Il razzismo non c’entra nulla con la rivolta dei sinistri statunitensi (neri ma soprattutto bianchi) contro Trump. E non c’entra quasi nulla neanche l’uccisione di George Floyd, il nero americano vittima di un episodio di stupida brutalità da parte di un poliziotto di Minneapolis.
Il
razzismo non c’entra niente – dicevo – perché la protesta dei
marciatori e dei decapitatori di statue avrebbe dovuto, semmai,
essere diretta contro i metodi della polizia locale, non contro un
“razzismo” che sempre più è soltanto una accusa di comodo,
agitata come una clava del “politicamente corretto” contro
chiunque osi dissentire dai fogli d’ordini di George Soros e dei
padroni del mondo.
Oltretutto è sommamente stupido accusare di razzismo una nazione che, fino
all’altro giorno, aveva un presidente di colore. E
comunque, anche a voler accettare la castroneria che la brutalità della polizia equivalga a razzismo, l’aver indirizzato la protesta
– per “responsabilità oggettiva” – verso il Presidente Trump è la prova provata della malafede di chi tale protesta ha promosso,
gestito e lautamente finanziato.
E lo sapete perché? Perché –
piccolo particolare di cui nessuno ha parlato – negli USA le uniche
forze di polizia che dipendano dal Presidente e dal Governo sono
quelle delle agenzie federali: FBI, DEA, Marshals
Service, eccetera. La
polizia locale (quella responsabile della morte di Floyd e di decine
di casi simili) dipende
dal Sindaco e in
seconda istanza dal
Governatore.
Ne
deriva che le proteste – se fossero state spontanee e non
telecomandate – non avrebbero dovuto prendere di mira il Presidente
degli Stati Uniti – il repubblicano Donald Trump – ma il Sindaco
di Minneapolis e il Governatore del Minnesota, che sono
rispettivamente i signori Jacob Frey e Tim Walz: guarda caso,
entrambi democratici.
É
evidente che si è trattato di una manovra organizzata dai potentati
che intendono impedire con ogni mezzo la rielezione di Trump. Lo
sfidante democratico che dovrebbe contrastare the
Donald è un
soporifero ex vice di Barak Obama, tale Joe Biden, assolutamente
privo di fascino e di mordente, incapace di coinvolgere la gente e di
suscitare un minimo di entusiasmo.
I
sondaggisti si affannano a sostenere che Biden è in vantaggio. Ma
sono gli stessi sondaggisti che avevano vaticinato la vittoria della
Clinton con 15 punti di distacco. E i giornali e le catene televisive
che fanno da grancassa ai sondaggi di oggi sono gli stessi che
giuravano sulla limpidezza dei sondaggi di ieri. In ogni caso, si
voterà il 3 novembre 2020 (pandemie varie permettendo), e Joe Biden avrà perciò tutto il tempo per
mostrare agli elettori di che pasta è fatto.
Ma
c’è un secondo motivo, più immediato, che sta dietro alle
proteste anti-Trump. É lo Spygate
che il Presidente USA si apprestava a far deflagrare quando –
provvidenzialmente per qualcuno – è arrivata l’uccisione
dell’afroamericano di Minneapolis. Lo Spygate
– se ne è parlato su “Social” del 29 maggio – potrebbe
trasformarsi da un momento all’altro in un Obamagate;
con la possibilità, addirittura, di vedere tradotto in giudizio l’ex
Presidente USA, con l’accusa di essere a capo di un complotto (con
ramificazioni italiane) per “fabbricare” le false accuse contro
Trump dell’ormai defunto Russiagate.
Se
lo Spygate/Obamagate
fosse esploso – e probabilmente esploderà comunque – sarebbe
crollato il castello di carte della manovra che i democratici stavano
(e stanno) preparando per evitare la rielezione di Trump: e cioè – è la mia personale opinione – la candidatura della moglie di Obama
come vicepresidente, in ticket
con Joe Biden.
La
discesa in campo della bella Michelle avrebbe un duplice obiettivo:
un’iniezione di carisma ad un candidato presidenziale che ne é del
tutto privo, ed una mobilitazione dell’elettorato nero. Infatti i
sondaggi – quelli che non trovano spazio sul “New York Time” o
sulla CNN – dicono che una fetta non trascurabile dell’elettorato
afroamericano sarebbe orientata a votare Trump, per garantire la
prosecuzione di una politica economica che ha creato milioni di posti
di lavoro. E – attenzione – questa tendenza potrebbe essere
rilanciata proprio nei mesi a ridosso delle presidenziali di
novembre: quando – attenuatisi gli effetti della pandemia –
Donald Trump metterà in campo tutta una serie di nuove misure
“sovraniste” che determineranno un rilancio dell’economia reale
americana ed una rapida riduzione della disoccupazione, tornata a
mordere nei mesi del Lockdown.
Ecco
il perché dello scatenamento di una protesta violenta oltre ogni
immaginazione, con interi quartieri mesi a ferro e fuoco, con
distruzione di beni pubblici e privati, e addirittura con un
“talebanismo” democratico che si é dato alla decapitazione delle
statue degli americani illustri. Talebanismo violento, cui è seguito
il talebanismo “moderato” dei potentati economici globalisti, con
appendici ridicole come quella del ritiro delle copie di “Via
col vento”.
Personalmente
non me ne sono meravigliato. Così come non mi sarei meravigliato se
Donald Trump fosse stato tolto di mezzo con una provvidenziale
fucilata. Come alcuni decenni or sono accadde a John Kennedy,
all’indomani del suo tentativo di togliere alle banche private il
monopolio dell’emissione del denaro pubblico [vedi «L’ordine
esecutivo no 11.110: forse Kennedy aveva visto giusto»
su “Social” dell’8 novembre 2013].
La
posta in gioco a novembre sarà altissima, mille volte maggiore
rispetto a quella di una elezione presidenziale “normale”. Il
popolo americano dovrà decidere se interrompere definitivamente il
processo di globalizzazione economica e di mondializzazione politica,
o se rassegnarsi alla resa ai poteri fortissimi che vogliono
distruggere gli Stati Nazionali e assoggettare tutti i popoli del
mondo al potere ricattatorio dell’alta finanza internazionale.
La
lotta è solamente agli inizi e sarà durissima, senza esclusione di
colpi. Prepariamoci ad altri colpi di scena.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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