lunedì 12 settembre 2016

"La storia dei Siculi" di Claudio D'Angelo - Recensione


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In senso lato, questo libro si inserisce in un filone di ricerche alle quali io stesso mi sono abbondantemente dedicato, cioè la ricerca delle nostre origini al di fuori di quel che ci racconta una “scienza” antropologica e storica accademica e ufficiale di cui abbiamo tutti i motivi per sospettare la parzialità e l’inattendibilità, anche se in questo testo più che dell’origine degli europei o degli italiani, si parla dell’origine di un preciso segmento di essi, ossia i siciliani o almeno la loro componente antica più nota, i Siculi.
Come si evince anche dalla prefazione di Antonello Frattagli, Claudio D’Angelo è un ricercatore indipendente, un siciliano che per motivi professionali vive fuori dalla sua isola e ha conservato per essa una sviscerata passione.
L’autore presenta in questo libro un’interessante ipotesi sugli antichi Siculi, partendo dal presupposto che il loro effettivo ruolo storico sia stato minimizzato dagli storici greci e romani per motivi di campanilismo etnico.
I Siculi, ci dice Claudio D’Angelo, erano un popolo di stirpe indoeuropea, e fin qui non ci dice nulla che non sia tranquillamente ammesso anche dalla storiografia e dall’archeologia ortodosse. Quel che queste ultime però ignorano secondo l’autore, è l’ampiezza degli insediamenti, delle culture, delle popolazioni derivate cui i Siculi avrebbero dato origine prima di stabilirsi in Sicilia e restringersi a una dimensione regionale.
Il caso è in certo modo analogo a quello dei Veneti. Come si ricorderà noi troviamo tracce di antiche popolazioni “venete” in svariate parti d’Europa, in particolare, oltre che nel nord-est italiano, stando alle narrazioni degli autori classici e alle indicazioni fornite dalla toponomastica, nel nord di quella che è oggi la costa atlantica della Francia, e nell’Europa orientale. Recentemente il professor Vitord Hensel dell’Accademia delle Scienze polacca ha avanzato l’ipotesi che i Veneti debbano identificarsi con una delle più vaste culture materiali di epoca preistorica diffusa in gran parte dell’Europa centrale e nota agli archeologi come cultura dei campi di urne. Se ricordate, ve ne avevo parlato nella trentesima parte di Una Ahnenerbe casalinga. Ora, il caso dei Siculi sembra essere in qualche modo analogo.
Bisogna anche dire che una volta accertato o perlomeno accettato che gli antichi Siculi fossero un popolo di stirpe indoeuropea, ci troviamo con più domande che risposte, dal momento che l’origine degli stessi Indoeuropei è una questione ancora sub iudice.
Al riguardo, l’autore si pone in una posizione per così dire intermedia fra le ipotesi che sostengono l’origine degli indoeuropei nelle steppe eurasiatiche e quanti optano invece per una provenienza mediorientale, identificandone uno dei più antichi siti, quella che egli definisce una proto-città che sarebbe sorta attorno al 7000 avanti Cristo, a Mehgarh tra India e Pakistan. Un millennio più tardi una cultura estremamente simile, frutto di una migrazione, sarebbe sorta a Jeitun nell’attuale Turkmenistan. Questa migrazione non solo non avrebbe comportato l’abbandono del sito di Mehgarh, ma tra i due siti, nonostante la distanza, sarebbero rimasti contatti e scambi commerciali, infatti a partire da quell’epoca compaiono nella tombe di Mehgarh monili di turchesi provenienti dal territorio turkmeno.
La cultura di queste popolazioni sarebbe stata basata sull’agricoltura e la pastorizia e vi compare la produzione di oggetti di metallo, in particolare di rame; si sarebbe inoltre trattato di una cultura matriarcale, come fanno pensare i ritrovamenti di un gran numero di statuette femminili, e che praticava la sepoltura dei defunti in luogo dell’incinerazione maggiormente diffusa fra le popolazioni indiane.
Dalla zona di Jeitun (che si trova a nord del Caucaso, tra il Caspio e il Mar Nero), questa popolazione avrebbe facilmente raggiunto le sponde di quest’ultimo che allora sarebbe stato un lago di acqua dolce.
