lunedì 29 febbraio 2016

Utero in affitto e «alterazione di stato» - Lettera aperta



Lo stepchild adoption è stato depennato dalla legge Cirinnà sulle unioni civili, recentemente approvata ricorrendo alla "fiducia" da parte del  governo Renzi, supportato da Verdini ed Alfano. Ciò non toglie che  la paternità (surrogata) con “l’utero in affitto” è consentita a chi dispone  del vil denaro (può compiere l'atto all’estero) in forma di “contratto di donazione”… con tanto di società commerciali d’intermediazione, catalogo delle offerte, “procacciatori” e quant’altro!”

In Italia il reato di acquisto di bambino, non è previsto dal codice ma recentemente una coppia omosessuale, di cui in questi giorni tutti i giornali parlano,  va in Canada paga 135 mila € e feconda artificialmente giovane statunitense, l’embrione viene preso e impiantato su giovane  asiatica che partorisce un bel bebè bianco.  


Ebbene non sappiamo se  nel paese dove è nato il bimbo si è provveduto al riconoscimento. Ma c'è un cavillo legale, non per il reato di acquisto di bambino, che non è previsto dal codice, ma mi risulta  che esiste un articolo,  il 567, «alterazione di stato» che dice: «Chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità è punito con la reclusione da 5 a 15 anni»…  Forse bisognerebbe informare le autorità competenti per appurare se non vi siano state illegalità in merito all'adozione/riconoscimento di cui sopra...

Paolo D'Arpini, portavoce di Europeanconsumers Tuscia


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Integrazione di Antonio Gramsci:


"Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell'innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all'attività esploratrice dell'iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l'organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l'eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo.Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch'essi, prodotto genuino dell'azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce.
La vita, tutta la vita, non solo l'attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell'attività, si distacca dall'anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno."
(Antonio Gramsci, 6 giugno 1918)

USA. Dalla padella Trump alla brace Hillary – Meglio sarebbero stati Ron Paul e Monica Lewinsky - Lettera Aperta


Bevendo il cappuccino bollente a Treia intuisco ciò che i giornalacci menzogneri del potere dicono e non dicono ma tra la righe lasciano trapelare. So già come andrà a finire fra i “duellanti” americani. I duellanti sono Hillary Clinton e Donald Trump.
Hillary viene portata alle stelle e già è indicata come la prima presidentessa degli Stati Uniti D’America, l’unico problema da superare sono le malelingue che sparlano di lei in merito alle “vicende libiche” ed altre cosucce belliche. In vari ambienti la “democratica” è definita “criminale di guerra” e d’altronde essa stessa non fa mistero di essere espressione della forza (oscura), quella sponsorizzata dai Rothschild e dai Rockefeller, che mira al NWO a costo di una guerra totale.
La competizione fra Trump e Hillary sembra un cartoon, come la sfida fra Paperino e Gastone, dove il povero Paperino malgrado la fatica viene sempre surclassato dal cugino superfortunato.
Trump ha il difetto di essere di “destra” (cita persino Mussolini), populista, milionario di suo (e quindi non a ruolino dei banchieri), e simpatico a Putin, quanto basta per renderlo “indegno”, tant’è che persino la CIA ha sentito il dovere di scostarsi dicendo “se lui vincesse noi non saremmo tenuti ad obbedirgli”.
Per la Clinton è diverso, le strade verso la Casa Bianca per lei sono state spianate e lastricate d’oro e d’argento. Con il sistema “democratico” delle primarie americane se non vincesse per voti vincerà per delegati (sempre pronti questi ultimi a prostituirsi al miglior offerente). É assolutamente necessario che la Clinton trionfi “democraticamente” perché il ruolino delle urgenze progressiste lo impone e dopo un presidente nero serve una donna bionda a sancire la bontà di un progetto che mira al futuro. D’altronde non è andato lo stesso Vendola negli USA ad affittare un utero per dimostrare la sua totale adesione al “New Deal” democratico? In Italia soprattutto è importante che vinca la Clinton per un fatto di “contiguità” con il governo “renzie”.
Donald Paperino non ha gioco, anzi probabilmente fa parte del “gioco”, il gioco della finta democrazia in cui due contendenti fingono di sfidarsi sapendo già cosa è stato deciso dai veri detentori del potere, gli stessi che controllano le armi, l’emissione del denaro, l’industria alimentare, l’informazione, etc.
In campo repubblicano una vera alternativa sarebbe stata quella di Ron Paul, contrario alla FED, che già alcuni anni fa denunciava: “Se gli americani fossero onesti, ammetterebbero che la Repubblica degli Stati Uniti non esiste più e che viviamo in uno stato di polizia. I cittadini devono essere consapevoli di come lo stato si è evoluto e lottare per preservare le loro libertà. Tutte le libertà nell’America di oggi sono sotto assedio. Gli Stati Uniti dovrebbero rendersi conto che la loro realtà si basa sulla menzogna e l’ignoranza”. Ed in campo democratico non avrei visto male la candidatura di Monica Lewinsky , colei che “got the job done when Hillary couldn’t.”. Beh, facciamo finta che la “democrazia” vincerà, d’altronde l’abbiamo visto anche in Italia come essa ha trionfato con l’ascesa al potere del renzie.
Paolo D’arpini
Comitato Per La Spiritualità Laica
Via Mazzini 27 – Treia (Mc)


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Dal sogno alla realtà: 


domenica 28 febbraio 2016

Bergamo. La buona scuola - "Chi non piscia in compagnia è un ladro oppure una spia" Punizione esemplare per Stefano Rho

In data 11 gennaio 2016 il professore Stefano Rho, 53 anni, tre figli e una moglie disoccupata, docente di Filosofia presso il Liceo linguistico “Giovanni Falcone” di Bergamo, stimatissimo da colleghi e famiglie degli studenti e amato dai propri allievi, è stato licenziato in tronco. Assenteista? Fannullone? Incapace? Impreparato? Possiamo essere contenti che finalmente lo stato faccia “piazza pulita” dei suoi dipendenti indegni?

Nulla di tutto questo. Rho, con la fedina penale immacolata, è stato licenziato perché, all’atto dell’immissione in ruolo, non ha dichiarato che il 15 agosto del 2005, 11 anni fa, è stato “sorpreso” da zelanti forze dell’ordine, alle due di notte, dopo una festa di paese, a orinare presso un cespuglio, «atto contrario alla pubblica decenza». Per tale “gravissimo” gesto, all’epoca dei fatti Rho ha preferito non procedere con alcuna opposizione alla già ridicola ratifica, pagando l’ammenda di 200 euro decisa dal giudice di pace. Il suo caso, grazie a una eccezionale mobilitazione partita dai suoi studenti, ha avuto rilievo nazionale, venendo trattato da stampa (articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della sera), tv, social network, petizioni on line. Lo scorso 8 febbraio il Consiglio provinciale di Bergamo ha approvato all’unanimità una mozione urgente per la «revoca delle sanzioni disciplinari»; e interpellanze sono state presentate in Parlamento. Forse, visto il clamore mediatico e l’indignazione collettiva, la vicenda del povero professor Rho avrà un finale positivo.

