La
parabola storica del maggior partito della sinistra italiana (e a suo
tempo maggior partito comunista d’Europa) ha avuto culmine e
contemporaneo avvio del declino negli anni del ’68/’77.
Da
un lato le leggi per i lavoratori, i diritti politici divenuti
consapevolezza proletaria, furono vette poi non più eguagliate.
Dall’altro
i successi, o apparenti tali, tra cui, uno per tutti, il
6 politico.
Comprensibile nelle intenzioni politiche originarie, si è poi
dimostrato disastrosamente infettivo a lunga gittata. Segnò l’avvio
del lassismo generalizzato.
Il
Compromesso storico, passo del Pci Enrico Berlinguer verso la
Democrazia Cristiana di Aldo Moro per quanto compiuto per gestire,
con senso di responsabilità istituzionale e statale, l’emergenza
sovversione armata, fece necessariamente la sua parte nella vicenda
della parabola discendente verso l’evanescenza della maggioranza
della sinistra italiana.
Da
allora il Pci e i suoi succedanei – Pds, Ds e Pd – sono
progressivamente venuti meno alla missione originaria di solidarietà
e cura del mondo dei lavoratori, della società minore, dei diritti
istituzionali, dell’anticapitalismo.
Dalla
bandiera rossa con falce e martello a tutto campo del Partito
Comunista Italiano, mutarono in Partito Democratico della Sinistra.
Era il 1991. Come simbolo scelsero una quercia, pensando alla
solidità duratura. Forse qualcuno di loro aveva avuto sentore che le
fazioni avrebbero potuto demolire l’incorruttibile e monolitico
grande partito moralmente ineccepibile. Falce e martello c’erano
ancora ma defilati alla base del tronco. Una specie di garanzia di se
stessi: «tranquilli, noi veniamo da lì».
Sette
anni dopo, nel 1998, nuovo aggiornamento. Il nome diviene Democratici
di Sinistra. Grossomodo funzionale per abbracciare più o meno
chiunque a destra vedesse solo mostri e diavoli; per contenere lo
scemare degli iscritti. La bandiera rimase piena di quercia ma si
svuotò di falce e martello.
Infine,
dal 2007, il Partito Democratico abbandonò anche la quercia per
affidarsi a un logo tricolore e un ramoscello d’ulivo. «Siamo i
giusti» voleva dire? Se sì, non nelle urne. Ma c’era anche una
rosa, non a caso già nell’immagine dei radicali.
In
un arco temporale di 15 anni la metamorfosi si era compiuta. Da
paladini della bellezza povera a naufraghi abbracciati a ciambelle
liberiste.
Del
resto il proletariato era sparito, almeno come corpo sociale. Il
capitalismo non era più neppure un problema di cui occuparsi se non
facendo l’occhiolino. L’ambiente tornava invece utile ma senza
affrontare il conflitto con un progresso concepito come crescita
infinita e consumismo da pompare.
La
via del progresso, dicevano, avrebbe avuto una nuova anima a partire
dall’Europa Unita e dall'Euro.
Ne
fu artefice Prodi. Era il 1998. Precisava che un euro valeva 1936,27
lire. Ma la suggestione è più potente della ratione
e quello che compravamo con mille lire costò in breve un euro. Il
doppio.
Da
pochi anni il Muro di Berlino aveva mandato definitivamente all’aria
il progetto egualitarista. (Lo aveva detto Stirner che gli uomini
alla prima opportunità giusta preferiscono i propri interessi a
quelli dell’ideologia che hanno sottoscritto. Nessuno ha mai troppo
peso ai suoi avvisi). Progetto nel quale da sempre la sinistra di
maggioranza aveva trovato ispirazione e supporto ideologico. Nel
tempo però aveva lasciato gli ormeggi per solcare mari più
occidentali. Nel tempo aveva trovato opportuno mostrarsi via via più
lasciva nei confronti della presa del potere economico sui partiti e
sulle istituzioni.
Infatti.
Seguirono leggi sempre più liberiste come necessariamente implicava
il progetto della moneta unica prima e dell’Unione Europea poi.
