suoi esiti disastrosi. Il governo del tempo (il VII
gabinetto Andreotti, ancòra in carica per l’ordinaria
amministrazione) aveva posto le premesse per una politica di
dismissioni, senza tuttavia imboccare ancòra quella strada, invocata
a gran voce dalla speculazione che già pregustava i golosi bocconi
made in Italy.
Si era, in sostanza, a metà del guado. Nulla era stato ancòra
deciso, il vecchio quadro politico sembrava reggere in qualche modo,
ed i maggiori partiti italiani (DC, PCI, PSI e MSI) non avevano
ancòra accettato il diktat dei “mercati”: globalizzazione
economica, fine dello Stato sociale e, appunto, privatizzazioni.
Era a quel punto
che dalla speculazione finanziaria giungeva una evidente forzatura.
Venivano mandati avanti the
British Invisibles,
“gli Invisibili Inglesi”, che non erano – contrariamente a quel
che potrebbe far pensare il loro nome – una setta più o meno
segreta, ma i membri di un rispettabile (si presume) comitato di
“banchieri d’affari” e di finanzieri; dei potentissimi
businessmen
che, ufficialmente ed alla luce del sole, promuovevano nel mondo
l’industria dei “servizi finanziari” del Regno Unito. Peraltro,
in una singolare commistione di pubblico e privato, gli Invisibili
avevano (ed hanno) un rapporto strettissimo con la Casa Regnante
inglese. Una delle manifestazioni di questa vicinanza era la gentile
concessione (non saprei dire se a titolo gratuito o meno) dello yacht
reale “Britannia”
per i convegni organizzati dagli uomini della City
nei quattro angoli del globo, ovunque ci fosse da far soldi. Da Tokio
a Hong-Kong, da Stoccolma a Roma. E appunto a Roma – anzi nella sua
sede portuale di Civitavecchia – iniziava, quel 2 giugno 1992, la
breve ma intensa crociera che avrebbe visto affaristi anglosassoni e
boiardi italiani discutere familiarmente della liquidazione della
nostra industria di Stato.
NOTIZIE DA PECHINO:
LA
PRIVATIZZAZIONE
DELLA SOCIETÀ AUTOSTRADE
Quando – in un
domani non so quanto lontano – gli storici scriveranno la storia
della svendita alla finanza anglosassone della nostra economia
nazionale, citeranno certamente tre eventi che sono all’origine di
questa drammatica pagina: la legge-delega Amato-Carli che avviava la
privatizzazione della Banca d’Italia (30 luglio 1990), il trattato
di Maastricht e la nascita dell’Unione Europea (7 febbraio 1992) e,
appunto, il convegno del “Britannia” (2 giugno 1992).
Di quest’ultimo
evento ho già delineato il contesto politico e diplomatico (oltre
che giudiziario) che gli fece da cornice. Adesso scenderò nel
dettaglio, dando conto delle partecipazioni più significative, sia
da parte inglese che da parte italiana. Per evitare di incorrere in
qualche errore od omissione (sono ormai trascorsi vent’anni)
sorreggerò la mia memoria con i dati riportati in quattro
interrogazioni parlamentari di cui sono stato co-firmatario insieme
ai colleghi Parlato (la prima) e Landolfi (le altre tre). Si tratta,
per l’esattezza, della n. 4/00234 del 29 aprile 1994 – due
settimane dopo l’inizio della XII Legislatura – e delle nn.
4/00778, 4/00779, 4/00780 del 20 maggio del medesimo anno. Tutte
rimaste senza risposta da parte del governo del tempo.
La prima
interrogazione era per certi versi anomala, perché quasi interamente
dedicata ai prodromi di privatizzazione della Società
Autostrade. In
premessa si affermava che i dirigenti della predetta Società erano
stati fra i partecipanti al convegno del “Britannia”, nel corso
del quale «fu deciso,
oltre al resto, la dismissione delle aziende italiane a
partecipazione statale».
Si proseguiva con la notizia – rimbalzata addirittura da Pechino –
che «le procedure di
vendita sono a buon punto per Maccarese e Italstrade, e c’è la
conferma della volontà di quotare in borsa, scendendo sotto il 51
per cento, anche le azioni ordinarie della Società Autostrade».
PRIVATIZZAZIONI
CON LO SCONTO DEL 30%
Le altre
interrogazioni seguivano a distanza di un mese, ed erano
sostanzialmente un unicum
suddiviso in tre puntate. È da notare che gli atti ispettivi
riguardavano fatti avvenuti durante gestioni governative precedenti
(il 7° governo Andreotti, il 1° governo Amato ed il governo
Ciampi), ma che comunque il nuovo gabinetto (il 1° governo
Berlusconi) non riterrà di fornire risposta alcuna: come se – al
di là delle divisioni partitiche – i governi di ogni colore
politico fossero tenuti a non ostacolare il disegno di spoliazione
dell’economia italiana.
La seconda
interrogazione (la prima della terna principale) esordiva citando le
rivelazioni contenute nell’articolo de “L’Italia settimanale”
del 3 febbraio 1993. Riporto testualmente il brano: «2
giugno 1992: muore il giudice Falcone. Mentre l’Italia si indigna e
scende in piazza, qualcun altro dà il via alla svendita dello Stato.
Prime vittime “annunciate”, i patrimoni industriali e bancari più
prestigiosi. Il nome dell’operazione è “privatizzazione”.
Formula magica presentata alla collettività come unica cura per
risanare la nostra economia e che, invece, nasconde un business dalle
proporzioni incalcolabili, patti di sangue tra le famiglie più
influenti del capitalismo, dinastie imprenditoriali, banche e signori
della moneta. Accordi e strategie politiche ben precise con un minimo
comun denominatore: scippare agli Stati, considerati un inutile
retaggio del passato e un odioso freno alla globalizzazione del
mercato, la sovranità monetaria.
