Una seconda tempesta perfetta è prossima. E’ quanto pensa anche l’economista americano Nouriel Roubini, il quale sostiene che i mercati finanziari continuano a salire, “drogati” dalle centinaia di miliardi di dollari iniettati dalle banche centrali, nonostante Eurolandia stia cadendo in recessione (il calo del 4,1% degli ordini all’industria tedesca dimostra che anche la Germania boccheggia) e nonostante i rischi di cadere in deflazione (ossia di vedere diminuire non solo i salari, già in forte calo in molti Paesi europei) ma anche i prezzi, nonostante il riaccendersi delle tensioni in Europa dopo il guanto di sfida lanciato dalla Francia che ha preannunciato che non rispetterà i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, nonostante il forte rallentamento della crescita dei grandi Paesi emergenti (Cina in primis), nonostante gli Stati Uniti stiano tentando di uscire dalla politica monetaria ultraespansiva degli ultimi sei anni, sperando di non mettere un piede in fallo e quindi di schivare il pericolo di far franare tutto il sistema e soprattutto nonostante il moltiplicarsi delle crisi geopolitiche.
In effetti si stanno rapidamente creando le condizioni per una nuova grande crisi finanziaria ed economica peggiore di quella dell’autunno del 2008. Che la situazione sia molto pericolosa, lo confermano il calo dei prezzi delle materie prime con un petrolio sceso sotto i 90 dollari il barile e la revisione al ribasso delle previsioni di crescita dell’economia mondiale che annuncerà domani il Fondo Monetario Internazionale. Il distacco delle valutazioni dei mercati finanziari rispetto all’andamento dell’economia reale è tale da poterli paragonare ad un castello di carte di una fragilità impressionante destinato a crollare alla prima folata di vento. Quindi la domanda odierna non è se vi sarà una nuova crisi finanziaria, ma quando scoppierà.
Il vero dramma è però rappresentato dai guai che la crisi e la sua scellerata gestione stanno accumulando nell’economia reale. Questi disastri avranno conseguenze di lungo periodo. Cerchiamo di analizzarne alcuni. Innanzitutto, l’economia occidentale è destinata a stagnare nella migliore delle ipotesi e a non riuscire ad imboccare un sentiero di crescita che assicuri un buon livello di occupazione dei suoi cittadini. A sei anni di distanza dalla crisi dell’autunno del 2008, l’economia europea appare in stato comatoso, quella giapponese non riesce da una crisi più che ventennale e anche quella americana, spesso additata a modello, è in realtà uno specchietto per le allodole.
La crescita media degli Stati Uniti negli ultimi sei anni si è aggirata attorno al 2%, ossia ben al di sotto del tasso di crescita potenziale dell’economia americana. Il risultato è stato dunque insoddisfacente nonostante una politica monetaria ultraespansiva (con una Federal Reserve che ha stampato centinaia di miliardi di dollari), nonostante tassi di interesse guida di poco superiori allo zero, nonostante un tasso di cambio del dollaro molto basso (solo da poco tempo sta rivalutandosi) e nonostante il boom dello shale gas che sta dando agli Stati Uniti l’indipendenza energetica.
Non solo – ed è il secondo punto - il miglioramento del mercato del lavoro con la disoccupazione scesa al 5,9% è una bufala. La percentuale dei disoccupati è scesa, poiché è sceso in modo impressionale la percentuale di coloro che cercano un lavoro, ossia è fortemente diminuita la popolazione attiva.
In secondo luogo, il dato sull’occupazione nasconde una realtà ben diversa: persone che vorrebbero lavorare a tempo pieno che si devono accontentare di occupazioni a tempo parziale oppure nettamente inferiori alle loro qualifiche professionali. Il disastro emerge in piena luce con il dato che evidenzia che i salari e gli stipendi degli americani continuano a stagnare e che il salario mediano negli Stati Uniti è del 10% inferiore a quello che precedette la crisi.
Dunque per i lavoratori americani la crisi non è mai finita e sicuramente hanno grande difficoltà ad individuare il presunto successo americano tanto strombazzato dai media e dagli analisti finanziari. La realtà odierna del mercato del lavoro americano – ed è il terzo punto – provoca altre conseguenze di lungo termine che cominciano ad essere riconosciute anche a Washington. Il numero dei giovani che accedono all’università sta diminuendo a causa dei costi proibitivi della formazione universitaria negli Stati Uniti e a causa delle minori disponibilità economiche delle famiglie.
Questo fenomeno è destinato a rendere permanente – ed è il quarto punto – la crescita delle diseguaglianze, che è il motivo principale del fallimento della ripresa, non solo negli Stati Uniti.
Infine – ed è il quinto punto – le imprese investono sempre meno e le grandi multinazionali usano invece la liquidità per grandi operazioni di riacquisto delle azioni proprie, che presentano il vantaggio di spingere al rialzo il corso dell’azione e quindi la remunerazione dei top manager. Ho usato volutamente l’esempio degli Stati Uniti, da tutti considerato l’esempio da seguire per uscire dalla crisi, perché la situazione in Europa e in Giappone non è diversa. Anzi, è semplicemente peggiore.
Sei anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria siamo in una situazione sicuramente peggiore di allora. Gli unici ad aver beneficiato delle politiche seguite in questo periodo sono stati i mercati finanziari, ma anche per loro è vicino il momento della verità.
Alfonso Tuor
Fonte: http://www.ticinonews.ch
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