Questa, se ricordate, è una vicenda che non ci è sconosciuta. Varie volte mi è capitato di citare al riguardo il testo di Ian Wilson I pilastri di Atlantide. Quello che è oggi il Mar Nero sarebbe stato in origine un lago di acqua dolce di dimensioni nettamente più contenute. A quella che oggi è una profondità di ben 150 metri a dodici chilometri dall’attuale costa turca, sarebbe stata individuata l’antica linea di costa, nonché manufatti e resti di antichissime costruzioni.
Gli eventi di cui stiamo parlando si situano alla fine dell’età glaciale, e il ritiro dei ghiacciai avrebbe portato all’innalzamento progressivo delle acque dei mari. Attorno al 5600 avanti Cristo, il Mediterraneo avrebbe sormontato l’antica diga naturale che lo separava dalle acque dolci del lago, provocando una gigantesca inondazione. Il ricordo deformato di quest’evento è probabilmente all’origine sia della narrazione biblica del diluvio, sia del mito di Atlantide.
Le popolazioni che abitavano le rive del lago furono costrette a una precipitosa fuga, abbandonando quella che fin allora era stata una terra rigogliosa e fertile. D’Angelo ipotizza che dal nome che costoro davano alla regione, Adana, sarebbe derivato il nostro “eden”, l’idea stessa del paradiso perduto.
I superstiti della catastrofe pontica si irradiarono in tutte le direzioni; infatti gli archeologi ci dicono che attorno al 5500 avanti Cristo abbiamo il sorgere improvviso di tutta una serie di nuove culture, sia sulla sponda anatolica sia su quella europea del Mar Nero.
Quella che secondo l’autore è con ogni probabilità la cultura per noi più interessante fra di esse, quella da cui i superstiti dell’antico eden pontico si sarebbero irradiati per diventare gli antenati dei popoli indoeuropei, è quella nota agli archeologi come cultura di Cucuteni, estesa sul lato occidentale del Mar Nero in un’area che si estende dalla Bulgaria alla Romania, a parte dell’Ucraina attuali.
Per irradiamento da questa cultura proto-indoeuropea verso occidente, si sarebbero formate le culture dei Celti e dei Siculi. Questi ultimi erano molto lontani dall’essere insediati nella Sicilia attuale. D’Angelo riporta:
“In Transilvania orientale vive tutt’oggi un popolo denominato Siculi (Szekely in rumeno e Sicui in ungherese), esso è concentrato in un’area posta a confine tra l’Ungheria e la Romania chiamata “Terra dei Siculi” (…).
Anche un’antica mappa, redatta sul finire del XVII° secolo da Luigi Ferdinando Marsili (che tuttora si trova nella biblioteca Universitaria di Bologna) riporta, sulla riva sinistra del Danubio, vicino alla Valacchia, un’area indicata come “Siculia”.
Vi sono elementi archeologici che evidenzierebbero che non si tratterebbe di una semplice coincidenza di nomi; ad esempio un piatto appartenente alla cultura cucutena dove troviamo raffigurato il triscele o triskell, la triplice spirale che ancora oggi è il simbolo della Sicilia (nella forma a tre gambe come nella bandiera dell’isola di Man) e dei Celti. La bandiera degli Szekely raffigura un sole munito di volto affiancato a destra da un quarto di luna calante, cioè con le corna rivolte verso il sole stesso, a fare dei due astri quasi una figura unica. Lo stesso simbolo è ancora oggi diffusissimo ed estremamente popolare nella cultura siciliana.
Il percorso che doveva portare questi antichi Siculi fino alla Sicilia è lungo e intricato, ma occorre dire che, sempre seguendo l’ipotesi di Claudio D’Angelo, prima ancora che esso iniziasse, prima che i Celti, i Siculi e altri popoli indoeuropei si staccassero dalla cultura cucutena, essa subì un’importante trasformazione.