L’Italia
un’espressione geografica delle lobby, dell’impero multinazionale
anglo-americano? E quanto viene deciso, anzi, ufficialmente sancito
il 2 giugno 1992, a bordo del regio yacht “Britannia” (che si
trova “per caso” nelle nostre acque territoriali) dai
rappresentanti della BZW
(la ditta di brocheraggio della Barclay’s),
della Baring &
Co, della S.G.
Warburg e dai nostri
dirigenti dell’ENI,
dell’AGIP,
da Mario Draghi del ministero del Tesoro, da Riccardo Gallo dell’IRI,
Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto,
Antonio Pedone della Crediop
e da alti funzionari della Comit,
delle Generali
e della Società
Autostrade. Lo rivela
un documento dell’Executive Intelligence Review.
Poche ore di
discussione e l’affare prende corpo. Al Governo il compito di
giustificare la filosofia dell’operazione (con una adeguata
campagna-stampa di drammatizzazione dei dati del deficit pubblico)
...
Anche la
svalutazione della lira
[avvenuta tre mesi dopo] è
stata soltanto un comodo affare per le finanziarie di Wall Street.
Calcolato in dollari, l’acquisto delle nostre imprese da
privatizzare, è diventato infatti, per gli acquirenti americani,
meno costoso del 30 per cento. La stessa lira si va assestando,
ormai, sul valore politico di circa 1.000 lire a marco, esattamente
come da richiesta (imposizione) internazionale. Ma non bisogna
stupirsi. Il disegno di espansione delle grandi finanziarie
anglo-americane è noto, e viene da lontano.»
BENIAMINO ANDREATTA,
IL MAESTRO DI ROMANO PRODI
Venivano dunque
fatti i primi nomi: su tutti, spiccava quello di Mario Draghi, allora
Direttore Generale del Tesoro: l’uomo che avrebbe poi gestito le
privatizzazioni italiane. Ma su Draghi avrò modo di tornare: sul suo
ruolo, sui suoi collegamenti, sui suoi rapporti con la banca d’affari
Goldman & Sachs,
sul conflitto con Cossiga (che in diretta tv lo attaccherà con
incredibile veemenza), sulla sua sfolgorante carriera fino al seggio
più alto della Banca Centrale Europea.
E, tuttavia, un
altro nome “pesante” veniva fuori da questa prima interrogazione,
che così proseguiva: «se
sia noto [al Presidente del Consiglio] quanto ha inoltre pubblicato
l’EIR “Executive Intelligence Review” a pagina 30 del numero
del 18 marzo scorso, e cioè che tra i partecipanti alla riunione sul
panfilo della regina Elisabetta d’Inghilterra vi sarebbe stato
anche il senatore Andreatta, poi divenuto ministro del Bilancio [nel
1° governo Amato].»
Un nome – quello
del senatore Beniamino Andreatta – di importanza rilevantissima, ed
assai significativo. Oltre ad aver ricoperto incarichi ministeriali
in una mezza dozzina di esecutivi della “prima repubblica”, si
era illustrato, in particolare, per essere stato il ministro del
Tesoro che aveva posto le premesse – già nel lontano 1981 – per
la privatizzazione della Banca d’Italia; ed aveva anche svolto un
ruolo di apripista per la politica di dismissioni generalizzate che
sarà messa in atto un decennio dopo.
Ad Andreatta faceva
pieno riferimento il “giovane” cinquantenne Romano Prodi, suo
allievo prediletto e suo assistente alla cattedra di economia
politica dell’Università di Bologna. Nel 1992 l’ex giovane Prodi
era già abbastanza cresciuto politicamente, al punto da aver
ricoperto un primo lungo mandato alla presidenza dell’IRI (dall’82
all’89). Ma sarà dal 1993 – chiamato una seconda volta all’IRI
dal Presidente del consiglio Ciampi – che il beniamino di Beniamino
darà il meglio di sé, imponendosi come il protagonista assoluto
della stagione di privatizzazioni in Italia.
GLI “INVISIBILI”
E LE BANCHE AMERICANE
La terza
interrogazione (la n. 4/00779 del 20 maggio 1994) alzava il tiro.
Si prendevano le
mosse sempre dall’articolo de “L’Italia settimanale” – che
a sua volta aveva rilanciato informazioni provenienti dalla
“Executive Intelligence Review” – per affrontare il tema delle
privatizzazioni nel suo insieme ed in una duplice ottica: quella
dell’interesse delle multinazionali e della finanza speculativa,
ansiose di mettere le mani sulla corteggiatissima industria pubblica
italiana; e quella – contrapposta – della nostra economia
nazionale, che da una politica di dismissioni generalizzate sarebbe
certamente uscita (come la realtà di oggi inoppugnabilmente
dimostra) notevolmente indebolita. Si riteneva, in sostanza, che gli
“invisibili” che avevano organizzato e gestito il convegno del
“Britannia”, avessero agito anche in nome e per conto dei
banchieri di Wall Street, chiamati in causa direttamente
dall’articolo del settimanale di Veneziani in uno con i loro
colleghi della City londinese:
«La società
Mont Pelerin, che per 12 anni ha dominato l’economia inglese, sir
Leon Brittan, ex-commissario della CEE e vecchio esponente del
governo della Thatcher, il club segreto dei Bilderberg (frequentato
dal nostro Agnelli, da Kissinger, da Rothschild), i loro associati
newyorkesi della Goldman Sachs, della Merrill Lynch, della Salomon
Brothers, i loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale,
nell’OCSE, eccetera. Personaggi, sigle e organizzazioni, che non
spuntano a caso, fanno parte della storia. Sono la storia. Ricorrono
in tutti gli importanti processi di trasformazione dell’economia
mondiale.
