“La legalità quale strumento dell’apartheid”. Il titolo dell’argomento a me assegnato è manifestamente paradossale, provocatorio, ermetico. L’ apartheid è un crimine contro l’umanità secondo la Convenzione internazionale del 1976 e l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. La legalità non può essere al servizio del crimine e suo strumento. Una legge o una sentenza sì: la sentenza si adegua alla legge e la legge nazionale non si adegua al diritto internazionale. Si crea così quella figura che, con un ossimoro, potremmo definire “crimine legale”. In epoca di sovranismo e di populismo giuridico e politico Israele ha gioco facile e c’è da chiedersi se non abbia avuto un ruolo decisivo nella degenerazione della complessiva situazione politica e giuridica. La domanda è retorica perché io credo, e non sono il solo, che certamente ha avuto un ruolo rilevante.
Procediamo schematicamente anche per rispettare il tempo concesso.
1°): lo Stato ebraico di Israele, così autodefinitosi sia nella dichiarazione di nascita nel 1948 sia nella legge del luglio 2018 (14ª Basic Law), persegue un progetto definito “genocidio incrementale” (Ilan Pappe) o anche “colonialismo di insediamento”, quella forma, cioè, di colonialismo che prevede non solo l’accaparramento delle terre e delle risorse di un popolo ma anche l’espulsione dei nativi. Questo progetto può essere definito criminale in senso tecnico giuridico perché viola tutti i principi basilari del diritto umanitario internazionale, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Convenzioni di Ginevra, pacificamente applicabili in Israele e nei Territori occupati come ribadito dall’Onu e dai Paesi firmatari.
2°): se il fine è criminale inevitabilmente anche i mezzi non possono non esserlo. Israele è responsabile di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. È stato accertato in molte sedi ed occasioni: rapporti Ziegler, Falck/Tilley, Goldstone, Human Rights Watch, Consiglio dei diritti umani, B’Tselem, Tribunale Russell etc.
3°): per questi crimini Israele è rimasto sempre impunito: se è intervenuta qualche condanna (da ultimo il Consiglio di sicurezza ONU con la risoluzione 2334 del dicembre 2016), mai è seguita una sanzione. Eppure il meccanismo delle sanzioni è largamente operativo. Attualmente sono colpiti da sanzione solo ad opera della Unione europea 25 Stati; lo strumento più usato è l’embargo, per dissenso o rispetto alla politica interna di un Paese ( si pensi a quello storico nei confronti di Cuba) o rispetto alla politica internazionale (si pensi a quello nei confronti della Russia per le vicende Crimea ed Ucraina). Mai nulla nei confronti di Israele, anzi con lo Stato ebraico i rapporti sono sempre più stretti: quelli economici, quelli militari, quelli accademici.
4°) come è possibile questo? Due strade percorre lo Stato ebraico: tacitare/ criminalizzare il dissenso; rafforzare il consenso.
A questo fine Israele dispiega tutta la sua potenza: politica ( tramite il genero di Trump, Kushner, finanziatore delle colonie, i coloni sono fisicamente presenti nella Casa bianca, oltre che nel governo di Israele con Casa ebraica); militare (si pensi al ruolo svolto dalla aviazione israeliana in Siria, prima con modalità clandestine poi in modo dichiarato); economica, ma, soprattutto, mediatica. La mistificazione della realtà è indispensabile per rendere accettabili i propri crimini, ove possibile per negarli. La parola d’ordine è “difesa”: Haganà vuol dire difesa; IDF è l’esercito “difensivo”; il muro è una barriera difensiva; una strage di innocenti si chiama “Margine protettivo” e così via. Il capolavoro è stato realizzato con la guerra dei sei giorni nel 1967. Ci fu all’epoca un largo schieramento a sostegno di Israele e della sua guerra “difensiva”. Ho qui una pagina della rivista Epoca di quell’anno con le firme di quelli che sono definiti democratici italiani, in calce a un appello a sostegno di Israele; cito i più noti : Nanni Balestrini, Natalino Sapegno, Lattuada, Monicelli, Lizzani, Rosi, Buttitta, Calvino, De Sica, Fellini, Tranfaglia, Citati, Argan, Gillo Dorfles, Montale, Cassola, Afeltra, Natalia Aspesi, Mursia, Valiani, Bobbio, Nuto Revelli, Inge Feltrinelli, Biagi, Camilla Cederna, Sciascia, Mario Soldati, Bocca, Marco Ramat, l’Unione italiana della Resistenza e tanti altri. Tuttora la vulgata corrente vuole che quella sia stata una guerra difensiva per anticipare sui tempi un imminente attacco dei Paesi arabi benché tre generali che vi parteciparono ( Peled, Weizman e Bar-Lev) abbiano dichiarato nel 1972 la verità e cioè che non vi era alcuna minaccia araba. È stata una Nakba atto secondo. La terza Nakba è in corso, lenta ma progressiva, basta vedere le famose quattro cartine geografiche. A proposito di Nakba, vi ricordo l’operazione in corso che tende a distruggere dagli archivi tutti i documenti a riprova dei crimini commessi.
