venerdì 4 gennaio 2013

Fanta-economia, bolla speculativa e flotte portacontainers che affondano...



La stagione delle bolle finanziarie potrebbe non essere finita. C’è una potenziale Lehman Brothers nascosta tra i flutti degli oceani, laddove la finanza ha incontrato il mondo armatoriale, in un abbraccio che rischia di essere mortale. 

Secondo uno studio di Boston  Consulting, nel 2011 le prime sedici flotte mondiali dei container con bilanci pubblicati hanno perso 5 miliardi di dollari. Nessuna però è  fallita: c’è chi ha avuto accesso a fondi pubblici (come la francese Cma Cgm), chi può contare sul sostegno di gruppi con immensa liquidità  (Maersk), chi ancora una volta ha avuto iniezioni di capitali dai propri azionisti. 


«Ma proviamo a immaginare se davvero una delle prime 20 compagnie mondiali dello shipping del container dovesse fare la fine di Lehman  Brothers, assisteremmo non a un cataclisma dell’universo immateriale del denaro ma della circolazione “fisica” delle merci». Non è  fantaeconomia secondo Sergio Bologna, uno dei massimi studiosi italiani dell’economia del mare, già autore nel 2010 per Egea Editore de “Le multinazionali del mare”. 

Ora è consultabile online “Il crack che viene dal mare” (www.fondazionemicheletti.it/altronovecento). Secondo  Bologna, dopo la bolla immobiliare e dei mutui subprime potrebbe arrivare la bolla dello shipping nel settore dei container. E questa volta l’epicentro sarebbe molto vicino. Amburgo, non New York. 

A minare le fondamenta dei meccanismi che presiedono alla gestione economica della catena logistica è “un infernale gioco dei quattro cantoni” tra grandi compagnie di linea, armatori, fondi chiusi e banche. Le compagnie di linea sono le protagoniste dell’immensa corsa al rialzo degli ultimi anni, con ordini per navi sempre più grandi e sempre più capienti, sino  all’attuale crollo dei noli per eccesso di domanda. Una “follia” che, secondo Bologna, risponde a logiche finanziarie più che industriali. Navi sempre più grandi sono ordinate non tanto, come sostengono i manager, per aumentare le economie di scala (in molti casi, attualmente, viaggiano al 60%), ma per alimentare un rapporto vitale con le banche che sostengono queste società sulla base delle quote di mercato, del valore degli asset, delle previsioni di crescita. «La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi, la valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all’acquisto delle navi». 

Oggi, tra Asia ed Europa, la rotta più ambita dai grandi gruppi, sono attivi 24 servizi container. Si può stimare per ciascuno di questi un costo di 1,5 miliardi: fanno 36 miliardi immobilizzati. Che, data la flessione della domanda di trasporto, non è affatto detto siano al sicuro. Delle perdite delle compagnie marittime, si è detto. Ma c’è ben altro: Hsh Nordbank, istituto leader nei finanziamenti allo shipping, è stato salvato nel 2008 dallo Stato tedesco e ora naviga nuovamente in cattive acque, pronto a chiedere l’accesso al fondo di garanzia dei Laender sino a 1,3 miliardi di euro. È il centro di un terremoto che sta travolgendo anche i piccoli risparmiatori che, in Germania, sono soliti investire in fondi chiusi specializzati nel settore dello shipping. Tali fondi - semplificando- acquistano navi dai cantieri come ordini per poi rivenderle al momento della consegna, oppure incamerando gli introiti del noleggio. 

Ma quando le rate crollano, il meccanismo si inceppa ed, essendo fondi chiusi, è impossibile ritirare i propri soldi prima del tempo. Nel primo trimestre 2011, secondo la Faz, i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare i fondi chiusi con nuova liquidità per 41,6 milioni di euro, a luglio «i prezzi di vendita di molte navi sono scesi così in basso da sfiorare il valore delle navi in demolizione». Uno scenario che ha mandato in tilt anche i non operating ship owner, cioè quelle società , in gran parte tedesche, che possiedono parte delle navi impiegate nei servizi delle compagnie di linea e che, ora, iniziano a temere per la tenuta dei conti. Le banche iniziano a farsi da parte, a chiudere i rubinetti: Hsh Nordbank, ma anche Commerzbank e altre ancora. 

Sperando non sia troppo tardi. Intanto il Ceo di Maersk Nils Andersen, lo scorso 19 novembre ha dichiarato la volontà di non investire più nello shipping nei prossimi cinque anni, salvo poi correggere la rotta in un secondo momento. Nel frattempo, però, onde sismiche di preoccupazione hanno attraversato tutto il mercato. Perché le compagnie marittime sono la classica società “too big too fail” troppo grande per fallire senza fare molto male. 

Samuele Cafasso 

cafasso@ilsecoloxix.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.