Tre di queste
finanziarie, ad esempio, sono direttamente “interessate” alle
nostre privatizzazioni. Collaborano, infatti, con il governo. Vediamo
qualche dettaglio che le riguarda: la Goldman Sachs (la prima di Wall
Street, adesso anche con sede “operativa” a Milano) è uno dei
più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore
della moneta. Il suo leader supremo, Robert Ruin, sarà il capo del
consiglio di sicurezza nazionale del neo-presidente Clinton.
La Salomon
Brothers gestisce il greggio mondiale ed opera prevalentemente nel
settore delle materie prime. Il suo nuovo presidente, Warren Buffett,
è il principale azionista del “Washigton Post”, della rete
televisiva ABC e ha forti interessi nella Wels Fargo Bank e
nell'American Express.
La Merrill
Lynch, infine, incaricata dall’IRI, il 9 ottobre scorso, di
preparare la privatizzazione del Credito Italiano, ha occupato spesso
le cronache per alcune operazioni di riciclaggio del denaro sporco
tra l'Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano (la
famosa “pizza connection”, il processo alla famiglia mafiosa
newyorkese dei Bonanno)...»
Attenzione ad
alcuni nomi, ad alcune sigle, ad alcune ragioni sociali che in questi
anni abbiamo imparato a conoscere, ma che all’epoca – esattamente
vent’anni fa – erano quasi del tutto ignoti al pubblico italiano.
Veniva chiamato in causa per la prima volta il Bilderberg,
allora semisconosciuto club di ricconi ed oggi ritenuto il sancta
sanctorum del
“governo mondiale”, responsabile delle scelte che decidono il
destino di intere nazioni. Si facevano, poi, i nomi di certe grandi
“banche d’affari”, alcune delle quali appartenenti al gotha
dell’alta finanza ebraica negli Stati Uniti.
Di una di queste,
in particolare, la Goldman
& Sachs, avremo
modo di parlare più avanti, sia per il suo ruolo di advisor
nelle privatizzazioni italiane, sia per il rapporto diretto, per il
vero e proprio cordone ombelicale che, segnatamente per un certo
lasso di tempo, la ha collegata a Mario Draghi, il dominus
delle dismissioni made
in Italy.
Ritornando
all’interrogazione, comunque, questa si chiudeva con l’invito al
governo ad attivarsi in tutte le sedi per tutelare gli interessi
nazionali, e con una nota polemica anche nei confronti della
magistratura romana (competente se non altro per territorio) che non
aveva ritenuto di esperire indagini sull’accaduto: «se
possa rispondere in tutto od in parte al vero quanto precede, che
all’interrogante sembra di inaudita gravità e gravemente lesivo
degli interessi economici e produttivi, oltre che sociali ed
occupazionali dei cittadini italiani nonché della stessa
indipendenza italiana; in presenza di simile squallida “strategia”
di colonizzazione dell’Italia da parte delle multinazionali, quali
provvedimenti il Governo intenderebbe immediatamente assumere, ove
quanto sopra risultasse vero, nei confronti di esponenti e dirigenti
ministeriali e di aziende a partecipazione pubblica, perché le loro
gravissime responsabilità fossero colpite; se consti che su tali
“notizie di reato”, che tali l'interrogante ritiene ben possano
definirsi, pubblicate da “L'Italia settimanale”, la magistratura
romana abbia aperto indagini.»
INTERROGAZIONI (E INTERROGATIVI)
SENZA RISPOSTA
Naturalmente,
neanche questa interrogazione – come tutte le altre della serie –
ebbe il bene di una risposta da parte del Presidente del Consiglio,
che al tempo era il neo-eletto Silvio Berlusconi.
Esattamente come le
medesime interrogazioni – presentate nella legislatura precedente
dall’onorevole Antonio Parlato – non avevano ottenuto risposta
dai Presidenti del Consiglio di allora, Giuliano Amato e Carlo
Azeglio Ciampi.
Esattamente come –
aggiungo ancòra – non ha successivamente avuto risposta una mia
interrogazione del 1999 sul ruolo del dottor Mario Draghi – sempre
lui! – nella privatizzazione di Medio Credito Centrale e Banco di
Sicilia;
l’interrogazione
era rivolta al Ministro del Tesoro, che all’epoca (governo D’Alema)
era Giuliano Amato.
Guarda caso, tutte
le interrogazioni relative alle privatizzazioni – almeno quelle di
cui sono stato firmatario o co-firmatario – non hanno avuto la
fortuna di ricevere una risposta da parte dei governi in carica,
fossero questi di destra o di sinistra, indifferentemente.
Eppure il Governo è
tenuto a rispondere agli “atti di sindacato ispettivo” (così
tecnicamente si definiscono le interrogazioni parlamentari). Può, in
verità, avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma, in questo
caso, deve obbligatoriamente comunicare le motivazioni della mancata
risposta. Cosa che – neanche questa – è stata fatta.
Evidentemente,
quelli delle privatizzazioni sono argomenti-tabù. Il buon
parlamentare della prima o della seconda repubblica – anche qui non
fa differenza – deve limitarsi a prendere lo stipendio e a non fare
domande. Come nelle gangster
story
cinematografiche.
UN ALTRO NOME ILLUSTRE:
GUIDO CARLI
La quarta e ultima
interrogazione della serie “Britannia” era interamente dedicata a
colui che – ad onta della sua posizione defilata – era forse il
personaggio centrale della vicenda: quel Mario Draghi che, benché
allora poco noto al grande pubblico, poteva a buon diritto essere
considerato un’autentica eminenza grigia dell’economia italiana
nell’ultimo scorcio della “prima repubblica”. Manager dalle
indubbie capacità, Draghi era cresciuto professionalmente in àmbito
anglosassone, ricoprendo per un lungo periodo – dal 1984 al 1990 –
la carica di Direttore esecutivo della World
Bank, la Banca
Mondiale.