Tuttavia, il suo non è un caso unico. Alcuni statali sono stati licenziati perché, essendo ricoverati in ospedale, malconci, non hanno inviato comunicazione di malattia o perché, in terapia psichiatrica, quindi poco “lucidi”, non hanno fatto richiesta di giustificazione per un paio di giorni di assenza. Oppure perché a causa di brevi assenze orarie giornaliere, recuperate lavorando del tempo in più. Altri “statali” sono stati cacciati per non aver pagato gli alimenti alla moglie (ora, da licenziati, li pagheranno di certo!) o per altre irregolarità per le quali non è prevista menzione nel casellario giudiziale. Insomma, siamo giunti dai licenziamenti impossibili ai licenziamenti fin troppo facili. Dal lassismo alla cieca persecuzione.

2-rho

Il lavoro nel settore del pubblico impiego è divenuto soffocante, infarcito di incombenze burocratiche assurde. Il clima è oppressivo. La qualità della vita lavorativa peggiora in modo proporzionale alla continua perdita delle garanzie previdenziali e assicurative. Mai alcuna considerazione della professionalità e dei meriti pregressi dei dipendenti pubblici o dei “casi umani”, sempre cecità e abitudine a trattare i lavoratori come schiavi e i cittadini come sudditi, premiando servilismo, comportamenti di facciata, formalismi, acquiescenze, e assumendo un atteggiamento implacabile verso piccole mancanze, magari formali, ma non sostanziali. Al riguardo non è nemmeno il caso di parlare di giustizia borbonica perché, specialmente dopo le “revisioni storiche” di Pino Aprile, i Borboni avrebbero di che protestare. Però è il caso di fare alcune considerazioni, esprimere alcune perplessità e porgere alcune domande.

Poiché ogni giorno vengono denunciati casi di “sfaticati pubblici” (ma i dirigenti non controllano mai? dormono anche loro?), si dà forse il caso che motivazioni apparentemente nobili come la punizione dei fannulloni e l’aumento dell’efficienza siano usate come una clava per punire chi non si adegua al conformismo e all’omologazione? Oppure, per farsi facile propaganda politica? O, addirittura, per fare spending review su stipendi e pensioni, che, visto l’andazzo, nessuno potrà raggiungere a 70 anni perché tutti, per qualche assurda inadempienza, saranno licenziati prima?

Rino Tripodi

(LucidaMente, anno XI, n. 122, febbraio 2016)

sabato 27 febbraio 2016

Gli otto principi dell'ecologia profonda di Arne Naess




1.- Il ben-essere e il fiorire della Terra vivente e delle sue innumerevoli parti organiche/inorganiche hanno un valore in sé. 

2.- La ricchezza e la diversità degli ecosistemi della Terra, come pure delle forme organiche che alimentano e sostengono, contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono anche valori in sé.

3.- Gli umani non hanno alcun diritto di ridurre la diversità degli ecosistemi della Terra ed i loro costituenti vitali, organici ed inorganici.

4.- Il fiorire della vita e della cultura umane è compatibile con una sostanziale riduzione della popolazione umana. Il fiorire creativo della Terra e delle sue innumerevoli parti richiede come necessaria tale diminuzione.

5.- L'attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando rapidamente.

6.- Si devono cambiare le politiche attuali. Tale cambiamento riguarda i fondamenti dell'economia e le strutture tecnologiche e ideologiche.

7.- Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che aderire all'illusione di un tenore di vita sempre più alto.

8.- Coloro che sottoscrivono i punti sopra elencati prendono l'impegno di partecipare ai tentativi di implementare le necessarie modifiche.


Arne Naess

venerdì 26 febbraio 2016

Il progetto di Bergoglio, il massificatore: "Attuare il NWO" (sia in campo politico che religioso)



Lo confesso: in un primo momento ho apprezzato questo Papa. Mi è piaciuta e mi piace la sua azione moralizzatrice nei confronti di una Chiesa che di moralizzazione ha un disperato bisogno. Poi, però, poco a poco, il mio giudizio si è fatto più prudente. Papa Bergoglio mi sembra eccessivo in ogni sua manifestazione (dall’alloggio in una dépendance agli occhiali acquistati in un qualunque negozio), quasi che l’unica sua preoccupazione sia quella di farsi notare, di far notizia, di acquisire la benevolenza degli organi d’informazione.

Certo, il mio essere eretico (credo in Dio ma diffido dei dogmi e delle chiese) non mi pone nelle condizioni ideali per giudicare i comportamenti di colui che – almeno secondo la dottrina cattolica – dovrebbe essere nientedimeno che il rappresentante di Dio su questa terra, scelto dallo Spirito Santo e dotato del dono dell’infallibilità, quanto meno nei suoi pronunciamenti ex cathedra. Come storico – viceversa – credo di avere le idee un po’ più chiare. 

Ho seguìto le vicende secolari del Papato (inscindibili da quelle civili europee) e mi sono imbattuto in diversi punti oscuri: dall’antichità al medioevo, dall’Inquisizione alla Restaurazione. Ho incontrato Pontefici di tutti i tipi: alcuni buoni e santi, ma alcuni assai meno raccomandabili, con una vita sessuale piuttosto movimentata, o che amavano circondarsi di boia e torturatori, del tipo – insomma – che francamente si stenta a credere possano essere stati scelti dallo Spirito Santo, sia pure pel tramite di un pio Conclave. Ma ciò che – a prescindere dai comportamenti individuali – mi appare rilevante è il fatto che, nei secoli, i Papi abbiano detto tutto e il contrario di tutto; quasi che lo Spirito Santo cambiasse opinione ad ogni piè sospinto e su qualsivoglia argomento: dal rispetto della vita a quello della persona, dalle guerre alla pena di morte, dalla persecuzione delle altre religioni all’antisemitismo, fino ai comportamenti personali ed alla morale sessuale individuale.

Pochi gli elementi di assoluta coerenza. Fra questi, l’ostilità (più o meno dissimulata) nei confronti degli Stati nazionali, considerati un ostacolo sulla strada di una comunità più vasta: quella che una volta si chiamava Cristianità e che si riconosceva nell’autorità (morale ma anche politica) del Sommo Pontefice.

Lo sappiamo bene noi italiani, che alla presenza del Papato sul nostro suolo dobbiamo il grande ritardo, rispetto agli altri popoli europei, nel raggiungimento dell’unità nazionale; con tutto quello che ciò ha poi comportato, anche sul piano dello sviluppo economico. L’apice di questo contrasto è rappresentato dal Risorgimento e, soprattutto, dalla presa di Roma e dalla fine dello Stato Pontificio (1870). Malgrado i successivi accomodamenti (con i Patti Lateranensi voluti da Mussolini nel 1929), la ferita di Porta Pia non si è mai completamente rimarginata; e molti Papi hanno continuato a guardare all’Italia come ad una entità ostile, che con la forza aveva sottratto le terre dello Stato Pontificio alla legittima sovranità del Sommo Pontefice. Il Papa del tempo – Pio IX – bollò l’evento come «audace cospirazione contro la Chiesa di Dio e questa Santa Sede», considerando l’avvenuta conquista italiana come «nulla e invalida».

