sabato 27 agosto 2016

Realpolitik (o politica povera?) - Papaveri e papere... e bolle di sapone


Risultati immagini per Real-politik - Papaveri e papere vedi

Prevenzione anti-terremoto no, Tav sì
Scrivo da un’Italia che, dopo aver esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a urlare in faccia ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo, alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre. Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono – vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”. Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre, Ponte sullo Stretto, Expo... per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici. 
Si ristabilirebbero l’organico e i bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio, tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del 2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo di firma. E l’ex-procuratore generale Giancarlo Caselli, uno che, a dispetto del suo narcisismo, non ha fatto proprio il massimo delle figure nel contrasto a mafia e brigatisti (vedi “La trattativa” di Sabina Guzzanti), e i suoi due para-dioscuri Padalino e Rinaudo alla procura di Torino, persistono implacabili nella persecuzione di quelli che il senatore piddino e fucilatore politico di sindaci eterodossi come Marino e Raggi, gli indica come terroristi della Valsusa. Basterà un terremoto a darci la sveglia?

Il baro di Ankara
Al grande poker mediorientale chi vince questa mano è Erdogan, biscazziere e baro principe (ma il casinò è in mano a USraele), mentre il pollo, meritatamente e con soddisfazione di chiunque abbia in odio i rinnegati, i venduti e i traditori, sono i curdi. Naturalmente idolatrati e difesi oltre ogni limite della decenza e della verosimiglianza, dall’italiota quotidiano salafita (nella specificità curda, ma solo in questa, adornato di scintillanti piume laiche. Per il resto Fratellanza Musulmana fino alla morte). L’invasione turca della Siria, per prendersi la città arabo-siriana di Jarablus (per nulla curda, come tante altre occupate dall’YPG e dal geografo del “manifesto” diplomato a Tel Aviv assegnate ai curdi, in parallelo con la stessa revisione operata sui territori arabi dell’Iraq), dopo quella di Manbij e dopo l’attacco curdo-americano ad Hasakah, respinto dai lealisti, insegna ai rinnegati di Rojava che vendersi al primo venuto, nel caso gli Usa, di solito conduce all’essere rivenduti. Cosa immediatamente dimostrata dalla dichiarazione del vice-Obama, Joe Biden, con sospetta puntualità sul posto, a sostegno del partner di poker dalla lucidissima follia e dal formidabile ricatto (vedi migranti, UE, Merkel, Putin). Dopo aver condotto al guinzaglio i curdi dell’YPG, che il patetico “manifesto” insiste a definire “Forze Democratiche Siriane”, vedendoci, oltre ai curdi, inesistenti arabi, circassi, assiri e turcomanni, a espandersi su territorio arabo sotto sovranità della libera, democratica e laica Siria, ora Biden gli intima di arrendersi ai propri boia turchi, anzi di arretrare al di là della riva orientale dell’Eufrate, dove storicamente gli spetta di stare.

La vera estensione della presenza curda.
Dunque i curdi, dalla figura da cioccolatai per la dabbenaggine e di merda per l’infamia, prestatisi a fare da ascari a Nato, Usa, Israele, Golfo, internazionalmente più accettabili dei jihadisti logorati dal tempo, dalle sconfitte, dalle eccessive barbarie e dalle nequizie loro attribuite in Europa, hanno assolto al proprio compito e se ne ritornino a cuccia. Restano sul bagnasciuga dei detriti spiaggiati tutti coloro che si erano arrapati a vedere frantumare la Siria renitente a colonialismo, imperialismo, non più dagli impresentabili scuoiatori e crocefiggitori Isis (richiamati nella riserva) o Al Qaida-Al Nusra (rigenerati da Assopace, Cia e Hillary in milizia moderata), bensì dalla meraviglia di un nuovo popolo eletto, democratico, laico, partecipativo, femminista. Non per nulla portato in spalla dall’altro popolo eletto e dalla sua lobby, che non nega armi, fondi, ospedali, propaganda a chiunque si presti a fare a pezzi stati arabi felicemente multietnici e multiconfessionali.
Grande è la confusione sotto il cielo con i curdi, mercenari degli Usa e longa manus di Israele, che picchiavano l’Isis, mercenari Usa-Nato-Israele-Golfo, e ora vengono picchiati dai turchi con il beneplacito dei loro padrini e compari americani e israeliani, mentre i russi, amici di Damasco, che, avendo flirtato con i curdi in funzione anti-Nato, se li sono visti sottrarre dalla Nato in funzione anti-Damasco e ora però sono costretti a biasimare i turchi che li picchiano, ma con i quali turchi s’erano illusi di poter consumare merende. Collateralmente, anzi in subordine, al rientro del “maverick” (mattocchio imprevedibile) turco nell’ordine geopolitico che, in un modo o nell’atro, con i partner e subordinati che capitano, corrisponde alla visione dell’élite mondialista, plaudono i diretti interessati europei, a partire da Hollande fino allo zannuto ministro della Difesa tedesco.