Per avere un’idea
dell’ambiente frequentato da Draghi nel periodo forse più
importante per la sua formazione culturale e professionale, basti
pensare che, negli anni della sua direzione, presidenti della WB
erano stati un dirigente della Bank
of America e, in un
secondo tempo, un senatore dello Stato di New York. Fra i loro
successori – tanto per rendere l’idea del “clima” – vi
saranno, fra gli altri, un dirigente della J.P.Morgan
ed un top manager della Goldman
& Sachs. Al
riguardo, i lettori ricorderanno quanto ho già avuto modo di dire
nella scorsa puntata su queste banche “d’affari”; sulla G&S,
in particolare: la prima ad avere – previdentemente – aperto una
sede “operativa” in Italia, e l’unica che successivamente potrà
vantarsi di aver avuto sui suoi libri paga il futuro Governatore
della Banca Centrale Europea.
Tornando a Draghi,
questi – nonostante gli inizi più che promettenti di una luminosa
carriera in quel di Wall Street – nel 1990 lasciava l’America e
rientrava in Italia, dove però – provvidenzialmente – l’anno
seguente era chiamato a ricoprire la carica di Direttore Generale del
Ministero del Tesoro. Ministro del tempo era Guido Carli, ex
governatore della Banca d’Italia e co-autore con Giuliano Amato –
lo ricordavo prima – della legge-delega che ne aveva avviato la
privatizzazione. Carli era uno dei pionieri e degli alfieri della
politica di privatizzazioni in Italia, ed apparteneva alla medesima
cordata del senatore Beniamino Andreatta, l’unico uomo di governo –
credo – ad essere stato invitato alla crociera del “Britannia”.
Guido Carli darà
anche il via libera a Draghi per partecipare al medesimo incontro,
stando almeno a quanto lo stesso Draghi dichiarerà in una successiva
audizione alla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati
(«chiesi
l’autorizzazione al ministro dell’epoca, che non sollevò alcuna
obiezione ed anzi mi invitò a parteciparvi»).
L’AUDIZIONE DI MARIO DRAGHI
ALLA COMMISSIONE BILANCIO
E continuiamo con
l’audizione di Draghi, ampiamente citata nell’interrogazione;
audizione che – al tempo – era stata contrassegnata dalle
puntuali osservazioni dell’ on. Antonio Parlato. Parlato – come
detto – era stato il presentatore di quelle stesse interrogazioni
nell’XI Legislatura (1992-1994), “passandole” poi a me ed al
collega Landolfi nella XII.
Orbene, in quella
audizione (svoltasi nel marzo 1993) Mario Draghi aveva cercato di
banalizzare la vicenda, dichiarando che si era trattato di uno dei
tanti convegni dedicati alle privatizzazioni, e che lui aveva svolto
solamente l’introduzione alla conferenza, dopo di che si era
allontanato prima che si affrontassero temi specifici.
No, non ci trovava
nulla di male, perché «una
di queste conferenze
– sono parole sue – era
prevista sulla nave della regina Elisabetta e quindi del governo
inglese, come si sarebbe potuta tenere nella sala di un albergo o in
una sala per congressi».
Naturalmente, non
lo sfiorava neanche l’idea che, in materia di privatizzazioni,
l’Inghilterra potesse avere interessi opposti a quelli dell’Italia:
questo non lo diceva, ma una cosa del genere non era neanche presa in
considerazione.
Quanto all’ipotesi
– riecheggiata da Parlato – che la recente svalutazione della
lira (settembre 1992) potesse essere stata provocata per consentire
alle multinazionali angloamericane di acquistare le nostre aziende
pubbliche con uno sconto del 30%, ciò non appariva credibile al
serafico manager.
Così come non gli
appariva credibile che alcuni soggetti stranieri avessero potuto
condizionare l’andamento della nostra valuta: «Mi
riesce altresì difficile comprendere come il tasso di cambio di
quella che è la quinta o la sesta potenza industriale del mondo,
possa essere influenzato da operatori, tutto sommato individuali, o
da tre, quattro, cinque o anche dieci banche d’investimento, su un
arco temporale ormai molto lungo.»
Certo, si stenta a
credere che il Direttore Generale del Tesoro ignorasse che la
ricordata svalutazione del 30% della lira italiana (che peraltro ci
aveva causato una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari) fosse
stata in larghissima misura determinata – a monte – da un singolo
speculatore finanziario, l’ebreo-ungherese naturalizzato americano
George Soros; il quale nell’occasione avrebbe realizzato un
guadagno astronomico, probabilmente pari a 400 miliardi di lire (ma
in rete circolano cifre ben maggiori).
D’altro canto,
Soros è stato considerato tutt’altro che un nemico dal “partito
delle privatizzazioni” italiano. Tanto da essere, incredibilmente,
insignito di una laurea honoris
causa dall’Università
di Bologna; laurea – si dice – conferitagli su input del
privatizzatore numero uno della Repubblica Italiana, Romano Prodi,
docente di quell’Ateneo.
Ma torniamo
all’interrogazione parlamentare: «Considerato
che da quanto precede
– concludevamo l’onorevole Landolfi ed io –
le responsabilità della Gran Bretagna, attraverso sia la
disponibilità dello yacht di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra,
che gli inquietanti incontri che vi furono organizzati e per quanto
altro lo stesso Direttore Generale del Tesoro ha dichiarato, appaiono
atti chiaramente ostili nei confronti della Nazione italiana, se
voglia chiedere le opportune, immediate, esaurienti spiegazioni
all’ambasciatore del Regno Unito presso la Repubblica Italiana,
giudicando gli interroganti gravissimo l’accaduto ed ancor più
preoccupante il seguito che ne è derivato, avuto riguardo alle
speculazioni sulla lira ed allo stesso percorso delle
“privatizzazioni”.»
Fin qui
l’interrogazione.
