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mercoledì 11 luglio 2012
Afghanistan e la guerra per l'oppio americano - "Il papavero era anche un fiore"
Bisogna sgombrare innanzitutto la mente da quanto ci ripetono quotidianamente giornali e tv italiani sull’Afghanistan e sugli obiettivi della guerra condotta contro i Talebani, trattandosi null’altro che di propaganda propalata a piene mani dagli uffici stampa dei vari stati maggiori degli eserciti occidentali lì impegnati e direttamente “interessati” a “coprire” mediaticamente un’occupazione che si protrae ormai da più di 10 anni.
La droga: la storia del traffico di droga in Asia Centrale è intimamente collegata con le operazioni coperte delle CIA. Prima della guerra sovietico-afghana, la produzione di oppio in Afghanistan e Pakistan era diretta ai piccoli mercati regionali. Non vi era una produzione locale di eroina. A tal riguardo, lo studio di Alfred McCoy conferma che in due anni di operazioni della CIA in Afghanistan, “la zona di confine Pakistan-Afghanistan divenne il maggior produttore mondiale di eroina, fornendo il 60% della domanda USA. In Pakistan, la popolazione eroinomane passò da zero del 1979, al 20% della popolazione nel 1985 – il tasso di incremento più alto di qualsiasi altra nazione.
Gli agenti della CIA controllavano tale commercio. Quando i mujahidin occupavano un territorio in Afghanistan, essi ordinavano ai contadini di coltivare il papavero come forma di tassa rivoluzionaria. Attraverso il confine con il Pakistan, i leader afghani e i gruppi locali, sotto il controllo dell’Intelligence del Pakistan, operavano centinaia di laboratori dell’eroina. Durante questo decennio di operazioni di gestione dell’eroina su ampia scala, la DEA (la US Drug Enforcement Agency) di Islamabad non riuscì a imporre maggiori misure di controllo agli ufficiali USA, che s’erano rifiutati di investigare sui carichi di eroina gestiti dai loro alleati, ‘poiché la politica sul narcotraffico USA in Afghanistan era subordinata alla guerra antisovietica.’.
Nel 1995 l’ex direttore della CIA per le operazioni afghane, Charles Cogan, ammise che la CIA aveva sacrificato la guerra alla droga per combattere la guerra fredda. ‘La nostra missione principale era di arrecare il maggior danno possibile ai sovietici. Non avemmo mai le risorse o il tempo di dedicarci all’investigazione del traffico di armi, e non credo che ci dobbiamo rammaricare di questo. Ogni situazione ha le sue conseguenze (…) era una conseguenza in termini di droga, sì. Ma l’obiettivo principale era stato raggiunto. I sovietici avevano lasciato l’Afghanistan”.
Dopo la ritirata delle truppe sovietiche, entrambe le parti nella guerra civile dell’Afghanistan continuarono a ricevere appoggio occulto da parte dell’ISI. In altre parole, appoggiato dall’intelligence militare del Pakistan, che era a sua volta controllato dalla CIA, lo Stato islamico dei Talibani servì largamente gli interessi geopolitici degli USA. Il commercio della droga della Mezzaluna d’oro è stato, inoltre, usato per finanziare ed equipaggiare l’esercito musulmano bosniaco (dagli inizi degli anni ’90) e l’UCK albanese in Kosovo. Negli ultimissimi mesi, vi fu la prova che i mercenari mujahidin combattevano nelle fila dell’UCK, durante gli assalti terroristici contro la Macedonia. Senza dubbio, ciò spiega perché Washington abbia chiuso i suoi occhi sul regno di terrore imposto dai taliban e la lampante violazione dei diritti delle donne, la chiusura delle scuole per le bambine, il licenziamento delle impiegate dagli uffici del governo e il rafforzamento della legge delle punizioni della Shari’a”(1).
Dopo la rottura dell’alleanza Taliban – Stati Uniti – esiste a questo proposito il film-documentario di Michael Moore “Fahrenheit 9/11” che mostra “simpaticamente” la delegazione talebana in Texas a parlare dell’oleodotto voluto dall’Unocal (della quale l’attuale Presidente afghano Hamid Karzai era consulente) – gli studenti delle madrase coraniche interruppero per ritorsione la produzione di droga del paese, praticamente azzerandola.
E’ soltanto dopo l’invasione voluta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nel 2001, che la produzione di oppio, poi trasformata in eroina, riprende vigore e trasforma l’Afghanistan nuovamente nel narcostato mondiale per eccellenza (90% circa dell’eroina oggi circolante nel mondo è di provenienza afghana).
La “politica della droga”, perseguita coscientemente dalle varie amministrazioni a stelle e strisce da diversi decenni, ottiene due risultati fondamentali: alimentare i flussi finanziari delle principali borse mondiali, City e Wall Street innanzitutto, specie dopo la crisi economica del 2008; avere a disposizione una quantità enorme di denaro da riciclare nell’addestramento e nel finanziamento delle milizie utili a combattere le guerre che la NATO non riesce ad affrontare direttamente e a destabilizzare i paesi ostili agli USA.