Carta perde, carta vince
A prima vista Erdogan parrebbe aver calato il poker: ha rimesso in riga gli odiati curdi, si è rifatto una verginità davanti all’opinione pubblica occidentale, dopo il mezzo autogolpe e la successiva epurazione da rendere la Gestapo un corpo di boy scout, fingendo di dare addosso al califfo che aveva fin lì avuto come socio d’affari e di genocidio in Iraq e Siria. Difatti l’Isis, ricevuto l’ordine di servizio, ha abbandonato Manbij e Jarablus senza lasciarsi dietro neanche una mina (mentre ad Hasakah l’eroico YPG delle splendide ragazze e dagli invincibili giovanotti, infiltratosi in città compiendo assassinii, saccheggi e sequestri, ne è stato cacciato da forze armate serie, quelle di Bashar el Assad.). A questa rigenerazione d’immagine ha poi aggiunto la costituzione della famosa “zona cuscinetto” di 30 km per 7 all’interno del territorio siriano, quella che andava invocando da due anni, che Hillary non perdeva l’occasione per definire indispensabile e urgente, ma che Obama frenava perché apprensivo su un’eventuale seguito di impegno Usa a terra.
Freno saltato nel momento in cui forze di terra e aria americane, richiamate dai curdi, ansiosi di farsi sudditi e mercenari dell’Impero al pari dei fratelli del Kurdistan iracheno, sono penetrate in Siria attraverso l’ospitale Rojava e vi hanno costituito una base (che domani, in caso di liti in famiglia, potrebbe anche rimpiazzare quella turca di Incirlik).