LA FOLGORANTE CARRIERA
DI SIR
DRAKE
Mi sembra
opportuno, tuttavia, aggiungere alcune righe per ricordare le
ulteriori tappe della brillante carriera di Sir
Drake (come lo chiama
Veneziani). Il nostro manteneva la poltrona di Direttore Generale del
Tesoro fino al 2001, attraversando indenne 10 anni di intemperie
politiche e 10 diversi governi, di destra e di sinistra.
Dall’anno
successivo alla crociera del “Britannia” – e anche qui fino al
2001 – andava ad occupare un’altra ambita ed assai strategica
poltrona, quella di Presidente del Comitato Privatizzazioni. In tale
veste – apprendo da Wikipedia – «è
stato artefice delle più importanti privatizzazioni delle aziende
statali italiane».
Non da solo, in verità. Durante la sua permanenza alla presidenza
del Comitato Privatizzazioni (1993-2001) si avvicendavano diversi
Presidenti del Consiglio, diversi Ministri del Tesoro, diversi
Ministri dell’Industria, diversi Presidenti dell’IRI. Fra gli
altri, Romano Prodi: Presidente dell’IRI (per la seconda volta) dal
1993 al 1994, Presidente del Consiglio dal 1996 al 1998, prima di
diventare – nel 1999 – Presidente della Commissione Europea.
Ma torniamo a
Draghi. Nel 2001 lasciava la Direzione del Tesoro e il Comitato
Privatizzazioni, e nel 2002 approdava leggiadramente in Goldman
& Sachs. Non da
semplice manager, ma addirittura da Vicepresidente con competenza
sull’area europea, oltre che da membro del suo Management
Committee Worldwide.
Scelta forse poco elegante, considerato che la G&S
era stata fra i protagonisti delle dismissioni del patrimonio
pubblico italiano: non soltanto era stata advisor
(cioè consulente e valutatore) per la privatizzazione di Credito
Italiano, Fintecna e probabilmente anche di altre aziende, ma aveva
acquistato in prima persona consistenti pezzi del nostro patrimonio
nazionale: in particolare, l’intera proprietà immobiliare
dell’ENI, che si era aggiunta ad altre importanti acquisizioni
immobiliari (provenienti da Fondazione Cariplo, RAS, Toro, eccetera).
Draghi, comunque,
restava in Goldman
Sachs fino all’ultimo
giorno del 2005. Nel 2006, con un altro dei suoi folgoranti rientri
in patria, era nominato Governatore della Banca d’Italia. A
designarlo era il Presidente del Consiglio del tempo, Silvio
Berlusconi, sembra – a giudicare dalla telefonata di cui parlerò –
su pressioni di Francesco Cossiga; il quale poi – per motivi che
ignoro – si sarebbe pentito amaramente di quel passo.
Ricordo (e ne
conservo la registrazione) l’invettiva del vecchio leone in diretta
tv, rispondendo ad un trasecolato Luca Giurato che gli aveva chiesto
un pare sull’ipotesi di Draghi a Palazzo Chigi:
«Un vile, un vile affarista… Non si può nominare Presidente del
Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande
banca d’affari americana… e male, molto male io feci ad
appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura [per
la Banca d’Italia?]
a Silvio Berlusconi… È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul
“Britannia”, dell’industria pubblica… la svendita
dell’industria pubblica italiana quand’era Direttore Generale del
Tesoro…»
Chiusa la parentesi
Cossiga. Draghi rimaneva alla Banca d’Italia fino al 2011, quando
spiccava il grande balzo: Governatore della Banca Centrale Europea.
Carriera
folgorante, come si vede. Come parimenti folgoranti sono state le
carriere di altri due “Goldman boys”: Mario Monti e Romano Prodi,
entrambi consulenti della G&S
per diversi anni. Prodi – vorrei sbagliare – ce lo ritroveremo
prima o poi alla Presidenza della Repubblica. A meno che,
naturalmente, il “Colle più alto” non venga destinato (chissà
da chi?) proprio a Mario Draghi.
In ogni caso –
sono pronto a scommettere – il successore di Re Giorgio sarà
targato Goldman Sachs.
UNA LETTERA
DELL’AMBASCIATORE INGLESE
Pochi giorni dopo
la presentazione delle ultime interrogazioni, il 31 maggio di quel
1994, l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, Patrick
Fairweather, prendeva carta e penna e indirizzava una lunga missiva
al senatore Valentino Martelli. Attenzione: Valentino e non Claudio,
il noto cardiochirurgo e non il “piumino di cipria” della prima
repubblica. Martelli era stato eletto nelle liste di Alleanza
Nazionale – secondo quanto si sussurrava nei corridoi di Palazzo
Madama – “in quota Cossiga”; anzi – secondo le medesime voci
– era “l’uomo di Cossiga in AN”. È possibile, quindi, che i
suoi ottimi rapporti con l’ambasciatore Fairweather avessero una
matrice cossighiana; ma è anche possibile che fossero dovuti al
fatto che lo stesso Martelli avesse a lungo soggiornato ed operato a
Londra. Sia come sia, questo era il testo della lettera
dell’ambasciatore:
«Caro senatore
Martelli, fin dal nostro interessante colloquio del mese scorso, mi
sono reso conto che all’interno di Alleanza Nazionale continuano le
preoccupazioni circa un seminario sulle privatizzazioni che si è
svolto nel giugno 1992 a bordo dello Yacht Reale “Britannia”.
