giovedì 18 agosto 2016

Fidel Castro, il pentito...


La Storia mi assolverà?

Per il 90° compleanno di Fidel Castro sono state suonate trombe, cimbali, arpe, violini e organi. Lo sconveniente paradosso è che il 90% di quei celebranti fino all’altro giorno, anno, decennio, secolo, a Fidel dedicavano veleni, calci, bugie, altro che elegiache note. Io tutti quegli strumenti li avevo suonati a distesa da quando avevo raggiunto l’età della ragione professionale e militante. Oggi preferisco stare zitto. Il mio silenzio si allarga tra due sponde che si allontanano l’una dall’altra a velocità impressionante. La Cuba che Fidel, con il Che, Camilo e gli altri, ha conquistato, liberato, costruito, difeso; e la Cuba che gli è stata imposta e che si è lasciato imporre dopo il colpo di Stato effettuato dai militari sotto Raul Castro nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2009.

Fu decapitata e annientata la seconda generazione rivoluzionaria, allevata da Fidel, con a capo il delfino del leader maximo Felipe Perez Roque, formidabile ministro degli esteri, coerente antimperialista, terzomondista e grande teorico rivoluzionario, e Carlos Lage, vicepresidente del Consiglio di Stato, segretario del Consiglio dei ministri, già segretario della Gioventù Comunista. Al posto di 60 dirigenti destituiti della generazione dei quarantenni e cinquantenni, subentrarono gli ottuagenari generali di Raul, capi di quelle forze armate che controllano gran parte dell’apparato produttivo e della terra. Per mesi al popolo cubano sull’enorme, drammatico, rivolgimento non fu comunicato assolutamente niente. Alla fine si trovarono raffazzonati e grotteschi pretesti per i quali i rimossi avrebbero brigato con settori Usa e si sarebbero presi gioco di Fidel. Era vero il contrario. Ma tutto il mondo della semisecolare militanza filocubana, che aveva posto Fidel accanto agli irriducibili Ho Ci Minh, Giap, Fedayin, Tupamaros, Che, IRA, si mise a belare appresso ai nuovi pastori. Amici del popolo cubano? Piuttosto appassionati di greggi e di pastori. Pronti, italioticamente, a fare le fusa a chiunque, in qualunque modo, si insediasse nel Capitolio. Ci avevano convenienza.

A Cuba, già modello di emancipazione, socialismo e resistenza all’imperialismo per l’intero mondo, innesco delle emancipazioni latinoamericane, Raul propose come modello il Vietnam. Il Vietnam del nuovo secolo,  ridotto a colonia economica e militare Usa, agitatore anticinese per conto del Pentagono. Vietnam dove, nelle strade di Ho Ci Minh City, Jaguar e Gipponi minacciano di travolgere turbe di pezzenti e prostitute. Poi, a Cuba, come prima in Jugoslavia, arrivarono i papi e presero  ad azzannare pezzi di sanità, istruzione e comunicazione, le chiese riaprirono e si riempirono di cattolici e di sette evangeliche innestate dalla Cia. Obama fu onorato da Raul di “uomo onesto”. La cosa più sconvolgente si ebbe quando la feroce controffensiva Usa contro i paesi latinoamericani dell’A.L.B.A., grazie ai quali Cuba era sopravvissuta dopo l’URSS, liberati dai suoi popoli sotto la guida di Chavez, Morales, Kirchner, Correa, fu celebrata all’Avana con l’arrivo del presidente Usa, la riapertura dell’ambasciata, la privatizzazione di metà dell’economia cubana, la trasformazione in “cuentapropistas“, “imprenditori”, di 500mila dipendenti dello Stato, Cuba spalancata al turismo e alle multinazionali Usa. Naturalmente, per tutto questo, era prima necessario togliere di mezzo chi avrebbe potuto rilevare un certo grado di incoerenza e convincerne il popolo ancorato alla rivoluzione: Perez Roque e gli altri. Il discorso è il solito: “aggiornamento, modernizzazione del socialismo”, come in Vietnam, in Cina. Quanti ne abbiamo visti che dicevano di “modernizzare” Marx!  E dove sono finiti!