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Lo scorso anno, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, è avvenuto un fatto importante: è stata approvata la legge sullo Stato nazione del popolo ebraico. Israele ha ritenuto maturi i tempi e favorevoli i rapporti di forza politici per uscire allo scoperto. Molto ha pesato l’elezione di Trump e l’affinità (intesa proprio come rapporto parentale) con i coloni tramite la conversione all’ebraismo di sua figlia e il conseguente matrimonio con Kushner. Non che Obama abbia mai fatto qualcosa contro Israele; ricordo che ha anche aumentato gli stanziamenti economici a suo favore ma quanto meno dimostrava di non avere in grande simpatia Netanyahu. Con un Trump che quattro giorni dopo la risoluzione 2334 definisce l’Onu “ un club dove le persone chiacchierano e si divertono” non c’è da stupirsi se la Basic law viola esplicitamente le risoluzioni Onu ( 181, 194,242,2334….) e il diritto internazionale. È il trionfo della sovranità nazionale sul diritto internazionale. Un crimine contro l’umanità come l’apartheid è legalizzato. Vari segnali avevano indicato che i tempi erano maturi: dal 30 marzo era in corso il cecchinaggio sulla Grande marcia del ritorno a Gaza senza alcuna reazione internazionale se non un timido accenno ad un uso sproporzionato della forza; il 14 maggio Trump aveva spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme contro il voto ONU del dicembre 2017. In sede giudiziaria da tempo, almeno dal 2013, si erano poste le basi con due sentenze dell’Alta corte: nel caso Uzzi Ornan si afferma che “il concetto che l’ebraismo non è solo religioso ma anche un’appartenenza nazionale è elemento fondamentale del sionismo”; nel caso dei beduini del Negev si dichiara legittimo il loro sradicamento per fare posto a insediamenti di “coloni ebrei etnicamente puri”. Parole che ci fanno rabbrividire riportandoci ad altra epoca. Tutto questo con buona pace di Shlomo Sand che nega l’esistenza stessa di un popolo ebraico; qui, invece, si parla addirittura di nazione ed etnia.
Cosa dice la legge?
- Israele è lo Stato nazione del popolo ebraico e il diritto di esercitare l’autodeterminazione è riservato esclusivamente al popolo ebraico. Israele quindi si autodefinisce uno Stato etnico razziale.
-L’articolo 3 dice che Gerusalemme integra ed unita è la capitale dello Stato, con buona pace dello status internazionale di Gerusalemme o della doppia destinazione ( Est e Ovest) a capitale dei due Stati.
-L’articolo 4 dice che la lingua araba non è più lingua ufficiale al pari dell’ebraico. È così declassata una lingua che da millenni risuona in quella terra.
-L’articolo 7 dice che lo sviluppo di insediamenti ebraici è un valore nazionale e Israele lo incoraggia e promuove. La conquista territoriale con la forza è dichiarata legittima, anzi un valore da promuovere. Il discrimine tra cittadini è dato dall’essere ebreo o no. Diverse le parole nel 1948 per essere accettato dall’Onu: libertà, giustizia, pace, uguaglianza di diritti sociali e politici senza distinzione di religione, razza o sesso, fedeltà ai principi della carta delle Nazioni Unite. Settant’anni dopo tutto è ribaltato, anche per iscritto. Gideon Levy ha scritto che con la legge è venuta meno l’ultima differenza dal Sudafrica dove l’apartheid era legalizzata. Non sono del tutto d’accordo con Levy: in Sudafrica la separatezza tra bianchi e neri era minuziosamente regolamentata. In Israele la separatezza tra ebrei e non ebrei no, almeno non ancora, anche perché il progetto sionista prevede, come detto, l’espulsione dei nativi, diversamente dal Sudafrica dove la manodopera nera era necessaria.