Sono consapevole che due interrogazioni parlamentari presentate da
due suoi colleghi di partito alla Camera, Landolfi e Rallo,
richiedono un chiarimento da parte mia. La partecipazione a questo
seminario sulle privatizzazioni era intesa (…) come un’occasione
per banchieri ed altri esperti inglesi di spiegare le diverse
tecniche che potrebbero essere usate quando e se fosse stata presa la
decisione di privatizzare l’industria pubblica italiana. Il
seminario era stato organizzato dai “British Invisibles”
(Invisibili Inglesi),
un’associazione di banchieri e specialisti finanziari londinesi, e
dal personale di questa Ambasciata. (…) Hanno partecipato circa 90
fra dirigenti e manager dell’industria italiana, principalmente ma
non esclusivamente dall’area delle partecipazioni statali. Il
seminario è stato presentato dal professor Mario Draghi, Direttore
Generale del Tesoro, che tenne a precisare che a quella data nessuna
decisione era stata presa sulla concessione di contratti di
consulenza a soggetti inglesi o ad altre banche o istituti
finanziari. A far tempo da quella data, alcune ma non tutte le banche
i cui rappresentanti parteciparono a quel seminario, hanno avuto qui
dei contratti di consulenza o di altro tipo di valutazione. Continua
l’intenso interesse italiano per l’esperienza britannica in
questo settore, ed io e il mio personale facciamo del nostro meglio
per soddisfarlo. Ma il suggerire che la partecipazione ad un
seminario su un tema d’attualità in una prestigiosa locazione
possa aver avuto un motivo più sinistro che il desiderio di
promuovere – del tutto legittimamente – la competenza britannica
in questo settore, è completamente infondato. Naturalmente, sarò
lieto per qualunque azione Lei possa fare per evitare che queste
storie sensazionali e senza basi sul seminario del Britannia possano
guadagnare credito fra i Suoi colleghi. Spero che, a tal fine, vorrà
far circolare copie di questa lettera.»
Fin qui la lettera,
che chiaramente mirava a minimizzare quanto avvenuto. Peraltro, era
certamente inconsueto che alcune interrogazioni parlamentari –
evidentemente “scomode” al punto da non ricevere le dovute
risposte del Governo – avessero invece un riscontro da parte
dell’ambasciatore di uno Stato straniero.
FINI, A LONDRA,
SOSTIENE LE PRIVATIZZAZIONI
Qualche tempo
appresso, comunque, il senatore Martelli si rifaceva vivo con una
telefonata. Mi comunicava che Gianfranco Fini avrebbe prossimamente
compiuto una non meglio specificata “visita” a Londra,
aggiungendo che, in tale occasione, le famose interrogazioni
avrebbero potuto “disturbare”. Non ricordo – a distanza di
vent’anni – se aggiungesse altro. Ricordo soltanto di aver
risposto che restavo in attesa di conoscere la risposta del Governo
per decidere se dichiararmi soddisfatto o meno. Il Governo – come
già detto – non rispose mai. Ancora oggi, se in internet si digita
“camera dei deputati michele rallo” seguito dal numero di una di
quelle interrogazioni, si può apprendere che l’iter dell’atto
ispettivo è “in corso”.
Della trasferta
londinese di Fini, intanto, si parlava già sulla stampa. Il
“Corriere della Sera” del 21 gennaio 1995 titolava: «Fini
a Londra: polemica sul Times, colazione alla Rotschild».
Nel contesto si riferiva di una “colazione di lavoro” che la
Banca Rotschild avrebbe organizzato «per
sentire cosa propone Fini»,
riportando anche una premonitrice voce di corridoio: «arriverà
fascista e partirà conservatore».
Ma il leader di AN
non aspettava di ripartire da Londra per vestire i panni del
conservatore e, appena messo piede sul suolo britannico, così
rispondeva a chi gli chiedeva un giudizio sul Duce: «Mussolini
è già stato condannato dalla Storia. Non ho bisogno di condannarlo
io». Lo riferiva il
“Corriere della Sera” del 16 febbraio. Non era ancòra
l’invettiva contro «il
male assoluto»
pronunciata qualche anno dopo in Israele, ma era un buon inizio.
La trasferta
londinese, tuttavia, non era incentrata su disquisizioni di carattere
storico, ma su argomenti assai più concreti. Gli interlocutori di
Fini – tra i quali primeggiavano banchieri ed operatori di borsa –
sembravano preoccuparsi soprattutto delle posizioni che la Destra
italiana aveva sui temi di natura economica: AN era un partito
liberista o statalista? Era a favore o contro lo Stato sociale? Era a
favore o contro la moneta unica europea? «E
più e più volte: –
cito sempre dal Corrierone – siete
a favore delle privatizzazioni?»
Gianfranco Fini – riferiva l’inviata Lucia Annunziata – «ha
fatto di tutto per rispondere»,
spesso cedendo la parola al professor Pietro Armani, suo “consigliere
economico” nuovo di zecca e con alle spalle una lunga permanenza
alla Vicepresidenza dell’IRI (anche durante la gestione Prodi). Il
messaggio, comunque, era chiaro: «Il
presidente di AN parla a favore delle privatizzazioni…
– riferiva “Repubblica” del 15 febbraio – che
la City e Banca Rotschild ascoltino…»
Certo che, in quel
contesto, le irriverenti interrogazioni sull’affare del “Britannia”
dovessero «disturbare».
APPENDICI
LA PRIVATIZZAZIONE
DELL’INDUSTRIA
ALIMENTARE
ITALIANA
”PRODI
E DE BENEDETTI: ATTENTI A QUEI DUE”
UN
ARTICOLO DI MICHELE RALLO
PUBBLICATO
SU “LA RISACCA” DEL GIUGNO 2012
C’era una volta
l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto nel
1933 da Benito Mussolini, poi conservato ed anzi rilanciato e
ampliato dai partiti antifascisti nel dopoguerra. Si trattava di un
ente pubblico che riuniva varie aziende statali o “partecipate”
dallo Stato (un migliaio nel periodo di massima espansione), molte
delle quali ai primi posti nelle graduatorie mondiali dei rispettivi
segmenti economici: Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana,
Banco di Roma, Finsider, Finmeccanica, Fincantieri, RAI, Iritecna,
Telecom, Alitalia, Tirrenia, Società Autostrade, Alfa Romeo,
Montedison, e così via. All’IRI faceva capo anche la SME, che
controllava in tutto o in parte le maggiori società italiane
operanti nel comparto alimentare: Star, Cirio, Pavesi, Bertolli, De
Rica, Motta, Alemagna, Italgel, Surgela, Supermercati GS, Autogrill,
eccetera.
