mercoledì 15 luglio 2015

Gli ingranaggi della macchina sociale debbono combaciare se si vuole che la macchina funzioni



Sarebbe compito della politica quello di elaborare regole e normative coerenti e giuste,  per il corretto funzionamento della macchina sociale, risolvendo i casi problematici, ma di fatto i risultati sono quelli che sono.

Ciò significa che teoricamente le persone oneste (termine genericamente vago e impreciso, lo so) sarebbero inclini ad immaginare lo stato e le istituzioni come un dispositivo che, rappresentando il popolo e i suoi bisogni, eserciti la giustizia ed amministri .

Niente di più lontano dalla realtà dei fatti, purtroppo, come si può constatare in innumerevoli occasioni.

In modo particolare si è potuta ben osservare ancora una volta questa caratteristica nelle recenti vicende che hanno visto lo scontro tra Grecia, Germania ed Unione Europea.

Hanno prevalso, alla fine, le tesi disgustose dei banchieri strozzini e grandi usurai sopra la sovranità democratica.

Hanno prevalso in nome di una serie di regole costituite e fatte valere.

Ma che cosa sono queste regole ? Sono delle convenzioni elaborate dai banchieri ed accettate da una generazione di politici corrotti, che le hanno rovesciate sui popoli e sui propri successori.

IL fatto è che chi è del mestiere, chi fa politica, sa benissimo che l'impianto normativo è antidemocratico e profondamente ingiusto sotto mille punti di vista.

Ma hanno sempre taciuto, per convenienza di potere.

Improvvisamente, molti di loro (Dalema, Amato, Vendola, Meloni), di nuovo per convenienza, hanno parlato criticamente in pubblico, evidenziando vari danni dell'euro e dell'eurosistema, dichiarando all'improvviso cose che sapevano da sempre, ma trovavano conveniente esporre solo nel momento in cui la crisi greca profilava la possibilità di un Grexit e di una uscita, sotto la pressione del referendum, quindi hanno pensato di prepararsi il terreno ad un eventuale cambiamento di ordine politico, provando a blandire il pubblico e cercando di carpirne le simpatie.

Le "regole" dell'Unione Europea sono convenzioni (oltre che convenzioni stabilite non dalla democrazia bensì da una esigua minoranza di ricattatori). In quanto convenzioni artificiali, così come sono state costruite possono venire decostruite, come direbbe Jacques Derrida, e cambiate.

Ma ai politici non interessa modificare le regole per la necessità dei popoli: a loro interessa solo ed esclusivamente formarle e mantenerle per il proprio interesse di potere.

Molto più onesti di loro quegli economisti, come Krugman, Stiglitz, Allais, Rubini, Bagnai, Giacchè, Amoroso, che da tanto tempo vanno avvisando dei guasti profondi creati dall'eurosistema, e ad essi dobbiamo oggi aggiungere Iannis Vasroufakis (leggete il suo libro, "E' l'economia che cambia il mondo"). 

E' in questo modo, tramite la viltà opportunista dei politici codardi e interessati, che la democrazia risulta completamente svuotata  di ogni significato, e viene ridotta a specchietto per allodole onde carpire la fiducia del popolo truffato.

Questo è un nodo profondo del quale il popolo deve essere consapevole, altrimenti il conflitto tra capitale e lavoro continuerà a mietere vittime lavoratrici per profitto di pochi potenti, impiegando la grande macchina delle regole fraudolente spacciate come "giustizia".

Cambiare questo stato di cose richiede un grande impegno diffuso di controcultura, controinformazione ed opposizione in tutte le manifestazioni della vita nel paese reale.
Non è il popolo che deve temere il governo, sono i governi che devono temere i popoli, esattamente come dichiarava Thomas Jefferson.

Persino Bertrand Russel avvisava, già nel 1928, che il governo, pur presentandosi come presunto rappresentante del popolo,  altro non è che uno strumento di sopraffazione della classe dominante.

Non possiamo accettare di ridurci ad automi inconsapevoli di una grande macchina di dominio, è in gioco lo scontro tra le nostre facoltà umane e la riduzione a miserabile ingranaggio di un sistema.

E' in gioco la natura stessa della nostra vita

Vincenzo Zamboni

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