Cosa fa questa nuova classe di imprenditori? Bancarelle, taxi, localetti notturni, bische, saloncini di bellezza, ristorantini, tutto il nugolo d mosche che ruota intorno alla torta del turismo (cresciuto dell’11,7% rispetto al 2015, 2,8 miliardi di dollari, fiumi di soldi), si arricchisce e presto pretenderà la sua fettona  della torta economica e politica. Succede così nel privato. La produzione? Al palo, come dopo Che Guevara che, sfortunato ministro dell’industria, voleva farne lo strumento della resilienza e dell’autonomia dal grande padrino sovietico. Così, alla faccia dei charter che fanno arrivare comitive Usa e tornare gusanos pieni di dollari, la crescita si fermerà   sotto l’1%. Il presidente ha ammesso la crisi, ha denunciato voragini di liquidità (ma come, con tutte quelle aperture al mercato?) e annunciato misure per contenere i consumi e le spese in divisa. E la miseria è sempre quella di dieci, venti anni fa, solo non più avvolta nella retorica.

Torneranno i risparmi energetici (il Venezuela, in grossa crisi, ha ridotto a metà il suo rifornimenti di petrolio), iblack out, l’austerità che non è risparmiata a nessun paese che si faccia  abbindolare dagli Usa, che poi è un altro nome per Wall Street. “Verranno tempi duri”, ha detto il modernizzatore. C’è profumo di “periodo especial”, come quello che lasciò l’Isola in braghe di tela quando, con l’URSS, crollò anche la sua idea di divisione internazionale del lavoro. Voi zucchero e rum, noi tutto il resto. E così Cuba non produceva né mattoni, né carta igienica (avendo inesauribili argille e immense foreste). E, avendo giacimenti di metalli, importava chiodi e martelli. Cosa se ne deduce all’Avana? Non si scappa: ciò che Draghi, il FMI, IP Morgan e il principe evasore Juncker comminano ai paesi terroni: accelerazione delle riforme. Conosciamo bene la medicina.  Il 40% della forza lavoro cubana sta già nel settore privato. Che sa come gestirla.

Fidel era tutto. Presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri, Primo Segretario del Partito Comunista, comandante in capo delle Forze Armate. Centralizzazione totale. E al popolo stava bene: partecipava, stringeva la cinghia, combatteva, studiava, imparava, cresceva. E le cose andavano bene. Ora tutto questo è Raul. E c’è una bella differenza. E il popolo è spaccato in due: chi naviga sopra, tra tour, voli, hotel, spiagge, mignotte, night club; chi annaspa sotto e  si arrabatta per cavare dal turista quel dollaro anti-fame.. Finiremo mai a romperci la testa se il problema stia nell’uomo, o nel sistema?

Sul Malecon bandiere a stelle e strisce, quelle che sventolano sulle macerie di Iraq, Libia, Siria, Afghanistan, sul dirimpettaio Honduras golpizzato e trasformato in hub della droga e mattatoio degli oppositori e indigeni. Ma embargo ancora in atto e Guantanamo sempre base e carcere della tortura Usa. Se ne parlerà quando la “modernizzazione” sarà compiuta, vedrete. Gli yankee avevano cercato di eliminare Fidel 637 volte, un tentativo al mese. Hanno fallito. Ora ci ha pensato il fratello.

Riferiscono gli apologeti dall’Avana che Fidel insiste sulla certezza che “Cuba non piegherà la testa  perché il suo popolo ha acquisito una profonda coscienza di sé e l’orgoglio dell’indipendenza”. Certo. Ma, davanti, anzi sopra, chi è che dà l’esempio? Basta l’occasionale sparata di Fidel contro Obama o gli Usa sul Gramma? Troppo poco troppo tardi. E fa pure incazzare, pare che il revisionista Raul lo lasci fare, tanto non conta più, povero vecchio….

Il gigante si è ristretto. A volte succede con gli anni. A Malcom X non è successo. Neanche al Che, a Tito,  Gheddafi,  Mao, Saddam, Chavez. Forse perché sono morti in tempo?. Vai a sapere.

Il resto è silenzio. Anche per rispetto all’antico Fidel. E al suo popolo, di cui per molti anni ho detto, scritto, filmato e che ora non mi sento di abbandonare correndo appresso a un Raul qualunque e alla sua modernizzante gerontocrazia con le stellette.


Fulvio Grimaldi

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