Il fascino del modello Erdogan
Il biscazziere di Ankara, grande bluffatore, ma anche grande ricattatore ha vinto questa mano: sta dentro la Siria e questo significa che in Siria ci sta ufficialmente la Nato. Ha preso in giro la Russia ventilando qualcosa che, per i nostri grandi e sprovveduti analisti, pareva addirittura un cambio di campo. Ha sottratto la milizia curda agli Usa, che da quella avevano ricevuto grande beneficio propagandistico (vedi “il manifesto” e la lobby), dopo essersi macchiati col parto, l’allevamento e la manutenzione del terrorismo jihadista. Ha anche rabbonito gli iraniani che, nell’incontro dei rispettivi ministri della Difesa, hanno convenuto con i turchi che, sì, i curdi sono per entrambi una gran rottura di coglioni. E chissà se questo non si riverbererà sull’appoggio di Tehran a Hezbollah e Damasco. E poi ha turlupinato il mondo intero facendo credere che andava menando quell’Isis che, commissionatogli da USraele, nelle persone di Hillary, Obama e Netaniahu, è stato il rompighiaccio del suo ottomanesimo d’assalto contro Siria e Iraq e suo partner nel colossale business del petrolio rubato, trasportato, venduto a Israele e altri. Ora che, con la scusa di colpirlo (avendogli attribuito gli autoattentati compiuti contro i propri cittadini) s’è tolto dai piedi i curdi, complici nella distruzione della Siria, ma concorrenti su chi se ne deve avvantaggiare, e ha ricondotto gli Usa alla coerenza Nato, la mano parrebbe davvero sua.
Erdogan mette sul tappeto verde, col cinismo del serial killer, la posizione geostrategica del suo paese e del suo esercito, il secondo Nato dopo quello degli Usa, la più preziosa per mosse in qualsiasi direzione da questa specie di “heartland”: Mediterraneo, Medioriente, Africa, Iran e Asia, Russia. Un autentico pivot. Ma che senza il perno sul quale girare, gira vuoto. E il perno sono gli Usa, fornitori dell’intero armamentario delle forze armate turche (che nessuno riuscirebbe a sostituire in meno di vent’anni); Israele, che ne può stabilizzare o destabilizzare l’assetto agendo sulle minoranze curde, come fa da sempre in Iraq; e la NATO insieme all’UE, che lo vedono inserito-incastrato in un sistema reticolare di alleanze e interdipendenze che, se Erdogan prova a usarle tipo agitando i milioni di turchi contro Merkel, può davvero isolarlo da quella “comunità internazionale” nella quale, per intima sintonia criminale, non può non restare collocato. Venendo ai russi, è proverbiale la loro prudenza. E la prudenza è spesso saggezza. Ma non sempre. Con questa fissa di tenersi buoni tutti quanti, trascurano che il diavolo e l’acqua santa alla resa dei conti sono inconciliabili.

Poker contro scala reale
Se dunque il tiranno di Ankara ha calato il poker, che stia in guardia: c’è di fronte un giocatore che potrebbe avere in mano i colori. E non credo che all’altro lato del tavolo vi sia un russo disposto ancora a rilanciare. Per quanto forse gli converrebbe. Ora. C’è ancora una finestra temporale nella quale il grande pezzo degli Usa che guarda a Trump (non a quello bislacco e islamofobico, a quello anti-guerra, distante dalla Nato e che vuole il dialogo con Mosca) non pare disponibile all’armageddon probabilmente nucleare. Quello che arriverà con il pendaglio da manicomio criminale, Hillary. Perché allora non ce ne sarà più per nessuno. Quanto a noi, che da qui guardiamo col fiato sospeso e il cuore in gola a cosa riserverà il domani alla Siria e, con lei, al mondo, troviamo conforto nello sguardo sull’Iraq dove l’avanzata delle forze nazionali irachene verso le ultime roccaforti dell’Isis alimenta la speranza che il progetto anglosionista della spaccatura del grande paese in frammenti coloniali possa stavolta non riuscire. A dispetto degli ineffettuali mercenari Peshmerga e del loro narcomafioso presidente Barzani.