Se vogliamo dirla tutta, la voglia di potere temporale non è mai completamente cessata in Vaticano, così come non è venuta meno l’ostilità malcelata nei confronti degli Stati, di tutti gli Stati, colpevoli di alimentare particolarismi etnici, culturali o anche soltanto economici che si frappongono all’utopia di una grande fratellanza universale che riconosca come unica autorità una supposta “legge di Dio”.

Ma la legge di Dio non è una scienza esatta. Per i musulmani, per esempio, la legge di Dio è completamente diversa rispetto a quella dei cristiani. Idem per gli ebrei. Idem, ancòra, per le altre religioni, ancorché non monoteiste. E idem – mi si consenta – anche per quanti vivono la loro fede laicamente, senza molta attenzione ai dogmi ed alle gerarchie clericali.


Ma torniamo a Papa Bergoglio. Come interpretare la sua ossessiva insistenza per una “accoglienza” illimitata e indiscriminata, se non come una ostilità preconcetta verso gli Stati nazionali? Forse che “i muri” – cioè i normali confini – non siano uno degli elementi essenziali, imprescindibili di ogni e qualsiasi Stato? Si può mai immaginare uno Stato che non abbia frontiere, che non protegga i cittadini con limiti e barriere, che permetta a chiunque lo voglia di attraversare i suoi confini, che non tuteli la sicurezza, il benessere ed anche l’identità etnico-etica dei suoi abitanti?

Papa Bergoglio può ignorare questi elementari princìpi di educazione civica? Certamente non li ignora. Quindi, è evidente che vuole cancellarli e sostituirli con altri. Così come è evidente che vuole abolire il concetto stesso di Stato e soppiantarlo con quello di Universalità. Non più soltanto di Cristianità – si badi bene – perché il suo pensiero teologico sembra muoversi verso l’idea di un Dio "unificato" e per molti versi indistinto, in cui tutti gli uomini possano credere a prescindere dalle rispettive confessioni religiose. Ciò spiega – anche – la sua totale mancanza di difese psicologiche nei confronti del mondo islamico, del quale almeno una parte ha intrapreso la migrazione in Europa con il dichiarato proposito di “convertirla”, cioè di sottometterla.

Numerosissime – ormai – sono le sue prese di posizione contro il permanere dei confini di Stato. Aveva iniziato a Lampedusa, con una predica a effetto, probabilmente causa o concausa del moltiplicarsi degli sbarchi sulle coste siciliane. Ed ha continuato fino all’altro giorno, quando – pochi istanti dopo aver dichiarato di non volere immischiarsi nella politica italiana a proposito di unioni gay – si è immischiato platealmente nella politica americana, accusando un candidato alle elezioni presidenziali, Donald Trump, di non essere cristiano perché vuole costruire una barriera sul confine messicano. Evidentemente, esiste un undicesimo comandamento (“non costruire muri”) di cui la gran parte del mondo cristiano sconosce la vigenza. Così come gran parte del mondo cristiano – e non solo di quello – ritiene che il mondo debba continuare a reggersi come per il passato: cioè sugli Stati, sui confini, sugli equilibri che, fino ad oggi, hanno regolato l’esistenza e la coesistenza dei popoli.

Certo, vi sono forze che – al di fuori di chiese e chierici – vogliono fare saltare questi equilibri. Ma sono forze che intendono assoggettare il globo ad una deità che nulla ha a che fare con i cànoni religiosi, cioè al Dio-denaro.

Michele Rallo - ralmiche@gmail.com

giovedì 25 febbraio 2016

Piani di Prevenzione della Corruzione, ancora scarso il loro livello qualitativo


I Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione sono stati adottati dal 96,3% delle amministrazioni, ma è ancora scarso il loro livello qualitativo
Lo studio condotto dall'Università di Roma Tor Vergata e Formezper per verificare lo stato di attuazione di quanto previsto dalla Legge n. 190 del 2012, è stato pubblicato dall'autorità nazionale anticorruzione (ANAC) lo scorso 16 dicembre 2015.
Sono stati presi in esame 1.911 Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione nelle pubbliche amministrazioni  (PTPC) adottati da: Amministrazioni dello Stato ed Enti Nazionali (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri, Enti Pubblici non Economici, Agenzie e altri Enti nazionali), Autonomie Territoriali (Regioni, Province e Comuni), Enti del Servizio Sanitario (Aziende Sanitarie Locali, Aziende Ospedaliere e Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) e Autonomie Funzionali (Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura e Università Statali).
Il 96,3% delle amministrazioni ha adottato almeno un PTCP pubblicandolo nel proprio sito istituzionale. Tra quelle che non l'hanno mai fatto emergono le Autonomie Territoriali, nel 94% dei casi, segue il Sud, nel 54,9% dei casi, e le amministrazioni di piccole dimensioni, nel 74,7% dei casi.
Distribuzioni di frequenza delle amministrazioni inadempienti
Più critici gli aggiornamenti: solo il 62,9% delle amministrazioni ha provveduto all’aggiornamento per il 2015-2017.
L'analisi non si è limitata a verificare l'adozione formale dei PTPC, ma anche la loro qualitàper identificare eventuali criticità e migliorare la strategia di prevenzione della corruzione a livello decentrato.
Il processo di valutazione è stato articolato in due momenti: uno di “primo livello”, condotto da un gruppo di valutazione composto da funzionari e dirigenti dell’ANAC, e uno di “secondo livello”, condotto da ricercatori ed esperti dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e del Formez.
In primo luogo, è stata valutata la qualità del processo di gestione del rischio attraverso l’esame dell’analisi del contesto esterno e interno, del processo di risk assessment, del trattamento del rischio, del livello di coinvolgimento degli attori interni ed esterni e del sistema di monitoraggio.
Per ognuno di questi criteri, si è rilevata una generalizzata inadeguatezza del processo di gestione del rischio da parte delle amministrazioni, probabilmente dovuta a una generale impreparazione delle amministrazioni ad affrontare la sostanziale novità e la complessità della normativa.
La fase maggiormente critica risulta l’analisi del contesto esterno, ossia la capacità delle amministrazioni di leggere e interpretare le dinamiche socio-territoriali e di tenerne conto nella redazione del Piano, che è risultata insufficiente o inadeguata nel 96,52% dei Piani analizzati e assente nel 84,46% dei casi.
L’analisi del contesto interno, da attuare attraverso la mappatura dei processi, è meno critica, ma sempre tendenzialmente inadeguata.
La raccolta dei dati evidenzia una scarsa qualità e analiticità. Nel 73,91% dei casi per quanto concerne i processi afferenti alle cosiddette “Aree Obbligatorie” e nel 79,78 % per quanto concerne i processi afferenti alle “Aree Ulteriori”.
L'analisi del rischio risulta insoddisfacente nella maggioranza dei Piani e inadeguata nel 60% dei casi. In generale si rileva la concreta difficoltà delle amministrazioni di individuare correttamente i rischi di corruzione, di collegarli adeguatamente ai processi organizzativi e di utilizzare un’adeguata metodologia di valutazione e ponderazione dei rischi.
Questo appare ancora più evidente nelle Autonomie Territoriali, nelle amministrazioni collocate nei territori del Sud e delle Isole e nelle amministrazioni di piccole dimensioni, le più critiche anche nel trattamento del rischio che è risultato complessivamente adeguato solo nel 37,72% dei Piani.
Una migliore qualità del processo di gestione del rischio è garantita anche dalla partecipazione di un congruo numero di attori interni ed esterni, ma il coinvolgimento degli attori esterni è risultato assente nel 55,38% o inadeguato nel 80,16% dei casi. Meno critico, ma sempre insoddisfacente, il coinvolgimento degli attori interni, inadeguato nel 61,25% dei Piani.
Anche le azioni di accompagnamento, sensibilizzazione e formazione poste in essere per la realizzazione del Piano risultano sostanzialmente inadeguate nel 75,98% dei casi.
Solo nel 37,72% dei Piani esaminati si riscontra l’individuazione di misure di prevenzione collegate con le risultanze dell'analisi e valutazione del rischio.
A conferma del generalizzato livello di inadeguatezza del processo di gestione del rischio, anche il monitoraggio sulla efficacia e attuazione del PTPC non risulta sufficiente nel 75,22% dei Piani esaminati.
Nel 77% dei Piani non vi è evidenza sufficiente della programmazione delle misure per ridurre il rischio corruttivo, né per quanto riguarda le misure obbligatorie né per quelle ulteriori non previste nel 55,5% dei casi. Anche se i Piani generalmente contengono le misure obbligatorie, sono privi di una concreta pianificazione degli interventi, facendo venir meno la componente di programmazione propria dello strumento.
I Piani esaminati non sono adeguatamente integrati con il Piano della performance nel 80,6% dei casi e con il Programma Triennale per la Trasparenza nel 63,97% dei casi.
La qualità dei Piani è significativamente influenzata da alcune variabili di contesto, quali la tipologia di amministrazione, la collocazione geografica delle stesse e la dimensione organizzativa.
Le difficoltà emerse, infatti, risultano ancora più evidenti per alcune categorie di amministrazioni che, tendenzialmente, si caratterizzano per l’adozione di Piani che presentano livelli qualitativi più bassi, come le Autonomie Territoriali, le amministrazioni di medie e piccole dimensioni prevalentemente situate nelle Regioni del Sud Italia.
I più elevati livelli qualitativi si registrano nei PTPC nelle Autonomie Funzionali, in particolare le Camere di Commercio, e negli Enti del Servizio Sanitario.
(Fonte: Arpat)