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Se è vero che i tempi per una siffatta legge erano maturi grazie ai rapporti di forza politici è pur vero che la fase era favorevole anche dal punto di vista giuridico. Il deterioramento dei nobili principi postbellici e del diritto internazionale nel suo complesso si era realizzato dagli anni ‘90. L’ultima guerra “legale” è stata la prima guerra del Golfo. Sono poi subentrati gli ossimori stravolgenti la realtà: guerra umanitaria, operazione di peacekeeping, esportazione di democrazia. L’ONU ha perso ruolo ed autorevolezza sì da giustificare la sarcastica definizione di Trump. L’impunità di Israele non è certo estranea a questo percorso ma non è il solo motivo. È la realtà di un mondo giuridico sovranazionale che viene contestata. Nel dicembre 2018 si è tenuto un convegno a Milano che è passato un po’ in sordina: vi hanno partecipato 25 illustri docenti universitari che il Corriere della Sera ha definito nel suo titolo “i professori dell’internazionale sovranista”. L’articolo riporta i contenuti del convegno e si leggono affermazioni virgolettate tipo: “il 20° secolo si è chiuso con la grande questione della libertà; il 21° si apre nel segno della sovranità”; “l’internazionalismo indebolisce gli Stati”. Si è giunti a criticare la Corte europea dei diritti dell’uomo per la sua incidenza sulla sovranità statale. Inutile dire che tra i relatori c’era anche tale Mordechai Kedar di Tel Aviv.
Se per il diritto internazionale si può parlare di “tentativo di smantellamento in corso”( si veda il libro di Robert Charvin, CETIM) per il diritto nel suo complesso si può parlare di tentativo di stravolgimento di ruolo e funzione. Nell’ultimo decennio sono stati coniati termini nuovi: lawfare, populismo penale, diritto propagandistico e simbolico. Pensiamo alla deriva dell’obbligo di soccorso in mare, uno dei più antichi doveri facente parte del diritto consuetudinario non scritto: è diventato in tempi recenti un diritto, quindi esercitabile o meno, poi un crimine. Così abbiamo una omissione di soccorso stradale che è reato ed invece in mare è il soccorso ad essere reato. Su questo tema Luigi Ferraioli ha scritto: “Prima la violazione dei diritti umani era occultata, ora è sbandierata come fonte di consenso. È populismo penale: uso demagogico e congiunturale del diritto penale per alimentare la paura”. Quindi, aggiungo io, per perseguire finalità politiche. Stessa finalità del diritto penale simbolico e propagandistico: acquisire consenso con norme ad effetto promozionale, vere e proprie norme spot. Passaggio obbligato di queste norme è naturalmente l’aumento delle pene per soddisfare la crescente voglia di forca che si è voluto diffondere.
Ancora più attinente al tema che ci occupa è il concetto di lawfare. Il termine può essere tradotto in vari modi: abuso della legge per raggiungere fini militari e politici; l’uso del diritto come arma di guerra.
In quel bel libro che è “Il diritto umano di dominare” di Nicola Perugini e Neve Gordon, edizioni Nottetempo, gli autori ricordano che un rapporto del 2010 del ministero degli affari esteri israeliano denuncia “la strategia per delegittimare Israele tramite cornici legali e sfruttando forum giuridici.. .. La guerra giuridica è la continuazione dell’attività terroristica con altri mezzi”. Non a caso l’adesione della Palestina alla Corte penale internazionale è stata vista come un atto di guerra ed altrettanto la denuncia contro i crimini di Israele presentata e tuttora pendente davanti alla Procura di quella Corte.