Come sennò tentare di stare al passo, tenere alto il vessillo tanto
vantato dell’ottava economia mondiale? Come fronteggiare l’economia
della Germania, e non solo, in casa e americana fuori casa? Come
avrebbero potuto non dico abdicare al concetto di crescita e
benessere imperniato sul Pil come neppure uno psicotico fa con la sua
ossessione, ma almeno tenere a freno?
Vabbé.
Comunque si davano da fare pur senza più il faro ideologico. Poche
idee ma ci provavano. Abbracciarono così il patrimonio e il vessillo
che fu idea del Partito Radicale. Dai valori sociali passarono, senza
che nessuno se ne accorgesse troppo (forse qualche sindacato, sì), a
quelli individuali. Un investimento che non ha più cessato di
assorbire la loro attenzione, forse distratta solo dalla guerra in
Kosovo, per la quale calammo l’asso che avevano nelle braghe. E giù
anche quelle: aerei e aeroporti donati a piene mani ai sempre più
penetranti tentacoli Nato. Dei morti in Serbia non si preoccuparono
troppo.
Gli
scandali e le corruzioni rosse sorprese i meno avveduti. Furono
picconate ai resti di una facciata che occultava mucchi di macerie
che non riuscivano più a nascondere.
La
riforma Fornero fu terremotante per molti italiani ma per il Pd
rimase un passo avanti verso il progresso.
Di
lì a breve arrivò il Nazareno che togliendo di mezzo l’articolo
18 imboniva i lavoratori sostenendo che la mobilità era la ricetta
giusta soprattutto per loro, oltre che per l’occupazione, quindi
per l’economia, quindi per tutti. Dovevano, i lavoratori, solo
cancellare l’idea del mensile a fine mese, della tredicesima e
assumere quella (a massimo rischio) imprenditoriale. Il mondo sarebbe
risorto. E loro lo avrebbero visto come turisti del lavoro.
Nel
frattempo non si erano accorti però di quanto le loro clarks e i
loro tweed li avevano portati lontani dalla cosiddetta base. In vetta
l’aria è migliore rispetto ai sottoscala della povertà.
Si
trovarono improvvisamente a dover fronteggiare tutto quel bacino
enorme che una volta era stato suo possesso e ricchezza elettorale,
ora passato di mano ad uno stupido comico che di stupido aveva solo
gli spettatori del Pd.
Al
buffone ci volle poco per attestarsi su un punto di terra dal quale
guardare i glu glu della nave del Pd in affondamento.
I
ceffoni delle elezioni sorpresero tutti, loro in particolare.
Dormivano da tempo e non avevano avuto modo di vedere che il tempo
era cambiato. Anche le vedette non si sa dove fossero e certamente ne
avevano. Bastava cercare in salotto.
Proprio
queste si sono aizzate per prime nel tentativo disperato di
guadagnare una scialuppa. Senza argomenti se non povere denigrazioni
che più di ogni altra cosa dichiaravano il loro stato di pessima
salute, hanno tentato in tutti i modi – soprattutto slogan – di
suggestionare il pubblico, che però aveva cambiato canale da un
pezzo. Come topi in cambusa, avevano capito che era ora di cambiare
aria.
I
populisti furono perfino e ripetutamente accusati di non aver fatto
cose che loro stessi avevano avuto in mano per anni; di non aver
curato aspetti tipici del loro Dna originario. Li hanno coperti di
critiche dopo mezzo minuto di governo. A quel punto il comico
non era a Genova ma a Roma, ma sarebbe stato meglio chiamarlo
tragico. Nel tempo di vacche magre si scava in fondo al barile e quel
poco che si raccoglie vale la sopravvivenza. Tirarono fuori a piene
voci l’ideologia antifascista. La cavalcarono in lungo e in largo,
fino a sembrare un vinile dimenticato sul piatto. Intanto La
Repubblica dava di mantice ormai apertamente, più di quanto negli
anni avesse fatto in modalità defilata.
Populisti
li chiamavano. Vero. Ma non c’era altro spazio che essere
populisti. Cosa peraltro non tutta malvagia come hanno tentato di far
passare. Cosa per altro frutto, non seme, di politiche, tempi e
consapevolezze nuove. Che il populismo fosse un fenomeno occidentale
e non solo italiano, non gli fece sospettare che forse c’erano
ragioni superiori ai loro poveri argomenti ideologici e denigratori
tout court...
Lorenzo Merlo
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