L’elenco dei “clienti” è impressionante: si va dall’ala reazionaria e capitalistica di destra del Kuomintang, guidata da Chiang Kai-shek, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale contro Pechino, che non a caso operavano nel “triangolo d’oro” della droga birmano, per proseguire con i “Contras” in Nicaragua (in funzione anti-sandinista), una triangolazione (nota come “Iran-Contras”) che tramite Israele permise agli Stati Uniti di rifornire di armi l’Iran e di impedire una vittoria irachena nella guerra fratricida 1980-89, fino al caso dell’appoggio ai ceceni contro la Russia o a quello balcanico in cui croati e musulmani bosniaci furono “foraggiati” contro la Serbia.
La stessa decantata “primavera araba” è servita essenzialmente a inaugurare nuove vie di accesso della droga in Europa e di incamerare i capitali necessari a finanziare l’integralismo “islamico” (di matrice wahabita o salafita) contro Gheddafi in Libia e contro Assad in Siria.
Capitolo petrolio: “Al centro della partita ci sono due lunghi serpenti d’acciaio che dovrebbero tagliare in due l’Afghanistan. In uno, viaggeranno ogni giorno un milione di barili di greggio proveniente dai giacimenti dell’ex URSS, nel secondo correrà il gas che sgorga dai giacimenti di Dauletabad in Turkmenistan. Due arterie strategiche per rendere accessibile alle grandi compagnie petrolifere americane le immense riserve di idrocarburi dell’Asia centrale.
Un tesoro immenso che ha un solo handicap: la distanza dai mercati. La soluzione? John J. Maresca, vicepresidente delle relazioni internazionali di Unocal Corporation, una delle principali compagnie mondiali nel campo delle risorse energetiche e dei progetti, la indicò chiaramente il 12 febbraio 1998 davanti al sottocomitato del Congresso degli Stati Uniti per l’Asia e il Pacifico. Maresca dettò alcune linee guida: 1. Bisogna guardare ad est (Asia Centrale e Oceano Indiano) dove entro il 2010 raddoppierà la richiesta di petrolio. 2. Partendo dai giacimenti della regione del Mar Caspio (Turkmenistan in primis) non si può passare da sud perché l’Iran non permetterebbe il passaggio di un progetto in cui sono coinvolte compagnie americane. Inoltre non si può passare da est perché per raggiungere la Cina centrale e poi la costa pacifica servirebbero oleodotti per oltre 5000 km e sarebbe troppo costoso.
3. “L’unico altro itinerario possibile è attraverso l’Afghanistan – dice il vicepresidente di Unocal – ma il Paese è coinvolto in aspri scontri da quasi due decenni, ed è ancora diviso dalla guerra civile. Fin dall’inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non si sarà insediato un governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia. Noi chiediamo all’Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti”.
Nel 1995 – spiega lo scrittore pakistano Ahmed Rashid nel suo recente libro “Talebani, Islam Petrolio e il grande scontro in Asia centrale” – dopo che i Talebani hanno conquistato Herat e cacciato dalle scuole migliaia di ragazze, non c’è stata una sola parola di critica da parte degli Stati Uniti. I dirigenti Talebani dopo la presa del potere vengono accolti con favore negli Usa e loro rappresentanti volano in Texas dall’allora governatore Bush, dove incontrano i dirigenti dell’Unocal che fanno loro un’offerta precisa riguardo all’oleodotto: una fetta dei profitti pari al 15%. Ma ci sono alcune condizioni da rispettare.
Il racconto di quella mediazione lo si trova in un libro (Ben Laden, la vérité interdite, di Brisard e Dasquiere). Intanto Bush cerca di favorire il negoziato promuovendo la nascita del cosiddetto gruppo dei 6+2 (i paesi confinanti con l’Afghanistan più Usa e Russia).
Gli americani non esitano ad usare anche le maniere forti. A raccontare come è l’ex ministro degli esteri del Pakistan il signor Naif Naik che, in un’intervista televisiva trasmessa in Francia, racconta che nel corso della riunione del “Gruppo” a Berlino, tra il 17 e il 20 luglio, l’ambasciatore statunitense Thomas Simons spiega quale potrebbe essere l’alternativa: se i Talebani non si comportano come si deve, e il Pakistan fallisse nel suo intento di farli comportare come si deve, Washington potrebbe ricorre ad un’altra opzione: quella militare. Brisard e Dasquieré riferiscono una battuta assai esplicita. “Ad un certo punto i rappresentati americani dissero ai Talebani: o accettate la nostra offerta di un tappeto d’oro, o sarete sepolti da un tappeto di bombe”.