Proprio coloro come Israele che attaccano il diritto però poi vi fanno ricorso. Non c’è contraddizione perché loro sì fanno ricorso alla legge per finalità politiche e propagandistiche. Ne sono esempi il disegno di legge anti BDS, la legge con l’aggravante Shoah e, sul fronte non legislativo ma della mera propaganda, l’inserimento di Bartali tra i Giusti tra le nazioni e la medaglia d’oro conferita alla brigata ebraica. Partiamo da queste due operazioni di mera propaganda. L’operazione Bartali e Giro d’Italia (ricordate le tre tappe israeliane?) sono uno splendido esempio di manipolazione storica a fini propagandistici. L’esistenza di prove certe sull’attività a favore degli ebrei da parte di Bartali è stata contestata anche da autorevoli personalità ebraiche: è stato reso pubblico il contrasto sul tema tra Michele Sarfatti (che è stato dal 2002 al 2016 direttore del CDEC, Centro di documentazione ebraica contemporanea), e Sergio Della Pergola, membro della commissione per i Giusti tra le nazioni (non nel caso di Bartali). Bartali però era indispensabile per giustificare le tappe israeliane. 12 milioni di euro sono stati versati a RCS dal governo di Israele e da uno sponsor ebreo ma sono stati ben spesi se l’8 maggio, pochi giorni prima del 70º della nascita dello Stato e dello spostamento dell’ambasciata USA, il Corriere della Sera può titolare: “Grazie al Giro d’Italia 1 miliardo di persone ha visto un’altra Israele”.
Meno clamorosa l’operazione brigata ebraica ma ugualmente significativa. In estrema sintesi: la brigata ebraica è inquadrata nella ottava armata britannica nel settembre 1944 ma è operativa solo a marzo/aprile 1945. Partecipa a qualche combattimento in zona Ravenna. Ben poca cosa rispetto ai moltissimi ebrei (1000 ebbero il certificato di partigiano combattente) che hanno combattuto dal 1942 nel Palestine Regiment insieme ai palestinesi (12.446 complessivamente i palestinesi). Altri ebrei hanno combattuto nelle formazioni partigiane, prevalentemente quelle di Giustizia e libertà, altri sono stati comandanti militari della Resistenza a Parigi. La brigata ebraica nasce, invece, già come operazione di propaganda. Nonostante la sua ridotta attività militare nel 2018 ( la legge è del 2017) addirittura le viene conferita la medaglia d’oro al valore militare. Perché? perché dal 2004 il 25 aprile a Milano le bandiere israeliane sfilavano nel corteo cittadino con il pretesto del ricordo della brigata. Da subito questa presenza è stata oggetto di contestazione. Gli “Amici di Israele” promotori della iniziativa motivavano così: “è importante spiegare agli italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile, giusto”. Per meglio contrastare i contestatori si è giunti al conferimento della medaglia. Così come non si è troppo indagato su Bartali, così non si va per il sottile per la brigata e pur di concedere la medaglia si deroga al codice di ordinamento militare. Tutti sono d’accordo trasversalmente come sempre avviene con Israele e tra i firmatari troviamo destra e sinistra: Quartapelle, Fiano, Cicchitto, Scotto.
Ma veniamo alle vere e proprie leggi. Una, quella che ho definito sinteticamente “aggravante Shoah”, ha una finalità prevalentemente propagandistica. L’altra, il disegno di legge anti BDS , unisce alla finalità propagandistica quella repressiva. La legge numero 115 del giugno 2016 sul negazionismo e sulla istigazione all’odio razziale prevede un aumento di pena rispetto all’articolo 3 della legge 654 del ‘75 e alla legge Mancino quando la negazione o l’istigazione all’odio riguardano la Shoah. È fatto espressamente il nome “Shoah” così come, vedremo, si farà il nome “BDS” nel disegno di legge relativo. In termini tecnico giuridici è da denunciare la palese violazione di un principio fondamentale: quello di astrattezza della norma; la norma giuridica non deve fare riferimento a uno specifico evento. Ma c’è di più: l’aggravante fa già riferimento al reato di genocidio ed è indubbio che la Shoah sia stato un genocidio. Perché quindi citare il nome del genocidio ebraico? Sia giuristi ( ad esempio Giuseppe Puglisi, ma anche l’Unione delle camere penali italiane) sia storici hanno denunciato che è una norma accentratrice di consensi, in altri termini una norma propagandistica, una norma spot.
