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mercoledì 18 febbraio 2015
Libia - Con il petrolio non si spegne il fuoco...
La guerra che divampa in Libia miete sempre più vittime non solo sulla
terra ma sul mare:. molti dei disperati, che tentano la traversata del
Mediterraneo, annegano. «Da sotto il mare ci chiedono dove sia finita
la nostra umanità», scrive Pier Luigi Bersani. Dovrebbe anzitutto
chiedersi dove sia finita la sua umanità, e con essa la sua capacità
etica e politica,, quando, il 18 marzo 2011 alla vigilia della guerra
Usa/Nato contro la Libia, in veste di segretario del Pd, esclamava
«alla buon’ora» , sottolineando che «l’articolo 11 della Costituzione
ripudia la guerra, non l’uso della forza per ragioni di giustizia».
Enrico Letta, che con Bersani si appella ora al senso umanitario ,
dovrebbe ricordarsi quando il 25 marzo 2011, in veste di
vicesegretario del Pd, dichiarava «Guerrafondaio è chi è contro
l'intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo
costruttori di pace».,.
Una «sinistra» che nascondeva le vere ragioni – economiche, politiche
e strategiche – della guerra, sostenendo per bocca di Massimo D’Alema
(già esperto di «guerra umanitaria» in Jugoslavia) che «in Libia la
guerra c’era già, condotta da Gheddafi contro il popolo insorto, un
massacro che doveva essere fermato» (22 marzo 2011).
Sostanzialmente sulla stessa linea perfino il segretario del Prc Paolo
Ferrero che, il 24 febbraio 2011 a guerra iniziata, accusava
Berlusconi di aver messo «giorni per condannare le violenze di
Gheddafi», sostenendo che si doveva «smontare il più in fretta
possibile il regime libico». Lo stesso giorno, giovani «comunisti» del
Prc, insieme a «democratici» del Pd, assaltavano a Roma l’ambasciata
di Tripoli, bruciando la bandiera della repubblica libica e issando
quella di re Idris (la stessa che sventola oggi a Sirte occupata dai
jihadisti, come ha mostrato il Tg1 tre giorni fa).
Una «sinistra» che scavalcava la destra, spingendo alla guerra il
governo Berlusconi, all’inizio restio (per ragioni di interesse) ma
subito dopo cinico nello stracciare il Trattato di non-aggressione e
nel partecipare all’attacco con basi e forze aeronavali.
In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettuava 10mila missioni di
attacco, con oltre 40mila bombe e missili, mentre venivano infiltrate
in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani, e
allo stesso tempo finanziati e armati gruppi islamici fino a poco
prima definiti terroristi. Tra cui quelli che, passati in Siria per
rovesciare il governo di Damasco, hanno fondato l’Isis e quindi invaso
l’Iraq.
Si è così disgregato lo Stato libico, provocando l’esodo forzato – e
di conseguenza l’ecatombe nel Mediterraneo – degli immigrati africani
che avevano trovato lavoro in questo paese. Provocando una guerra
interna tra settori tribali e religiosi, che si combattono per il
controllo dei campi petroliferi e delle città costiere, oggi in mano
principalmente a formazioni aderenti all’Isis.
Il ministro degli esteri del governo Renzi, Paolo Gentiloni, dopo aver
ribadito che «abbattere Gheddafi era una causa sacrosanta», lancia
l’allarme perché «l'Italia è minacciata dalla situazione in Libia, a
200 miglia marine di distanza». Annuncia quindi che giovedì riferirà
in Parlamento sull'eventuale partecipazione italiana a un intervento
militare internazionale «in ambito Onu». In altre parole, a una
seconda guerra in Libia presentata come «peacekeeping», secondo quanto
già richiesto da Obama a Letta nel giugno 2013, caldeggiata dalla
Pinotti e approvata da Berlusconi.
Siamo di nuovo al bivio: che posizione prenderanno quanti lavorano per
creare una nuova sinistra e, al suo interno, l’unità dei comunisti?
Manlio Dinucci
(il manifesto, 17 febbraio 2015)
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