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venerdì 19 settembre 2014
USA e mondo - La dottrina della guerra continua...
Nel 2001 un barile di petrolio costava sul mercato mondiale circa 24
$, a metà del 2007 raggiunse i 70 $, nel 2008 toccò i 147 $ , toccando
in soli 7 anni il 600% del prezzo iniziale (vedasi, ad es: "Jeremy
Rifkin, The third industrial revolution"). Naturalmente questi
aumenti, precedentemente imprevisti da analisti evidentemente
superficiali, si riflettono su tutta la catena dei prezzi, entro una
economia tutta fondata e ancora vincolata agli idrocarburi. Negli anni
'90 i pianificatori governativi statunitensi hanno commesso il grave
errore di ridurre la ricerca e sviluppo delle energie alternative agli
idrocarburi, sotto la direzione di amministrazioni in mano a politici
provenienti dall'ambiente economico petrolifero (vedasi, ad es: "John
Perkins, Confessions of an economic hit man"), il che li ha condotti
alla pianificazione di un ciclo di guerre per impadronirsi dei
principali paesi produttori di petrolio sul pianeta, come confermato,
ad esempio, dalle dichiarazioni del generale Wesley Clarck (piano per
la conquista di 7 stati petroliferi in 5 anni).
Grazie all'enorme spesa di bilancio militare, l'esercito statunitense
sa come vincere la guerra, ma il suo paese non sa come vincere la
pace, alla quale non riesce mai a dare alcun assetto stabile,
precipitando nel continuo costosissimo (per i contribuenti, oltre che
per il pianeta) circolo vizioso della guerra come strumento di
sopravvivenza.
Ben sapendo che un paese di 300 mln di abitanti non può in alcun modo
controllare militarmente un mondo di 7 mld di individui, negli anni
'70 Jimmy Carter elaborò la dottrina delle guerre regionali per
procura, ovvero affidate a corpi armati esterni, sia eserciti di
alleati sia bande armate appositamente costituite, di cui i miliziani
talebani, Al Quaeda ed Isis sono le più note (tutte creature originali
Usa, ma non le uniche). Le alleanze tuttavia sono per loro natura
instabili, poiché soggette alla variabilità degli interessi in gioco,
come bastano a dimostrare le storie dei gruppi appena ricordati,
riguardo la cui posizione è irrilevante la "cultura islamica"
(questione propagandistica ad effetto per suggestionare le masse
occidentali intorno all'idea fallace di un pericoloso nemico
ideologico), mentre pesa molto il controllo dei flussi di idrocarburi.
Nel caso dei talebani l'alleanza e il voltafaccia dipesero dal
controllo del progettato gasdotto che avrebbe dovuto attraversare
l'Afghanistan, sul quale si ruppe l'iniziale alleanza con Clinton,
Osama Bin Laden ruppe con gli Usa, assieme alla sua fazione di Al
Quaeda (ma non tutta!) sull'occupazione e controllo statunitense
dell'economia dell'Arabia Saudita, ed Isis ha cambiato posizione da
quando la denuncia internazionale per furto di petrolio dell'Irak
nordoccidentale da parte del governo di Baghdad (Al Maliki) ha
sottratto lo sbocco degli acquirenti Chevron, Hess e Total, che non
vogliono essere coinvolti nella questione giuridica, sicchè Isis ha
dovuto chiudere l'oleodotto verso il Kurdistan (attraverso cui
commerciava con Israele, Europa ed Usa) e riaprire quello verso la
Siria, considerata però avversaria da Washington per la sua
indipendenza sovrana monetaria e bancaria (che la rende inattaccabile
alle politiche fraudolente dell'Fmi), sicché l'Isis si è trasformata
da alleato (nell'ambito del piano di spartizione dell'Irak in tre
stati più piccoli) a nuovo nemico da combattere (cfr: Tierry Meyssan,
Voltaire diplomatique, 23.06.14).
Combattere in che modo e con chi ?
Finora il complesso e perennemente instabile gioco di costruzione di
alleanze ed eserciti è stato affrontato, pur con perenni enormi
difficoltà, da Washington utilizzando la grande capacità di spesa che
le viene fornita dagli interessi derivanti dal monopolio sulla moneta
di scambio internazionale, che è stata il dollaro, fin dai tempo degli
accordi dell'immediato dopoguerra a Bretton Woods. Ma sono passati più
di sessant'anni, e dopo la fine del gold standard (che gli Usa
fingevano di garantire, fino alla caduta del bluff di fronte alle
richieste di rimborso francesi del 1971) ora sta cadendo anche il
monopolio del dollaro (che già l'Irak di Saddam Hussein aveva cercato
di aggirare, pure rifiutando il prestiti forzosi Fmi, veri motivi
della guerra del Golfo), da quando Russia, Cina ed India stanno
costituendo un nuovo fondo monetario Eurasiatico alternativo all'Fmi,
che dovrebbe basarsi sulla nuova moneta "doppia aquila".
Ancora una volta, dunque, le difficoltà di un piccolo paese come gli
Stati Uniti nel tentativo di assicurarsi il controllo economico,
finanziario e politico del mondo per sostenere la propria posizione
parassitaria si scontrano con la perenne impossibilità di un
equilibrio stabile, specialmente dovendolo appaltare in gran parte ad
alleati che risultano necessariamente imprevedibili per la variabilità
dei loro interessi.
Il tutto conduce alla tradizionale irrisolvibilità del problema
politico di garantire il controllo di pochi sui molti, che ha sempre
generato continui aumenti di spesa gestionale per ogni impero,
segnandone progressivamente il declino e la fine, fin dai tempi
dell'Impero Romano ed anche prima.
La percentuale di spesa di gestione aumenta molto rapidamente con la
crescita di dimensioni di un macrosistema, il che, unitamente
all'interesse predatorio capitalista, costringe alla espansione
continua, che amplifica la necessità di servirsi di alleanze regionali
che complicano ulteriormente le difficoltà di gestione.
La storia umana, infatti, non ha mai retto molto a lungo le pretese di
stabilità dei grandi imperi, che finiscono per frantumarsi sotto il
peso crescente di contraddizioni irrisolvibili.
Le vie di uscita possibili in realtà passano proprio attraverso la
accettazione della ineluttabilità di frantumazione, che può venire
gestita attraverso la sostituzione del centralismo con il localismo
economico e finanziario.
Non è vero sia necessaria una moneta unica per gli scambi
internazionali, potendo in realtà ogni nazione scegliere a quale
moneta fare riferimento, salvo esserne impedita con la forza militare
(la quale, però,per ovvi motivi non è applicabile contro le potenze
nucleari).
Non è vero sia necessario insistere con la politica energetica degli
idrocarburi (dei quali abbiamo, con l'inizio del XXI secolo, superato
il picco di estrattività mondiale), essendo disponibili molte vie di
sviluppo ed espansione di fonti energetiche rinnovabili a
disponibilità localmente diffusa.
La dirigenza statunitense degli ultimi trent' anni finge di non sapere
queste cose, ma non ha modo di evitarne le conseguenze nella realtà.
Se non saranno nuove scelte politiche consapevoli, sarà, col tempo, la
dura necessità a costringere europa e nordamerica a cambiare
radicalmente i propri assetti economici, energetici e politici.
Più insisteranno nell'impiego di vecchi modelli irrealistici, più
perderanno l'occasione di arrivare presto e bene, costringendosi a
giungere tardi e male allo stesso esito conclusivo.
Vincenzo Zamboni
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