Naturalmente,
saltiamo a piè pari la tematica delle privatizzazioni: il discorso
ci porterebbe troppo lontano, ma vorremmo tornare a parlarne in una
delle prossime occasioni. E tuttavia, pur tralasciamo la tematica
complessiva delle privatizzazioni, non possiamo non prendere le mosse
dall’avvenimento che rappresenta un vero e proprio spartiacque
nelle recente storia dell’IRI in generale e della SME in
particolare: ci riferiamo alla nomina – nel 1982 – di Romano
Prodi alla presidenza dell’IRI. Prodi era un noto economista
democristiano (ma “aperto a sinistra”), docente universitario
come quasi tutti i suoi familiari (la moglie e cinque dei suoi sei
fratelli), massimo esponente della Nomisma,
la società di consulenza che sarà agli onori delle cronache per
avere acquisito certe (laute) commesse da parte di ministeri e uffici
pubblici. Lo spazio tiranno ci impone di tralasciare anche qui tanti
fatti importanti e di saltare direttamente al 1985, quando il governo
italiano decideva di cedere gli asset
dell’industria alimentare (erroneamente giudicati “non
strategici”) e il presidente Prodi impostava la trattativa con
l’industriale Carlo De Benedetti, editore del quotidiano
“Repubblica” e nume tutelare dell’intesa fra PCI e sinistra DC,
diventato da pochi mesi un industriale alimentare grazie all’acquisto
della Buitoni. Prodi e De Benedetti chiudevano subito un accordo
preliminare che prevedeva il passaggio di mano del 64,36% del
capitale della SME dietro un corrispettivo di 437 miliardi di lire
(497, considerati gli interessi per la diluizione in 4 rate).
Inoltre, al prezzo simbolico di 1 lira, la Buitoni avrebbe acquisito
anche la consociata SIDALM (Motta e Alemagna), avente un valore
d’avviamento negativo. Il prezzo convenuto equivaleva ad una
valutazione di 1.107 lire per ciascuna azione SME, nel momento in cui
la loro quotazione in borsa era di 1.275 lire. Quindi, prescindendo
da ogni valutazione sull’enorme potenziale dell’industria
alimentare italiana, uno sconto in partenza di 168 lire ad azione,
più o meno il 13%.
A quel punto, il
Presidente del Consiglio del tempo, Bettino Craxi, si rendeva conto
che l’Italia stava per svendere un bene prezioso per pochi
spiccioli, e si rivolgeva al suo amico Silvio Berlusconi (all’epoca
non ancora impegnato in politica) perché mettesse su una “cordata”
imprenditoriale in grado di presentare una offerta concorrenziale
rispetto a quella del gruppo De Benedetti.
Ma, mentre
Berlusconi incominciava a cercare compagni di strada, al consiglio
d’amministrazione dell’IRI giungeva già una prima offerta in
aumento: 550 miliardi, offerti da uno studio legale milanese a nome
di un gruppo rimasto anonimo. Seguiva l’offerta del sodalizio
Berlusconi-Barilla-Ferrero, quantificata in 600 miliardi, ed altra
offerta di pari importo da parte della Lega delle Cooperative. Ultima
offerta, infine, da parte della Cofima per 620 miliardi.
A quel punto, però,
il governo riconsiderava l’intera vicenda e decideva di non vendere
più, né a De Benedetti né ad altri, né per 437 miliardi né per
620. Bettino Craxi aveva ottenuto il suo scopo – evitare che la SME
venisse svenduta al peggiore offerente – e rilanciava sul tavolo
della grande politica: conservare la SME al patrimonio nazionale, ed
anzi rafforzarla con adeguati investimenti per farne un grande polo
agro-alimentare che fungesse da volano per l’agricoltura italiana.
Ancora un volo
pindarico, e giungiamo al 1992, quando Craxi veniva travolto dal
ciclone “mani pulite” e costretto a farsi da parte. Il progetto
di creare un grande polo agro-alimentare aveva fatto, nel frattempo,
discreti passi in avanti, ma si scontrava adesso con le nuove parole
d’ordine che seguivano alla crisi del comunismo internazionale e,
in Italia, alla acquisizione dei postcomunisti alla politica
liberista. Queste nuove parole d’ordine erano: globalizzazione
dell’economia, fiducia dei mercati, riforme “strutturali” e,
naturalmente, privatizzazioni. Fra le prime ad essere destinate alla
privatizzazione, ovviamente, erano le industrie alimentari, con
conseguenze che – a modesto parere dello scrivente – si sono poi
dimostrate catastrofiche per gli interessi nazionali.
C’erano stati,
frattanto, alcuni passaggi che avranno una forte incidenza anche
sulle privatizzazioni del settore agro-alimentare: nel giugno 1992
l’agenda delle nostre privatizzazioni era stata discussa in un
summit fra banchieri inglesi e manager pubblici italiani che si era
svolto a bordo dello yacht reale “Britannia”
ancorato al porto di Civitavecchia; nel settembre 1992 la lira era
stata svalutata del 30%, la qualcosa avrebbe determinato uno sconto
di eguale valore su tutti i pacchetti azionari che saranno ceduti
negli anni seguenti; nel 1993, infine, Romano Prodi era ritornato
alla presidenza dell’IRI, dove rimarrà fino all’anno successivo.