Attorno al quarto millennio avanti Cristo, le popolazioni altaiche dell’Eurasia avrebbero inventato la monta del cavallo, trasformandosi da pastori in temibili cavalieri, e le ricorrenti siccità li avrebbero spinti a invadere le rigogliose terre occidentali. La necessità di difendersi dalle scorrerie di queste genti nomadi delle steppe avrebbe indotto una profonda trasformazione nella società cucutena proto-indoeuropea, che si sarebbe trasformata da matriarcale in patriarcale, perché l’uomo nel ruolo di guerriero, di difensore della comunità, vi crebbe notevolmente d’importanza.
In questo periodo cambia la tipologia delle abitazioni che sono fortificate e costruite in luoghi elevati, e sono denominate dagli archeologi “piccole fortezze”.
E’ inoltre a quest’epoca e a questa cultura che risalgono le tavolette di Tartaria che sarebbero il più antico esempio di scrittura conosciuto al mondo.
La pressione di nuove popolazioni fra cui i Cimmeri, costrinse i proto-Siculi a spostarsi più a ovest nel periodo temporale che va dal 3000 al 2200 avanti Cristo, nell’area illirica fin sulle sponde dell’Adriatico, dove avrebbero dato luogo alla cultura Vucedol. In questo periodo, per difendersi dai nemici, essi avrebbero posto mano alla costruzione delle prime mura megalitiche a protezione dei loro insediamenti.
Secondo D’Angelo, Siculi e Illiri erano in realtà lo stesso popolo. Un gruppo di Siculi-Illiri erano anche i Liburni, abilissimi marinai e pirati della costa dalmata, che preclusero l’alto Adriatico ai Greci e diedero parecchio filo da torcere ai Romani quando questi cercarono di sottometterli. Quando i Romani dovettero affrontare sul mare Cartagine, copiarono il modello di nave dei Liburni, e “liburna” assunse il significato generico di nave.
Dalle coste orientali dell’Adriatico, i Siculi si sarebbero spinti nella nostra Penisola attorno al millesettecento avanti Cristo, dando luogo a quella che gli archeologi chiamano cultura appenninica, caratterizzata tra l’altro dall’usanza funebre detta “inumazione a grotticelle”; i defunti erano sepolti in posizione fetale in una camera funeraria scavata in modo da ricordare l’utero materno. Tipo di sepoltura che probabilmente esprime l’idea della rinascita e della ciclicità dell’esistenza.
Costoro avrebbero trovato ben scarsa resistenza in un’Italia ancora popolata da radi cacciatori-raccoglitori di stirpe mediterranea, e avrebbero assoggettato gran parte dell’Italia centrale e meridionale, non ancora però l’isola cui erano destinati a dare il nome. Qui si sarebbero mescolati con gli autoctoni di stirpe mediterranea e frammentati in varie popolazioni fra cui Sabini, Aurunci, Ausoni, Sanniti e molte altre.
Secondo l’autore, sempre ai Siculi si deve la costruzione di imponenti mura megalitiche di alcune città dell’Italia centro-meridionale, note come mura ciclopiche: Alatri, Arpino, Ferentino, Anagni, Atina, Parco di Roccamonfina, Amelia (dove la cinta muraria romana è sopraedificata a più antiche mura megalitiche), Roca Vecchia nel Salento, Sessa Aurunca.
Questa tipologia di fortificazioni ideata dai Siculi-Illiri nei Balcani, certamente dispendiosa, dovette essere presto abbandonata perché in Italia non c’erano popoli che potessero allora minacciare seriamente gli insediamenti siculi, e in età romana le relative tecniche costruttive erano state del tutto dimenticate.
Una ricerca dell’Università di Tolosa sugli antichi pollini ha dimostrato che verso il 1250 a. C. l’area mediterranea fu colpita da una gravissima siccità che ebbe l’effetto di sconvolgere gli equilibri della regione, perché molte popolazioni pressate dalla carestia si riversarono su quelle meno colpite aggredendole. E’ a quest’epoca che scompaiono il regno miceneo e l’impero ittita e l’Egitto si deve difendere dalle aggressioni dei “Popoli del mare”. Tra questi troviamo anche i Shekelesh, che l’autore identifica coi Siculi.
Tuttavia, questo non deve aver arrestato la decadenza del regno siculo. Scacciati dal Lazio nel XI secolo avanti Cristo, i Siculi si sarebbero dovuti rifugiare in Sicilia.