mercoledì 24 febbraio 2016

I costi maggiori della Sanità sono: Corruzione e Frodi



Come dimostra anche l’ultimo scandalo in Lombardia, il settore sanitario continua ad essere tra i più colpiti dal virus della corruzione: ben 2 milioni di italiani hanno pagato «bustarelle» per ricevere favori in ambito sanitario e 10 milioni hanno effettuato visite mediche specialistiche in «nero». Il prossimo 6 aprile si terrà la prima Giornata nazionale per promuovere trasparenza e difendere il Ssn.

Corruzione e frodi nella sanità valgono 6 miliardi di euro. Almeno 6 miliardi di euro, cioè più del 5% della spesa sanitaria pubblica, sono le risorse distolte dai servizi sanitari a causa della corruzione e delle frodi. Che il fenomeno sia consistente lo dimostrano anche i dati della Guardia di finanza, che da gennaio 2014 a giugno 2015 ha scoperto frodi e sprechi nella spesa pubblica sanitaria che hanno prodotto un danno erariale per 806 milioni di euro, pari al 14% del danno erariale complessivo.
Il prossimo 6 aprile si terrà il primo «Integrity Day». Per prevenire e contrastare corruzione e sprechi nella sanità,Transparency International Italia, CensisIspe Sanità (Istituto per la Promozione dell’Etica in Sanità) e Rissc (Centro Ricerche e Studi su Sicurezza e Criminalità), hanno avviato il progetto «Curiamo la corruzione» (www.curiamolacorruzione.it), sostenuto dalla Siemens Integrity Initiative. Il progetto promuove una maggiore trasparenza, integrità e responsabilità individuale e collettiva nella sanità attraverso attività di ricerca, iniziative di formazione e comunicazione sul territorio, sensibilizzazione dei decisori pubblici e privati, sperimentazione di misure anticorruzione nelle strutture sanitarie pilota di Bari, Melegnano, Siracusa e Trento. 

Il 6 aprile 2016 si terrà a Roma e in alcune altre città italiane il primo «Integrity Day», la Giornata nazionale contro la corruzione in sanità, a cui sono stati invitati anche il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, e il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Nel corso della giornata verranno presentati i risultati del primo anno di attività di ricerca e in diverse località verranno organizzati momenti di sensibilizzazione dei cittadini e degli operatori contro la corruzione.

Sono 2 milioni gli italiani che hanno pagato «bustarelle» per ricevere favori in ambito sanitario. Il 54% degli italiani è convinto che la sanità nel nostro Paese sia corrotta. È un dato che ci pone al 69° posto nel ranking del Global Corruption Barometer, che classifica 107 Paesi del mondo. L’Italia è preceduta da tutti i Paesi europei più avanzati. Del resto, sono circa 2 milioni gli italiani che ammettono di aver pagato una «bustarella» per ricevere favori in ambito sanitario. Le differenze tra i territori nella percezione della presenza di corruzione sono notevoli.

martedì 23 febbraio 2016

Riconversione, la parola magica per il riequilibrio economico-ecologico


 

I colossali squilibri della folle politica bancaria finanziarizzata e speculativa, con le sue instabilità e conseguenti crolli, ripianati da interventi statali senza azioni normative di riequilibrio, gravando sulle tasche dei cittadini hanno depresso la domanda nei paesi coinvolti. Per gli esportatori questo significa crollo dell'export.
In un normale regime di sovranità monetaria lo stato avrebbe avuto gli strumenti di politica economica adatti ad affrontare lo schock, intervenendo con la svalutazione competitiva del cambio (che non pregiudica gli scambi interni al paese), oltre ad agire selettivamente sui dazi doganali, per favorire i settori più colpiti.
Ma la moneta unica impedisce queste possibilità di azione, e la necessità di svalutazione può riflettersi solo sui costi di produzione. Ecco allora che con le politiche di licenziamento si crea una sacca di disoccupazione che intimidisce i lavoratori e li spinge ad accettare salari, o comunque poteri di acquisto, più bassi.
Naturalmente la riduzione del potere di acquisto deprime ulteriormente la domanda interna, con gravi effetti sulla vendibilità della produzione, e mette a rischio di crisi da sovrapproduzione.
Ecco dunque la necessità di espansione territoriale, dunque di guerra imperialista per la acquisizione del controllo di nuovi mercati (oltre che di risorse).
Il tragico meccanismo del capitalismo estremo si arresta solo di fronte ai confini degli altri imperi, la cui dimensione tecnologica nucleare impedisce la prosecuzione di scontri militari diretti, nonostante la possibilità residua di impiegare quelli indiretti (guerra per procura in conto terzi, come dalla classica "dottrina Carter"), fino all'esaurimento materiale pure di tale possibilità.
La situazione di stallo, dunque, si evidenzia progressivamente sempre più netta, e con essa tutto il meccanismo insostenibile della "crescita continua" si inceppa sempre di più.
Non rimane che imboccare la via di uscita: - Rinuncia alla crescita continua, - Recupero della sovranità monetaria, - Recupero degli strumenti di politica economica monetari e doganali, - Nazionalizzazione bancaria e controllo della finanza, con riduzione della economia nominale, - Ricostruzione dell'economia fondata sulla centralità del lavoro, - Politica di decrescita, - Riduzione delle spese militari attraverso una politica di pace, coesistenza e mutua cooperazione contrattuale tra i popoli. - Riconversione industriale civile della produzione bellica eccedente le esigenze della difesa (con eccedenza testimoniata dall’export di armamenti).
Il turbocapitalismo d’assalto neoliberista deve essere distrutto.