In conclusione, fra
il 1993 e il 1996, le aziende del gruppo SME venivano inesorabilmente
privatizzate, depauperando l’economia reale
della nazione italiana di un patrimonio vastissimo e, soprattutto,
ricco di potenzialità enormi. Nonostante ciò, e nonostante i prezzi
pagati fossero calcolati in lire che la svalutazione aveva privato di
quasi un terzo del loro valore, la vendita di quelle aziende fruttava
all’IRI (e quindi allo Stato italiano) qualcosa come 2.044 miliardi
di lire. Altro che i 437 miliardi del patron
di “Repubblica”!
A conclusione
dell’intricata vicenda, comunque, ad essere rinviato a giudizio era
il solito Berlusconi, accusato di avere corrotto alcuni magistrati
per impedire che De Benedetti realizzasse un buon affare.
Infine, secondo il
nostro costume, segnaliamo le fonti da cui abbiamo desunto le notizie
che abbiamo citato. Si tratta, al 90%, di fonti assolutamente neutre,
come l’esauriente voce di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/
Vicenda_SME.
Per chi voglia aggiungere un pizzico di sale all’approfondimento,
poi, è sufficiente digitare prodi
AND de benedetti su
un qualunque motore di ricerca, e se ne leggeranno delle belle…
LA PRIVATIZZAZIONE
DEL
BANCO DI SICILIA
XIII
LEGISLATURA
DELLA
REPUBBLICA ITALIANA
INTERROGAZIONE
A RISPOSTA SCRITTA 4/26229 presentata da RALLO MICHELE
in
data 19/10/1999
Al
Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
Per
sapere - premesso che:
-
sono state avviate le procedure per la privatizzazione del
Mediocredito Centrale SpA, banca che detiene il controllo del 61 per
cento del Banco di Sicilia;
-
il relativo bando precisa che "l'alienazione verrà effettuata
mediante trattativa diretta e/o offerta pubblica di vendita";
-
il medesimo bando di gara precisa inoltre che la privatizzazione del
Mediocredito Centrale-Banco di Sicilia dovrebbe contribuire "al
rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di
Mediocredito Centrale";
-
in esito al citato bando, sono pervenute tre offerte: le prime due,
da parte del Banco di Roma e di Unicredito per il totale di
Mediocredito centrale; la terza, da parte di un gruppo di banche
popolari (Popolare di Vicenza, Popolare di Bergamo, Popolare di
Bergamo, Popolare di Emilia-Romagna, Cardif) per il 30 per cento di
Mediocredito centrale, ponendo sul mercato il restante 70 per cento
attraverso una offerta di pubblica vendita aperta all'azionariato
degli imprenditori, in particolare siciliani, e degli stessi
dipendenti;
-
a quattro giorni dalla scadenza per i rilanci sulle offerte, peraltro
provocando il rinvio di una settimana del processo di
privatizzazione, il ministero del tesoro ha comunicato alle banche
interessate, per il tramite degli advisor J.P. Morgan e C.S. First
Boston, che "nella cessione del Mediocredito Centrale verranno
preferite le soluzioni che offrono maggiori garanzie in termini di
stabilità, e pertanto verranno privilegiate le offerte definitive
che permettano la dismissione totale del Tesoro nel Mediocredito";
-
tale intervento da parte del Ministero interrogato sembrerebbe
prefigurare una pesantissima ingerenza nel processo di
privatizzazione, inteso a favorire l'offerta del Banco di Roma ed a
mettere fuori gioco quella del raggruppamento delle Popolari, e ciò
– prescindendo dall'aspetto etico della vicenda – contravvenendo
a quanto previsto dal bando di gara, che indica esplicitamente
l’offerta di pubblica vendita tra i sistemi validi per la
partecipazione alla gara, ed identifica fra gli scopi della
privatizzazione l'obiettivo di pervenire "al rafforzamento
patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito";
-
non vanno peraltro sottaciute le gravissime implicazioni economiche e
sociali che la presa di posizione di codesto Ministero provocherebbe,
considerato che il prevalere dell’offerta del Banco di Roma avrebbe
come immediata conseguenza la chiusura, in Sicilia e nel Lazio, di
decine e decine di sportelli e l'emergere di almeno di 3.000 unità
lavorative in esubero;
-
altro pesantissimo effetto di una tale scelta sarebbe quello della
perdita di una identità autonoma del Mediocredito Centrale, per
tacere della totale cancellazione del Banco di Sicilia da una realtà
economica quale quella siciliana, peraltro drammatica sotto diversi
punti di vista;
-
in tutta la complessa vicenda, sembra che un ruolo di primo piano sia
stato svolto dal direttore generale del ministero del Tesoro dottor
Mario Draghi, responsabile – secondo alcuni – della scelta di non
ricorrere a regolari gare per l'individuazione degli advisors
chiamati a gestire fasi delicatissime nei processi di
privatizzazione, giustificando tale scelta con l'attribuzione a tali
figure di un ruolo di semplici collocatori, cosa giudicata da molti
non vera.
Se
non ritenga che la ricordata scelta in ordine ai criteri di
individuazione degli advisors
possa essere scaturita nell'incontro che il 2 giugno 1992, in acque
territoriali italiane, avvenne a bordo del "Britannia",
yacht di proprietà della regina d'Inghilterra, tra rappresentanti di
alcune banche inglesi ed esponenti del mondo finanziario italiano,
incontro cui partecipò il dottor Mario Draghi – anche all'epoca
direttore generale del ministero del tesoro – come riportato nel
corso di una audizione presso la Commissione Bilancio della Camera
dei Deputati il 3 marzo 1993;
se
non ritenga opportuno, altresì, porre in essere tutte le misure atte
a garantire la massima trasparenza nei processi di privatizzazione in
genere e, per quanto in particolare attiene a quello in argomento, ad
assicurare il rispetto dei termini del relativo bando di gara;
se
non intenda operare al fine di evitare che la privatizzazione del
Mediocredito centrale Banco di Sicilia possa produrre effetti
devastanti sul sistema creditizio nazionale, e siciliano in
particolare.
Michele
Rallo