mercoledì 27 settembre 2017

Karma e illuminazione nel senso buddista


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“E' possibile essere felici senza essere “qualcuno”? Che valore viene attribuito, dal Buddhismo, al ruolo sociale e all'azione? I paradossi di una filosofia in cui la felicità è praticabile nell'assenza di "identità"…


Il passato che non passa

La parola Karma, ormai entrata nel nostro lin­guaggio comune, viene per lo più associata alla parola "reincarnazione", ovvero al concetto di viaggio dell'a­nima attraverso vite diverse. Tuttavia il termine Karma, nelle filosofie orientali e in quella buddhista in partico­lare, ha un'accezione ben più complessa: esprime l'idea che ciò che siamo in questo momento è una somma esponenziale di tutti i momenti di esistenza del nostro passato, anche antecedenti alla nostra venuta in questo mondo. Una lettura estremamente rigorosa della legge di causa ed effetto, quindi. 


Trasportata sul piano indivi­duale, questa legge fa sì che una continuità progressiva di tendenze, pensieri, azioni e volizioni produca poi una condizione di "status quo" riconoscibile come l'attuale stato di esistenza della persona. Il fatto che ognuno di noi si trovi in una determinata sfera sociale, culturale, politica e lavorativa o addirittura in una precisa condi­zione psicofisica sarebbe quindi il frutto delle azioni svolte sia in questa che in altre vite precedenti, vissute magari sotto altre forme e con destini diversi. 

Già al momento della nascita, secondo la visione buddhista, ci sarebbero dei "contenuti" - memorie, desi­deri - che condizionano la persona nella quale l'anima si è "incarnata". Il ruolo che assumiamo, quindi, rap­presenta il coagulo di questi contenuti, ma diventa a sua volta "produttore" di contenuti che influiscono sulla nostra vita attuale e futura. E' possibile, cioè, che il livello in cui la nostra mente attualmente si trova possa condizionare quasi totalmente la nostra vita attuale, ma anche che a sua volta la mente possa essere condizio­nata dal ruolo che, di conseguenza, assumiamo. E’ anche possibile che lo stato di manifestazione attuale sia uno stato di attesa, una condizione di limbo, in cui la nostra potenzialità mentale, magari molto elevata, aspetti soltanto una situazione particolare, una fulminea maturazione di una causa pre-esistente, per far emer­gere, da uno stato, per così dire, ibernato o congelato, una straordinaria capacità di Autocoscienza.

Il potere dell'identificazione

La legge di causa ed effetto influisce anche sul rap­porto tra il ruolo nel quale siamo identificati e il nostro "sostrato" interiore. Quanto maggiore sarà l'identifica­zione nel ruolo, tanto meno saremo capaci di ricono­scere "ciò che siamo realmente". La nostra essenza uni­versale, chiusa in un involucro, non riuscirà a manifestarsi alla coscienza. Ciò che il Buddha chiama "ignoranza" è proprio questa forma di imprigionamento della coscienza nei contenuti mentali: saremmo tutti potenziali Buddha se non fossimo vittime di un primordiale errore (peccato originale?) che ci impedisce il riconoscimento della nostra vera natura. Attraverso l'esperienza nella vita in questo mondo si sono formati, nella nostra mente, dei parametri di appartenenza a questo o quel "normotipo". Noi ci vediamo e ci sentiamo come maschi o femmine, gio­vani od anziani, italiani o stranieri, maestri o discepoli, intelligenti o incapaci, ricchi o squattrinati, socialmente arrivati o ansiosi di arrivare. Insomma, nella nostra manifestazione socio-antropologica, ci autorappresen­tiamo attraverso delle categorie di appartenenza e ci identifichiamo in queste.