Vincenzo Zamboni

lunedì 22 febbraio 2016

Due uomini, due riferimenti per l’Egitto: Mohamed Hassanein Heikal e Boutros Boutros-Ghali



Mohammed Hassanein Heikal rimarrà figura di spicco e voce influente del Mondo Arabo. Al Cairo era nato 92 anni fa, e al Cairo l’ultimo saluto senza rappresentanti ufficiali. 

È stato prima di tutto un giornalista per Al-Ahram, quotidiano governativo egiziano. Ha scritto 40 libri sulla rivoluzione iraniana, sui colloqui per la pace israelo-palestinese e su tanto altro. Collaboratore di Gamal Abdel Nasser che fu il presidente di quell’Egitto considerato libero, Mr. Heikal era un pensatore libero. 


Ministro della Cultura nel 1970, fu arrestato negli anni 80 dal Presidente Sadat per le critiche mosse alle sue decisioni. Le sue convinzioni personali e professionali gli sono costate, a volte, l’allontanamento da apparizioni pubbliche. 


Boutros Boutros-Ghali primo arabo nominato Segretario Generale dell'Onu, è morto il 16 febbraio al Cairo, a 93 anni, per lui è stata organizzata la celebrazione funebre nella cattedrale copta alla presenza del Patriarca Tawadros, del Premier egiziano al Sisi, di personalità istituzionali e religiose, di diplomatici egiziani, africani, europei. Per lui è stata predisposta una solenne parata militare. 


L’ex Segretario Generale dell'Onu è stato un raffinato diplomatico che ha dovuto guidare i fatti politici internazionali in coincidenza con i genocidi nei Balcani e in Africa e si è trovato a gestire le preoccupazioni e le attese dopo la fine della guerra fredda. È stato vice Ministro degli esteri egiziano e professore di diritto internazionale all’Università del Cairo, pubblicando alcuni libri sull’argomento.


L’ex premier italiano Romano Prodi ha detto del Segretario generale dell’Onu scomparso: «Sono profondamente rattristato - con Boutros Boutros Ghali il mondo perde un protagonista di altissimo piano, un grande Segretario generale delle Nazioni Unite che ha guidato con intelligenza in un momento storico di particolare tensione e […] voglio ricordare la grande attenzione per il Mediterraneo, contesto per cui si è personalmente esposto”. 


Il presidente di Assadakah, il centro Italo Arabo e del Mediterraneo Linda Abou Khalil  presenta le sue condoglianze all'Egitto, al popolo egiziano, al Mondo del giornalismo e agli amanti della pace. 


Paola Angelini

domenica 21 febbraio 2016

L'agricoltura italiana passa alla Cina, grazie a Ren Jianxin



Ren Jianxin, entro pochi mesi potrebbe diventare il padrone dell’intera agricoltura italiana, che ci piaccia o meno. E’ una delle persone più potenti al mondo. La disposizione liquida monetaria di cui dispone si aggira intorno ai 500 miliardi di euro, pari al pil di Grecia, Portogallo, Slovenia, Croazia e Macedonia tutte insieme; nazioni, queste, la cui agricoltura è già nelle sue mani. Ma lui punta decisamente all’Italia (in Spagna gli è andata male e si è ritirato, è per questo che ha dirottato su di noi). E’ una persona garbata, molto gentile, simpatica, solare, dicono molto intelligente. E’ il volto autentico (in carne e ossa) di quello che in Italia i social networks amano definire con una locuzione ridicola e infantile: i poteri forti.

I poteri forti, oggi, hanno quest’immagine. E’ il Presidente della più importante azienda chimico-farmaceutica del pianeta, la ChemChi, che sta per China National Chemical Corporation la cui sede centrale si trova nel centro finanziario di Pechino. E’ anche l’amministratore delegato e il supervisore del direttore finanziario. E’ membro permanente del comitato centrale del Partito Comunista Cinese, dato che lo stato possiede il 96% delle azioni di questo colosso.  

Il 3 febbriao 2016 ha firmato un contratto di acquisizione considerato il più alto mai registrato in Cina in tutta la sua storia: 43 miliardi di dollari pagati in contanti sull’unghia. Ha comprato la Syngenta, la più importante azienda europea produttrice di sementi e pesticidi. La società è svizzera e ha la sede legale a Ginevra. L’acquisto era iniziato in sordina,Chinese style, circa un anno e mezzo fa, attraverso la mediazione di due piccole società finanziarie legate alla Pirelli di Milano, avvalendosi della normativa che rientra all’interno degli accordi bilaterali italo-svizzeri, concessi dalla Ue a Italia, Francia, Austria e Germania, suoi paesi confinanti. Il fatto è che, nel frattempo, il signor Ren Jianxin, era arrivato otto mesi fa a Milano e si era comprato il 100% delle azioni della Pirelli che, dal 1 Gennaio 2016 è diventata parte del gruppo della ChinaChem.

La finanza americana ha accusato il colpo, capendo che per la Monsanto la festa è finita perché non è in grado di competere e contrastare lo strapotere del signor Ren, il quale -nel frattempo- si è praticamente comprato Poste Italiane e altre 345 aziende italiane. Così almeno gli americani danno l’annuncio, spiegando le ragioni per le quali il colosso statunitense abbandonerà in questo 2016 il territorio italiano.

Tradotto vuol dire che dal 2017 gli agricoltori italiani -senza che venga detto loro niente, senza che vengano fornite informazioni geo-politiche globali, e quindi a loro insaputa- saranno costretti a produrre ciò che il governo cinese stabilisce corrisponda ai loro interessi. Detto in sintesi, nella maniera più elementare possibile, significa che i pomodori e le zucchine italiane se le mangeranno i cinesi e per la stragrande maggioranza delle aziende agricole italiane ci sarà una riconversione (peraltro già annunciata) e dovranno produrre -pena il fallimento- soia, girasoli e derivati perchè questa è la politica agricola europea della Cina che si piazza nel cuore dell’Europa.