Discorso analogo, ma con implicazioni più gravi, può essere fatto per il disegno di legge anti BDS. Pende in Senato dall’agosto 2015, ne sono firmatari 10 senatori, otto di destra, due del PD. Quasi tutti i firmatari sono giuristi tranne due qualificati nei loro profili come imprenditore uno e agricoltore l’altro (questi due hanno perlomeno l’attenuante dell’ignoranza giuridica, probabilmente). La relazione alla legge inizia con queste parole: “Il movimento BDS….”. È quindi una legge “ad movimentum”, con buona pace delle care vecchie leggi ad personam di berlusconiana memoria. Nella relazione si parla di retorica antisionista e antisemita senza distinzione tra i due termini, riprendendo lo sdoganamento della equiparazione di Napolitano e anticipando la sconcia campagna di questi ultimi tempi. Si parla anche di “Stato ebraico” anticipando la Basic law della Knesset. Il titolo della legge è “Norme contro le discriminazioni” ma tende a tutelare uno Stato discriminatorio. Rispetto alla propaganda del boicottaggio la relazione ricorda quella odiosa fascista e nazista (“non comprate dagli ebrei”) ma si guarda bene dal ricordare quella contro il razzismo sudafricano o contro i boicottatori dei neri in USA. Particolarmente gravi e pericolose nella legge sono le presunzioni “ juris et de jure”, cioè la previsione di quei comportamenti che integrano il reato senza possibilità di prova contraria. Sono punite singole condotte ma anche la mera partecipazione ad associazioni, gruppi o movimenti. Particolarmente pericoloso il riferimento al concetto di ”movimento” estremamente generico rispetto a fattispecie più facili da inquadrare e definire, come ad esempio la banda armata o l’associazione eversiva. Le pene previste giungono sino a sei anni per i dirigenti.
Si criminalizza così uno strumento tra i più pacifici mai ideati. Vi è peròi la cosiddetta riserva Onu nel senso che il boicottaggio ( embargo, sanzioni….) può essere deliberato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Significativo che non abbia analogo potere l’Assemblea generale (probabilmente i relatori si sono ricordati della famosa definizione di sionismo come forma di razzismo adottata dalla Assemblea generale nel 1975). Il boicottaggio che non è ammesso, anzi è un crimine, è quello di iniziativa popolare.
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Veniamo all’ultimo argomento: la distinzione tra antisionismo e antisemitismo. Sul sionismo, si è detto, ci sono pareri opposti: valore alto nobile e giusto per gli Amici di Israele; genocidio incrementale, progetto a vocazione genocidiaria, colonialismo di insediamento, insomma crimine contro l’umanità per altri. Vorrei ricordare anche la definizione di Tolstoj che risale al 1905, quindi a cavallo tra il congresso di Basilea e la dichiarazione Balfour: ” il sionismo è la negazione di tutto quello che abbiamo di sacro nella vita”. Chi come me condivide questa seconda interpretazione vede nell’antisionismo una pratica doverosa in difesa della legalità e della umanità. L’antisemitismo, invece, non è altro che una forma di razzismo, quindi da condannare e combattere. Distinguere tra antisionismo e antisemitismo è in realtà molto facile. Equiparare i due termini è il top della mistificazione. Perché è facile? Perché dell’antisemitismo abbiamo anche una definizione ufficiale coniata dall’IHRA (Alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto) il 26 maggio 2016 a Bucarest: “ L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei e/o ai loro beni, contro le istituzioni comunitarie ebraiche e altri edifici ad uso religioso”. Segue un lungo elenco esemplificativo di comportamenti antisemiti. Emerge subito alla mera lettura che nessuno di questi esempi attiene al BDS e, in generale, al movimento di solidarietà con la Palestina.