Nella visione buddhista dell'esistenza, al contrario, a queste categorie viene riconosciuto un valore mera­mente convenzionale o relativo dato che, dal punto di vista assoluto o ultimo, nessuna qualità risulta immuta­bile o permanente ed ogni cosa viene considerata solo in relazione al suo opposto. Il metodo buddhista, basato sull'attenta osservazione di ciò che nel mondo fenome­nico accade, conduce alla puntuale constatazione che, nel tempo, ogni cosa si trasforma nel suo opposto: il piacere nel dolore, il bene nel male, la gioventù in vec­chiaia. L'aspirazione allla evoluzione della coscienza porta naturalmente a non considerare come punto di riferimento il mondo delle forme in divenire. Di conse­guenza, più vi è crescita a livello interiore e più si perde interesse verso i ruoli sociali e una posizione di potere.

La libertà di non essere

Tutto ciò può essere esemplificato dalla proverbiale indifferenza dei "saggi" e degli "illuminati" nei riguardi del loro ceto di appartenenza. Lo stesso Buddha, che al suo tempo era conosciuto col nome di Siddharta Gotama. era figlio di un re ma non ci pensò due volte a gettare le sue vesti di principe. Quando poi, dopo il suo lungo training di purificazione, Siddharta Gotama arrivò a concepire la sua natura ultima e diventò il Buddha (l’Illuminato), non alimentò nessun rimpianto verso il luccichìo della reggia patema e visse come un asceta e monaco vagabondo insieme ad altri "miserabili" com­pagni. 


Anche nella tradizione cristiana, San Francesco è un altro esempio radicale e addirittura "scandaloso" di questa indifferenza. Ma ci sono stati pure casi di uomini di umili condizioni che, seppur trovandosi fortuitamente ad occupare posti di estremo prestigio, non si sono lasciati sedurre dal fascino del potere. Famosa è, nel Buddhismo Zen, la figura di Hui Neng, cuoco analfa­beta, che vivendo serenamente come un "buddha in incognito" viene scelto dal Quinto Patriarca come suo successore, senza che ciò muti il suo atteggiamento umile e compassionevole.

Tuttavia è pur vero che, anche volendo abbandonare ogni "gloria mondana", si può incappare nella più insidiosa ricerca di "gloria spi­rituale". Potere spirituale e potere temporale hanno camminato per secoli di pari passo. Essere in un posto di comando e per lo più avere il prestigio di rappresen­tare dio in terra è stato (e forse è ancora) il sogno ambi­zioso di molti uomini di religione, sia in Oriente che in Occidente. Vi è poi un'altra forma più sottile e più occulta di "scalata spirituale", quella che spinge molti individui, in cerca di una identità valorizzata, a gettarsi con fanatico fervore nelle vie spirituali per poter dichiarare un'appartenenza a qualcosa (un gruppo, un'idea), per lo più, un quaJcosa di "molto elevato". Questa adesione dell’ immaginario alle "cose spiri­tuali" è una forma di identificazione che non facilita affatto l'incontro e il senso di unione con l'altro.

Naturalmente il vero ricercatore spirituale conosce questa eventualità e parte del suo lavoro interiore consiste proprio nel sorvegliare tutte quelle tendenze che lo spingerebbero ad usare per scopi egoistici i poteri mentali acquistati attraverso le pratiche meditative.

La felicità senza desideri

La mente, come asserisce il Dalai Lama, è la "fonte di tutte le felicità, la creatrice di tutti i buoni propositi, oppure, se mal usata, la generatrice di tutte le disgrazie". Nell'ottica buddhista, il giudizio non è la somma facoltà, e la mente che lo produce non è il ‘principio ultimo’. Dietro alla mente esiste uno sguardo neutrale, privo di giudizio, che osserva l'incessante movimento del pensiero. La pratica spirituale consiste nel cercare di mettere a fuoco la realtà dal punto di vista di quello sguardo neutro.