Le televisioni annunceranno il crollo delle borse europee (soprattutto quelle italiane) sostenendo che è in corso un attacco speculativo contro di noi. Non è vero niente.  E’ questo contratto che sta facendo andare a picco il mercato europeo. Quantomeno questo è ciò che sostengono diversi analisti finanziari europei, e io sono d’accordo con loro.

Erano già diverse settimane che sul Wall Street Journal, Financial Times, canale televisivo di Bloomberg, gli analisti anglo-americani raccontavano la pessima scelta strategica dell’Italia che -per salvarsi- sta vendendo tutta se stessa al Qatar, agli Emirati Arabi Uniti e all’Arabia Saudita, ma soprattutto alla Cina.

Ma in questo paese la stampa non informa la popolazione su ciò che accade, avendo scelto di trasformare tutto in gossip irrilevante (vedi scontro Ue-Renzi su futili motivazioni retoriche).

Lo scontro -e questo sì davvero micidiale, una vera guerra all’ultimo sangue- si sta svolgendo, invece, nell’indifferenza generale, ad Amsterdam. In Italia nessuno ne ha parlato. Con un’unica eccezione che -quantomeno al sottoscritto- conferma il fatto, ancora una volta, che Adriana Cerretelli è senza alcun dubbio, attualmente, il miglior professionista mediatico che il nostro paese abbia prodotto negli ultimi dieci anni. Suo l’articolo apparso su Il Sole 24 Ore (immediatamente nascosto e non a caso non diffuso e non condiviso) nel quale ci raccontava che cosa sta accadendo e su che cosa si stanno letteralmente scannando in Olanda, purtroppo con pessime notizie per l’Italia perché la Cina si è presentata con una enorme massa di liquidità a disposizione del decotto sistema bancario corrotto nazionale e -il buon senso ci consente di comprenderlo-quando si sta alla canna del gas, si accetta ogni aiutino, chiunque sia a darlo. Qui di seguito vi ho postato l’articolo della Cerretelli (l’italiana in assoluto più stimata in Europa dai colleghi eruopei degli altri paesi nel campo dell’informazione mainstream, in Italia pressoché sconosciuta) perché penso possa essere utile per comprendere uno degli attuali scenari reali (molto reali) sul palcoscenico economico-politico della vita vera. 


Anche se si tratta di un articolo tecnico, è comprensibile a chiunque. Bisogna leggere tra le righe dell’articolo. L’Italia, purtroppo, finirà per perdere questa decisiva battaglia di Amsterdam. Quella autentica che decide il destino delle nazioni, altro che annunci! Altro che unioni civili o quote latte. Se non ci svegliamo e non capiamo che cosa sta accadendo, di questo meraviglioso nostro Bel Paese non ne rimarrà più nulla. Quantomeno, per noi italiani che lo abbiamo costruito, inventato e abbellito nelle ultime centinaia di anni.
 
Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://www.libero-pensiero.net


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La lunga marcia che la Cina non ha fatto «Una relazione sana ed equilibrata» è il mantra ricorrente a Bruxelles quando si tenta di capire quale sarà il prossimo passo nel futuro dei rapporti tra Europa a Cina. Frase che dice tutto e niente, abbastanza generica da cavare di impaccio chiunque non si voglia sbilanciare più di tanto per non soffiare sulle divisioni intra-europee né turbare il dialogo con Pechino, già in sé alquanto sussultorio, gravido di tanti rischi come di potenzialità reciproche.
Di carne al fuoco al momento ce ne è molta, fin troppa: i negoziati per un accordo Ue-Cina sugli investimenti che rimpiazzi le attuali 27 intese bilaterali, un accordo di libero scambio, sul modello di quelli stipulati con Corea del Sud, Canada e Giappone, cui Pechino punta con determinazione incontrando per ora un muro di gomma europeo. E, naturalmente, a distanza più ravvicinata, la decisione da prendere entro dicembre sulla concessione o meno dello status di economia di mercato al colosso asiatico. Status per il quale la Cina non ha certo le credenziali in regola.
Di quest’ultima questione discuteranno oggi ad Amsterdam, in una riunione informale, i 28 ministri Ue del Commercio. Non sono attese decisioni immediate. La Commissione presenterà infatti la sua proposta formale solo in estate alla luce dell’esito dello studio circa l’impatto globale che un eventuale disarmo unilaterale europeo sugli strumenti di difesa commerciale, dazi anti-dumping per intendersi, avrebbe sulla competitività della sua industria e sulla tenuta dei già disastrati livelli di occupazione europei.
«Il free trade non sempre coincide con il fair trade. Noi siamo favorevoli al libero commercio purchè le regole siano chiare e le rispettino tutti», sottolinea uno dei negoziatori Ue. «Invece la Cina si concentra sui diritti ma dimentica gli obblighi che pure le derivano dal Trattato di adesione al Wto nel 2001».
In quindici anni l’interdipendenza è cresciuta a dismisura in fatto di mutuo commercio e investimenti: l’interscambio viaggia su un miliardo di euro al giorno, l’Europa è il primo partner della Cina, viceversa la Cina è il secondo dopo gli Stati Uniti.
Tre milioni di posti di lavoro nell’Unione vivono di export verso il mercato cinese ma sono il doppio quelli che in Cina dipendono dal flusso di vendite nell’Ue, che non a caso accusa un disavanzo commerciale bilaterale.
Per entrambi, dunque, la posta in gioco è enorme: ambedue avrebbero molto da perdere da tensioni incontrollate o, peggio, rotture. Resta che un dialogo costruttivo non può che passare da un rapporto tra eguali. Che oggi non c’è.
Quando Pechino pretende di avere tutti i numeri per essere considerata una “normale” economia di mercato, dimentica che la sua mirabolante ascesa sulla scena globale è avvenuta a colpi di trucchi. Che persistono, nonostante le costanti pressioni Ue negli anni perché vi rinunciasse sul serio.
Interventismo massiccio dello Stato nell’economia come nel commercio, sovvenzioni pubbliche generosissime e regolarmente non notificate al Wto, molteplici barriere tecniche agli scambi, scarsa trasparenza, misure discriminatorie nei confronti degli stranieri che operano nel paese, restrizioni all’export di materie prime, scarsissima tutela della proprietà intellettuale sullo sfondo di un mastodontico accumulo di sovraccapacità produttiva, un’autentica minaccia letale per l’industria europea.
Un dato per tutti: nella sola siderurgia il surplus si eleva a 400 milioni di tonnellate, cioè a più del doppio dei 170 milioni di tonnellate che l’Europa produce ogni anno.
È evidente che questa è la fotografia di un’economia di Stato a pianificazione centralizzata, non di un’economia di mercato. Rinunciare con questo quadro all’attuale sistema di dazi anti-dumping, che in media impone sui prodotti cinesi venduti sottocosto un ricarico del 30%, equivarrebbe a dare il colpo di grazia ai concorrenti europei già in forte difficoltà.
Persino Cecilia Malstrom, il commissario svedese al Commercio noto per le sue convinzioni liberiste, sembra ora più cauta quando mette in cima alle sfide che la Cina deve affrontare «l’accelerazione delle riforme interne, il cui vero test sarà la correzione della sovracapacità produttiva nonché l’apertura del mercato interno».
Sarebbe ottimo se ciò bastasse a dare per scontata la vittoria finale del fronte europeo guidato dall’Italia che da sempre si batte per frenare nuove aperture alla Cina, premature come peraltro ritengono gli Stati Uniti. Ma è troppo presto perché, nonostante le pressioni dell’europarlamento e l’allarme di parte dell’industria tedesca, il pendolo di Angela Merkel sembra oscillare anche in questo caso, e non solo con i rifugiati, verso la politica della porta aperta. Non è escluso che alla fine il braccio di ferro si possa concludere con un verdetto salomonico: riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato, come da accordi Wto, senza il contestuale disarmo commerciale europeo per un congruo periodo transitorio. La solita, vecchia linea del male minore.