La legge sullo Stato nazione, successiva alla definizione, pone qualche delicato problema perché la definizione dell’IHRA contiene anche il seguente passaggio: “queste manifestazioni possono avere come bersaglio lo Stato di Israele concepito come collettività ebraica”. Israele si definisce ora per legge Stato ebraico, è Stato di tutti gli ebrei. Che ne è delle critiche alle sue politiche, prime fra tutte l’apartheid e l’occupazione? È mai possibile che siano contrabbandate come manifestazione di antisemitismo e non come legittime critiche politiche basate, peraltro, su prove inconfutabili ( quelle che, non a caso, Israele sta facendo sparire)? Evidentemente no. E’ la stessa IHRA a precisare che “ le critiche mosse a Israele simili a quelle di qualsiasi altro Paese non possono essere considerate antisemitismo”. Tra gli esempi di antisemitismo ve ne è uno interessante: ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele. Noi siamo sempre stati a fianco degli ebrei antisionisti, spesso i più feroci critici delle politiche di Israele, che è il loro stesso Stato quando la critica proviene da ebrei israeliani. Non sono forse ebrei Richard Falck, Goldstone, Finkelstein, Shlomo Sand, Chomsky e tanti altri strenui oppositori delle politiche israeliane? ed anche quelli di ECO ( ebrei contro l’occupazione), e di “ Not in my name”. Costoro non si sentono rappresentati dallo Stato di Israele. Nel 2015 una organizzazione ebraica israeliana (SISO: save Israel,stop occupation) per bocca di Daniel Bar- Tal, docente dell’Università di Tel Aviv, ha detto: “ Come ebrei che hanno a cuore la propria identità ebraica e sono legati a Israele, dobbiamo tutti partecipare alla lotta per salvare Israele dalle spinte nazionalistiche, antidemocratiche, razziste e xenofobe al suo interno”. Da allora la situazione è solo peggiorata. L’apartheid è stata legalizzata. L’occupazione è stata promossa e valorizzata. Si parla di annessione della Cisgiordania. La ministra della giustizia Shaked ha definito l’uguaglianza “un pericolo per lo Stato ebraico” e ha definito il BDS ”il nuovo volto del terrorismo”. Zeev Sternhell ha detto: “In Israele cresce non solo un fascismo locale ma anche un razzismo vicino al nazismo ai suoi esordi”.
Criticare le politiche israeliane e il sionismo è un diritto e un dovere e nulla ha a che vedere con l’antisemitismo. In Italia alcuni giudici chiamati ad occuparsi del tema se ne sono dimostrati ben consapevoli. Il Tribunale di Vercelli, nel processo contro due giovani che avevano esposto sulla cancellata della locale sinagoga uno striscione con la scritta “Stop bombing Gaza, sionisti assassini, free Palestine” durante la strage a Gaza del 2014, ha scritto, assolvendo gli imputati:” ….lo striscione non solo non contiene alcun riferimento al popolo ebraico ma nemmeno esprime un messaggio razzista o discriminatorio…nei confronti del popolo israeliano, facendo invece espresso riferimento a una specifica condotta ( il bombardamento su Gaza) chiaramente riconducibile non agli israeliani in quanto etnia ma allo stato e alla sua politica”. In altro caso il GIP di Genova, in una ordinanza di archiviazione che respingeva l’opposizione della Comunità ebraica di Roma, ha scritto:” Non emerge mai la propalazione di espressioni od argomenti che abbiano di mira la religione o la cultura ebraica in quanto tale o l’essere appartenenti al popolo ebreo, in modo da essere assimilabili alla propaganda antisemita di matrice nazifascista ( a meno di non voler identificare la cultura e la religione ebraica con l’attuale politica israeliana in Medioriente), quanto piuttosto la manifestazione, con toni indubbiamente accesi, di dissenso rispetto alle linee di attuale azione politica nei territori palestinesi e nella striscia di Gaza”.
Io però sono preoccupato quando la parola passa ai giudici in una materia in cui è ampia la discrezionalità col rischio, quindi, che sulla legge prevalga l’orientamento soggettivo del giudice. La questione è politica e va affrontata in ambito politico.
Ugo Giannangeli
Dibattito del 26 settembre 2019 al Circolo della Stampa di Trieste con Stephanie Westbrook, David Cronin e Ugo Giannangeli. - Trascrizione dell’intervento di Ugo Giannangeli: “La legalità quale strumento dell’apartheid”.