In questo stato di pura attenzione, la stessa immagine che abbiamo di noi, cristallizzatasi negli anni attraverso una scansione abitudinaria di pensieri/azioni può mutare ai nostri occhi. La nostra persona, il ruolo che occupa nella società, possono assumere infine la proporzione di semplici accadimenti. La ricerca di identità sociale può estinguersi per lasciare spazio, a poco a poco, a una ricerca di Identità (o non-identità) Assoluta, al di là dei nomi e delle forme. Una volta cessata la corsa alla "gloria", al prestigio e all'attenzione degli altri, è possi­bile trovare una felicità senza desideri nella consapevo­lezza di essere non solo una persona, ma di essere con­temporaneamente la Vita di tuttigli uomini.

Al cuore della filosofia buddhista non c'è la pro­messa della visione di un Paradiso fantastico o della realizzazione dei propri "sogni". Al contrario, il mondo delle immagini (e quindi delle illusioni) deve svuotarsi, a poco a poco, per lasciare spazio ad una beatitudine spoglia di oggetti o contenuti. Per questo il Buddhismo, nel suo messaggio autentico, si diffonde tra gli "incre­duli". C'è infatti una incredulità costruttiva, che può assurgere a vera e propria pratica di vita: incredulità rispetto a valori come immagine, potere, prestigio; incredulità nella possibilità di poter contrastare questi valori con una ideologia.

In un'epoca di deserto idealistico, il Buddhismo è diventata una filosofia di azione per chi si sente stretto nel suo ruolo ed è consapevole di non poter risolvere questo senso di non-identità creandosi un'altra rappre­sentazione di sé e del mondo. Come sostiene Aurobindo, contem­poraneo filosofo indiano, l' "uomo ordinario" con la forza della pura motivazione può diventare consapevole della sua natura divina semplicemente non rivolgendo "attenzioni" al proprio ego, vorace e distruttore, ma praticando l'atten­zione per registrare e osservare i propri stati mentali.

Ciò implica un graduale cammino di liberazione dai rapporti di causa/effetto, ovvero dalla legge karmica. In questa ottica di liberazione, il pensare e l'agire nel mondo diventano necessari strumenti obbligatori. Infatti, se è vero, secondo la dottrina buddhista, che noi siamo il frutto di ciò che siamo stati, ciò non significa che non possiamo dare una direzione volontaria al nostro destino. Al con­trario, secondo questa visione, abbiamo la possibilità di annullare completamente il propagarsi delle cause delle vite precedenti e modificare la nostra condizione, colti­vando pensieri e azioni diverse, irradiando il nostro stato di libertà (dalle cause) nel mondo con azioni spas­sionate, senza tornaconto personale. Ed è così che l'in­differenza verso il proprio ruolo sociale si traduce, nell'adesione alla filosofia buddhista, in una pratica sociale disinteressata, attiva, intesa come "servizio" agli altri e alla Vita.

Alberto Mengoni  




(Dalla Rivista “OLIS”- Novembre 1994)



“Tutti gli uomini sono Buddha

tutti gli uomini hanno mille occhi singoli…

occhio vivido, occhio acuto, occhio intelligente,

occhio scrutatore, occhio presbite, occhio miope,

occhio astigmatico, occhio strabico, occhio del desiderio,

occhio stanco di guardare, occhio ipercritico, occhio superficiale,

occhio rapace, occhio supplice, occhio invidioso, occhio rabbioso,

occhio calmo, occhio profondamente pensoso, occhio indagatore,

occhio amoroso, occhio generoso, occhio benigno, occhio compassionevole,

solo occhi compassionevoli, in tutto fanno centotredici.

Chi osa guardare i mille occhi è preso dal capogiro e da vertigine

guardandone i 999 dolorosi come il fuoco, dolorosi come la montagna

proprio sopra l'altopiano, che bollendo troppo a lungo

fa aprire sulla fronte il primo dei mille occhi…

grande saggezza, grande stupidità, grande gioia

grande volta celeste,grande miseria.

Così disse in uno sguardo


(Tratto da: Wang Meng, Pensieri vaganti nel Tibet, Scheiwiller, Milano 1987)

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