Adriana Cerretelli
Fonte: www.ilsole24ore.com
Link: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-02-02/la-lunga-marcia-che-cina-non-ha-fatto-080327.shtml?uuid=AChdNtLC
2.02.2016

sabato 20 febbraio 2016

La Libia non può attendere... Il suo petrolio fa gola a tanti!



La Francia di Hollande e l'Inghilterra di Cameron vogliono dunque
assicurarsi una buona fetta del petrolio libico, ai danni
dell'industria petrolifera italiana. Ma, per far questo, debbono avere
non soltanto il consenso del governo libico, ma il pieno controllo del
territorio, una parte del quale è ormai occupata dall'Isis intorno
alla roccaforte di Sirte.

Nella prima metà di gennaio l'obbiettivo che la Francia imperialista
di Hollande si era data (dopo aver ottenuto l'applicazione dell'art.
42.7 del Trattato dell'Unione Europea sulla cosiddetta "solidarietà"
in caso di aggressione) era molto chiaro: bombardare subito. E tutto
era pronto: aerei da ricognizione, aerei da bombardamento, aerei da
rifornimento in volo, elicotteri, droni, forze speciali in territorio
libico per guidare i missili e le bombe a guida laser sugli obbiettivi
prescelti. Il governo imperialista di Cameron, che ha anch'esso deciso
di partecipare ai bombardamenti, aveva già offerto alla Francia la
base della Raf di Akrotiri a Cipro.

Ma il governo imperialista italiano è intervenuto ai massimi livelli
per sventare l'azione immediata, col pretesto che il «governo di unità
nazionale» libico patrocinato dal mediatore ONU Kobler, non era ancora
pronto; tuttavia, Renzi e i suoi ministri degli Esteri e della Difesa
hanno affermato che anche l'Italia era pronta all'azione militare
contro l'Isis, se fosse stata richiesta dal governo fantoccio libico.

Dopo il colpo ricevuto nel 2011, l'imperialismo italiano non può
rinunciare al petrolio della Libia e ai profitti dell'ENI e, per
ragioni geo-strategiche di influenza nel Mediterraneo, non può
permettere che l'azione contro l'Isis sia compiuta a guida
anglo-francese. Perciò spinge per un intervento più ampio, con la NATO
e la UE.

Ma l'area del conflitto non sarebbe certo limitata all'altra riva del
Mediterraneo.
I bombardamenti dovrebbero avere per obbiettivo anche i territori
occupati dallo Stato islamico in Siria: Raqqa in primo luogo (che
avrebbe  anche un significato simbolico, perché lì sono stati
progettati gli attentati di Parigi e di Beirut e quello contro l'aereo
russo nel Sinai) e poi di nuovo l’Iraq, che dovrebbe essere la
battaglia decisiva per le forze di terra, comprese quelle USA.

Non a caso l’armata brancaleone di Renzi, Pinotti e Gentiloni ha preso
la sciagurata decisione di inviare i soldati a Mosul, una volta che
avrà messo le mani sulle commesse milionarie della diga. Guerra e
affari, si sa, vanno a braccetto.
La nuova aggressione imperialista in Libia  si farà? Le premesse ci
sono tutte. La formazione del nuovo governo libico diretto da Fayez Al
Sarraj è stata accolta dai vari governi imperialisti (compreso quello
di Renzi) come il segnale da tempo atteso.

Ma la situazione si è momentaneamente complicata perché il Parlamento
di Tobruk ha negato la fiducia al nuovo governo di “riconciliazione”.

Intanto il fanatismo jihadista ha lanciato nuove gravissime minacce,
annunciando di voler colpire Roma e Napoli. Ecco l’altra faccia degli
interventi imperialisti.
La guerra avanza, ma a differenza degli anni del Vietnam non esiste
più nel nostro paese un ampio movimento di lotta alla guerra
imperialista.

Questo movimento è da ricostruire al più presto attraverso l’unità
delle forze coerentemente antimperialiste e antifasciste, per il
ritiro di tutte le truppe inviate all’estero, per dire basta alle
spese militari, per l’uscita dalla NATO e dall’UE guerrafondaie e
antipopolari, la cacciata delle basi USA.

Le manifestazioni dello scorso 16 gennaio, sia pure con i loro limiti,
hanno infranto il clima di passività e creato una premessa che va
sviluppata senza indugi per dare vita una forte opposizione popolare
alla guerra imperialista.

Teoria e Prassi


Organo di Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del
Proletariato d’Italia - http://piattaformacomunista.com/

venerdì 19 febbraio 2016

Siria. La strategia di Washington ed i pensieri egemonici sionisti



La strategia di Washington consiste nel comandare una guerra regionale
più ampia istigando la Turchia, l'Arabia Saudita così come Israele a
"fare loro il lavoro sporco per noi".

Le forze del governo siriano insieme ai suoi alleati (Russia, Iran,
Hezbollah) si sono scontrate, fino a poco fa, con i cosiddetti
"ribelli dell'opposizione", composti in gran parte di terroristi
"moderati" e mercenari, coadiuvati da forze militari e di intelligence
degli USA e della NATO che combattevano tra i loro ranghi sotto
copertura.

I terroristi affiliati ad Al Qaeda e all'ISIS sono supportati da USA e
NATO insieme a Israele e ai loro alleati del Golfo Persico. La Turchia
e l'Arabia Saudita, in stretto collegamento con Washington, hanno
giocato un ruolo decisivo nel reclutamento, nell'addestramento e nel
finanziamento dei terroristi.

Fino ad ora, questa guerra per procura si è svolta senza un diretto
confronto tra le forze alleate di USA e NATO e l'esercito siriano, che
è militarmente supportato da Russia ed Iran.

Una transizione importante si sta ora verificando nella guerra in
Siria. La guerra per procura (sotto lo slogan formale della "guerra al
terrorismo") ha raggiunto il suo apice.

Una nuova fase: il ruolo della Turchia e dell'Arabia Saudita

Le forze turche sono ora direttamente coinvolte nelle operazioni di
guerra all'interno del territorio siriano.