Curdi buoni, egiziani cattivi, Regeni martire
Mettendo sottosopra la realtà per ridurla nei termini in cui ce la intendono proporre da Washington (Langley), Londra, Tel Aviv, Bruxelles, il quotidiano salafita, da autentico virtuoso, si spacca in due opposti e ci offre un doppio paginone-ossimoro (il manifesto, 29/8/16). Da un lato lo scontro tra manigoldi attorno a Rojava, curdi, turchi, Isis, Usa, con il corredo delle forze speciali (squadroni della morte) Nato, ci viene presentato come il martirio degli unici buoni, i curdi, che solo loro combattevano e vincevano i jihadisti (i siriani lo fanno da quasi 6 anni, ma non conta, non sono i buoni) e, hai visto mai, alla lunga ce l’avrebbero fatta anche contro il “dittatore di Damasco”. Bombardando i civili siriani a Hasakah avevano bene iniziato.
Sulla pagine di fronte riesumano, ormai ultimi giapponesi nella giungla, affiancati dal solito virulento capo-Amnesty d’Italia (indifferente all’epico fiasco del recente rapporto sugli scomparsi nelle carceri siriane, diligentemente ripreso dall’agenziucola umanista “Pressenza”), un Giulio Regeni ormai prudentemente lasciato ai trafiletti dal resto della stampa. Un estremo, quasi disperato sforzo pro Fratelli Musulmani e loro braccio armato terrorista (delle cui imprese bombarole contro civili e funzionari egiziani nulla fanno sapere). L’occasione è l’uscita del presidente Al Sisi – che ha resi verdi di bile sia i manifestini che gli amnestini - sui rapporti normalizzati con Roma. Noury di Amnesty abbaia e Chiara Cruciati risponde con guaiti frustrati su quella che è la loro “mission non accomplished”: l’isolamento dell’Egitto uscito dalle benefica morsa dei Fratelli Musulmani e dalla tutela di Erdogan, che ne avrebbero garantito docilità e collaborazionismo incondizionato. Sulla Libia e tutto.
Contro quella che viene definita la resa del governo italiano, questo duetto di botoli lancia su Al Sisi (come già su Assad e, prima, su Milosevic, Gheddaffi, Saddam) fantasmagoiriche e totalmente indocumentate cifre di omicidi extragiudiziali, prigionieri politici, scomparsi. Di quello che al momento, anche per la nuova amicizia con Mosca e il ruolo determinante in Libia, per il controllo del Canale di Suez da lui raddoppiato, per la scoperta disponibilità, grazie all’ENI, di un’enorme ricchezza di idrocarburi in mare, è diventato un protagonista dell’area e oltre l’area e, oggettivamente, un antagonista di Israele e dei suoi sodali in Turchia e nel Golfo, si pretende grottescamente che sia un apripista dell’espansionismo sionista. E gli si invoca contro tutto l’amamentario già collaudato contro altri birbaccioni: rotture diplomatiche, sanzioni, ostracismo politico, boicottaggio economico e alla fine, non detto ma sperato, bombe.
Ciò che questi trombettieri e pifferai dell’Impero devono occultare, come si sono affannati a fare fin dall’inizio, è la vera natura del personaggio Regeni., come evidentemente è nota al governo italiano, a molti media e agli accademici di Oxford e Cambridge che alla richieste di complicità della famiglia Regeni hanno opposto un consapevole silenzio. Chi e come abbia chiuso la vicenda umana del giovanotto non è dato ancora saperlo. Non deve essere facile per gli inquirenti egiziani: la controparte opera bene. Del resto noi aspettiamo da un po’ di tempo che ci dicano chi abbia abbattuto l’Itavia di Ustica, chi abbia rapito e ucciso Moro, chi abbia colpito l’Italicus e via ignorando. Ma sapendo il cui prodest.

Trattasi di papere
E’ dato sapere qualcosa che Amnesty e il quotidiano salafita, pur avendone piena contezza, nascondono e, a domanda, non rispondono. Cosa andava facendo Regeni in Egitto, all’Università americana, dopo aver lavorato in Inghilterra alle dipendenze di maestri spioni e masskiller angloamericani come David Young, carcerato per il Watergate, Colin McCole, ex-capo dei servizi segreti britannici, e John Negroponte, creatore dei Contras e degli squadroni della morte in Centroamerica e poi in Iraq. La loro ditta, Oxford Analytica, si occupava di spionaggio economico e politico, aveva 1.400 dipendenti e sedi a Londra, Parigi, Washington e New York. Non un ufficetto alla Callaghan. Regeni lavorava per delle spie. Regeni faceva corsi all’Università Americana del Cairo. La resistenza afghana ha appena fatto saltare l’Università American a Kabul. Io conoscevo molto bene l’Università Americana di Beirut. Tutti sanno che le università americane in quei paesi allevano i virgulti dei diplomatici e delle multinazionali Usa insieme a quella che dovrebbe diventare la futura classe dirigente collaborazionista locale. In parole povere, sono scuole e covi di spie.
Regeni non era una spia, mandata a farsi ammazzare per sfrucugliare un governo non gradito? Diceva qualcuno che se cammini come una papera, fai quac quac come una papera, deponi uova come una papera, è molto probabile che tu sia una papera.




Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.