Riguardo all’origine degli Etruschi, D’Angelo condivide almeno in parte la tesi di Erodoto che sosteneva fossero originari dall’Asia Minore, tesi smentita dalle odierne ricerche sul DNA che non hanno riscontrato nessuna parentela tra il patrimonio genetico etrusco e quelli anatolici. La loro cultura sarebbe invece un’evoluzione di quella villanoviana, a sua volta derivata da quella delle Terramare della Valle Padana. I Latini sono variamente indicati come “prischi Latini” o anche “Aborigeni”, il che suggerisce che secondo il pensiero dell’autore sarebbero stati discendenti delle popolazioni mediterranee che abitavano la Penisola prima dell’arrivo dei Siculi.
Il termine “Siculi” deriverebbe da “sica”, falce (ma anche pugnale, da cui “sicario”), ma sempre nel senso di falce abbiamo “sickle” in inglese, gallese, armeno, georgiano. Essi sarebbero dunque stati “il popolo della falce”, usata in agricoltura, e che avrebbe diffuso la pratica agricola in Italia e nel bacino mediterraneo, ma che, immanicata su di una lunga asta, poteva diventare un’arma da guerra temibile. I Greci si riferiscono a loro anche come “Pelasgi”. Questo era anche il nome che costoro davano alle genti che avevano abitato la Penisola ellenica prima del loro arrivo, e a varie  popolazioni tra le quali non sembrano esservi stati rapporti. Il mistero si chiarisce considerando la radice di questa parola, che verrebbe da “pellig”, alto mare (analoga a “pelago” in italiano), avrebbe dunque in realtà il significato di “popoli al di là del mare” o più genericamente “stranieri”, “non greci”.
Non ci sono molte testimonianze sulla lingua dei Siculi a eccezione delle tracce lasciate nel siciliano odierno. D’Angelo ritiene che la lingua dei Siculi fosse strettamente affine al proto-indoeuropeo. Il sanscrito non è in assoluto la lingua indoeuropea più antica, ma è la più antica di cui abbiamo una testimonianza scritta. D’Angelo ritiene di individuare circa duecento termini siciliani che presenterebbero una forte somiglianza con il sanscrito, e sarebbero un residuo dell’antica lingua dei Siculi, fra questi “Trinacria”, il nome che i Siculi diedero all’isola, che sarebbe riconducibile a un etimo che in sanscrito significherebbe “bosco”, “giardino”, “terra verde”.
Questo libro dovrebbe procurare una grande soddisfazione ai lettori siciliani che possono sentirsi gli eredi di un grande popolo, ma questo è vero fino a un certo punto: Quando i Siculi arrivarono nell’isola, essa era già abitata da popolazioni di ceppo mediterraneo, Elimi e Sicani: D’Angelo precisa che i Siculi erano una popolazione di ceppo indoeuropeo affine ai Celti, di taglia longilinea, di pelle chiara e capelli biondi, e non sembrano aver lasciato nei Siciliani di oggi, dove prevalgono nettamente le caratteristiche mediterranee, un’impronta genetica molto forte, ma è anche vero che spesso si trovano fra i siciliani alta statura e colorito chiaro in una misura che ad esempio la presenza dei Normanni in età medioevale non sarebbe sufficiente a giustificare.
Un altro aspetto del libro che lascia perplessi, è che in alcuni punti appare una ricostruzione storica fantasiosa, ad esempio le liste dei re siculi, le genealogie ricostruite sulla base di eponimi come Italo, Siculo, Dardano e via dicendo, o sulla base di riferimenti spesso ambigui e contraddittori degli autori classici che scrivevano a secoli di distanza dagli eventi narrati.
Sull’altro piatto della bilancia, va però messo il fatto che questo libro, oltre a presentare un’ipotesi interessante su capitoli poco noti della nostra storia, ma mette non solo la Sicilia, ma anche l’Italia e l’Europa al centro della civiltà antica, anch’essa, come molte tematiche che io stesso ho sviluppato su queste pagine, in contrasto con la tendenza prevalente nella storiografia “ortodossa” a privilegiare il Medio Oriente.

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Fonte: Fabio Calabrese - Ereticamente

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