A sua volta, l'Arabia saudita, che è uno stato sostenitore dei
terroristi, ha annunciato che schiererà le proprie truppe in Siria,
formalmente per combattere i terroristi dell'ISIS, che guarda caso
sono sostenuti proprio dagli stessi sauditi.

Il generale di brigata dell'Arabia Ahmed Al-Assiri ha dichiarato a
nome di Riyadh che le forze saudite: "combatteranno con la coalizione
guidata dagli USA per sconfiggere i militanti dell'ISIS in Siria;
comunque - ha aggiunto - Washington è più indicato a rispondere a
domande su ulteriori dettagli in merito a future operazioni di terra"
Al Arabyia.

Qual è il significato di questa dichiarazione? La guerra per procura
contro l'ISIS è finita?

Una nuova guerra per procura con la Turchia e l'Arabia Saudita
direttamente coinvolte nelle operazioni di terra sta per essere
realizzata, con USA e NATO che tirano i fili dietro le quinte. Riyadh
ha confermato che è stata anche istituita una struttura di
coordinamento per operazioni congiunte turche e saudite.

L'Arabia Saudita sta ora pianificando di invadere la Siria come da
ordine di Washington: "Il Regno è pronto a partecipare in qualsiasi
operazione di terra che la coalizione (contro lo Stato Islamico)
voglia intraprendere in Siria,"…

Asseri ha detto che l'Arabia Saudita è stata un membro attivo della
coalizione guidata dagli Stati Uniti che ha combattuto lo Stato
Islamico in Siria sin dal 2014, ed ha espletato oltre 190 missioni
aeree.

… "Se ci sarà il consenso della leadership della coalizione, il Regno
parteciperà a queste operazioni, perché crediamo che le operazioni
aeree non sono la soluzione ideale e deve esserci un mix tra
operazioni di terra e di aria" ha detto Asseri (Reuters, 4 febbraio
2016).

Il cambiamento potrebbe essere dalle operazioni aeree a quelle
terrestri, con lo schieramento di truppe saudite all'interno della
Siria.

"Parlare di Pace" pianificando la fase successiva della guerra in Siria

Secondo gli ultimi sviluppi, il vice principe ereditario e ministro
della difesa Mohammed bin Salman era a Bruxelles al quartier generale
della NATO "per discutere sulla guerra civile in Siria". Questo
incontro è stata un'iniziativa del Pentagono piuttosto che della NATO.
L'intenzione era quella di pianificare la prossima fase della guerra
in Siria.

Significativo è il fatto che il principe bin Salman si è incontrato a
porte chiuse con il segretario USA alla difesa Ashton Carter.

Contemporaneamente, a Monaco, John Kerry e Sergei Lavrov stavano
discutendo come promuovere una "cessazione delle ostilità" in Siria
che possa estendersi a tutta la nazione.

Nel diabolico scenario del Pentagono, il confronto sul terreno del
teatro di guerra sarà tra Arabia saudita e le forze governative
siriane, rispettivamente supportati da USA e NATO i primi, da Russia e
Iran i secondi

I corrispondenti dal fronte confermano che i terroristi di USA e NATO
supportati dall'Arabia Saudita, dal Qatar e altri, sono stati per la
maggior parte sconfitti. Saranno sostituiti nel loro ruolo dalle forze
convenzionali saudite e turche, unite con altre di USA e NATO che sono
già all'interno del territorio siriano?

All'interno di questo scenario in evoluzione, c'è anche il pericolo
che le forze della Turchia e dell'Arabia Saudita che agiscono per
conto di USA e NATO possano essere coinvolte in confronti militari
diretti con forze sia russe che iraniane, scoperchiando un pericoloso
vaso di Pandora, una porta d'accesso all'escalation militare.

Il generale saudita Ahmed Al-Assiri ha anche prospettato all'Iran una
velata minaccia, dicendo che "se Teheran sta combattendo l'Isis sul
serio, dovrebbe anche smetterla di supportare il 'terrorismo' in Siria
e Yemen" (Al Arabyia).

La strategia di Washington a tale proposito consiste nel comandare una
guerra regionale più ampia istigando la Turchia, l'Arabia Saudita così
come Israele a "fare loro il lavoro sporco per noi".

Questa guerra supportata dagli USA è da ultimo diretta in realtà
contro la Russia e l'Iran.

Il progetto egemonico americano dopo l'11 settembre è la
"globalizzazione della guerra" dove la macchina militare di USA e NATO
- in unione con le operazioni coperte e sotto falsa bandiera, le
sanzioni economiche e le spinte per i "cambi di regime" - è schierata
in tutte le maggiori regioni del globo. La minaccia della guerra
nucleare preventiva è altrettanto utilizzata per spingere alla
sottomissione i paesi considerati "canaglia".

Questa "guerra di lunga durata contro l'umanità" viene portata avanti
nel pieno della crisi economica più grave della storia moderna. Essa è
intimamente legata a un processo di ristrutturazione finanziaria
globale, che ha portato al crollo delle economie nazionali e
all'impoverimento di vasti settori della popolazione mondiale.

L'obiettivo finale è la conquista del mondo indossando il mantello dei
"diritti umani" e della "democrazia occidentale".


Michael Chossudovsky | globalresearch.ca


Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare

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Pensieri egemonici sionisti collegati: 

“With the help of God, the gentiles there (in Europe) will adopt a
healthier life with a lot of modesty and integrity, and not like the
hypocritical Christianity which appears pure but is fundamentally
corrupt.

“Jews should rejoice at the fact that Christian Europe is losing its
identity as a punishment for what it did to us for the hundreds of
years were in exile there.

“We will never forgive Europe’s Christians for slaughtering millions
of our children, women and elderly. Not just in the recent Holocaust,
but throughout the generations, in a consistent manner which
characterizes all factions of hypocritical Christianity.

“And now, Europe is losing its identity in favor of another people and
another religion, and there will be no remnants and survivors from the
impurity of Christianity, which shed a lot of blood it won’t be able
to atone for.

“Even if we are in a major war with the region’s Arabs over the Land
of Israel, Islam is still much better as a gentile culture than
Christianity. Jews must pray that the Islamization of most of Europe
will not harm the people of Israel.” 

MP


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Integrazione di Sputnik: “La battaglia nella provincia siriana di Aleppo rischia di diventare un conflitto militare più ampio, scrive il "Washington Post". La direttrice dell'ufficio del giornale americano in Libano Liz Sly riporta un elenco delle parti nel conflitto siriano: l'Aviazione russa che compie raid aerei, le milizie libanesi e irachene sciite sotto la direzione sul campo dei consiglieri militari dell'Iran, diversi gruppi ribelli siriani sostenuti da Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, i curdi filo-Mosca e filo-Washington, così come i terroristi del Daesh (ISIS). La giornalista dubita che le condizioni degli accordi di Monaco sul cessate il fuoco in Siria vengano implementate, ma al contrario la guerra civile si allargherà fino ad un conflitto su larga scala, in cui si affrontano le potenze mondiali. Una posizione simile è condivisa da Salman Shaikh, consulente politico del "Shaikh Group" (l'organizzazione ha partecipato al processo di negoziazione nel corso della crisi siriana).”