L’ultimo incontro tra emissari Usa e Talebani avviene il 2 agosto 2001, 39 giorni prima dell’attacco alle Torri. È Cristina Rocca, direttrice degli affari asiatici del Dipartimento di Stato ad incontrare a Islamabad l’ambasciatore Talebano in Pakistan. Kabul respinge definitivamente la proposta americana. La parola passa alle armi. Il 10 settembre 2001 veniva messo sulla scrivania di Bush un dettagliato piano di attacco militare, preparato dalla CIA, per colpire al Qaeda in Afghanistan con il massiccio supporto della NATO, per essere firmato dal Presidente di rientro dalla Florida. Il mattino seguente cadevano le torri gemelle(2).
Geostrategia: Oltre a colpire l’Europa, “la politica della droga” afghana ha provocato gravissimi problemi interni ai due avversari eurasiatici degli Stati Uniti: la Russia e la Cina. Viktor Ivanov, Capo del Servizio Federale russo anti-droga ha più volte tuonato contro il Governo di Kabul e i suoi protettori di Washington, accusandoli non solo di essere coinvolti direttamente nel traffico di stupefacenti ma di non voler distruggere con i bombardamenti i laboratori di droga e le piantagioni di papavero afghane. Secondo Ivanov «muoiono ogni anno per uso di stupefacenti 30.000 persone, mentre nell’intera Europa ne muoiono circa 10.000» e dei 2,5 milioni di tossicodipendenti in Russia, il 90% «usa eroina di produzione afghana. Consumiamo la quinta parte di tutta l’eroina prodotta in Afghanistan» ha poi aggiunto, sottolineando che Mosca è pronta a guidare una grande coalizione internazionale per debellare il narcotraffico.
L’Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del continente eurasiatico, in una posizione strategica che consente a chi lo controlla di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia, India e Pakistan, e di completare l’accerchiamento dell’Iran, che in caso di guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti: quello iracheno e quello afgano.
“Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare l’Afghanistan va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina, considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all’egemonia militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in Medio Oriente, Africa e America Latina. Una minaccia divenuta più reale dopo la creazione, nel giugno 2001, dell’alleanza politico-militare guidata da Pechino: l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), che riunisce la Cina, la Russia, le repubbliche centrasiatiche e presto, forse, anche l’Iran. E che in futuro, vista la sua progressiva integrazione con l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO), l’alleanza politico-militare a guida russa, potrebbe estendere la sua influenza fino all’Europa orientale (Bielorussia) e al Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un’alleanza contrapposta alla Nato a guida Usa.
Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una spina nel fianco per la Cina, in particolare per la sua prossimità allo Xinjiang, regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro (tradizionalmente sostenuto dalla CIA)”(3).
A cosa serve allora la NATO? Spesso, in buona fede, alcuni sostengono questa tesi: “Nel periodo della guerra fredda l’Alleanza Atlantica aveva una funzione difensiva e dissuasiva dal momento che doveva fronteggiare le armate sovietiche e quelle del Patto di Varsavia … Dopo la caduta dell’Unione Sovietica sono venuti alla luce piani dello Stato Maggiore sovietico per un attacco all’Europa che avrebbe portato le loro armate all’atlantico e al mediterraneo in meno di due settimane”.
Cerco di sintetizzare il più possibile le mie obiezioni. Chi minacciava davvero chi? La Seconda Guerra Mondiale fu vinta essenzialmente dall’Unione Sovietica, che ebbe un bilancio di circa 26 milioni di morti tra vittime civili e militari, contro i 292.000 morti (tutti militari) degli Stati Uniti. Al momento dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944) la Germania e i suoi alleati dispiegavano 228 divisioni ad Est e solo 58 ad Ovest … eppure i sovietici arrivarono a Berlino prima degli angloamericani. Questo per chiarire chi davvero ha liberato l’Europa dal nuovo ordine nazionalsocialista imposto dalla Germania del Terzo Reich.
Terrorizzati che il Giappone si arrendesse prima ai sovietici che a loro, nell’agosto 1945 gli Stati Uniti sganciarono deliberatamente due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, uccidendo centinaia di migliaia di civili e lanciando un chiaro monito al Cremlino. La prima bomba atomica sovietica venne esplosa, come esperimento nucleare, solo il 29 agosto 1949 in un poligono militare del Kazakistan, la prima bomba H addirittura nell’agosto 1953. Il Trattato che istituiva la NATO, l’Alleanza militare atlantica dei paesi guidati da Washington venne firmato il 4 aprile 1949; solo 6 anni dopo, il 14 maggio 1955, l’Unione Sovietica metteva in campo il Patto di Varsavia insieme ai paesi alleati di Mosca. La NATO è mai servita alla difesa dell’Europa occidentale?
Cito, uno fra tanti, il Generale belga Robert Close (ex Vice Comandante del Nato Defense College), che in un dettagliato volume(4) espose efficacemente la tesi che se “i Russi aggredissero di sorpresa le forze della Nato nella Germania Occidentale potrebbero arrivare al Reno in 48 ore”.
Le opinioni di Close furono poco dopo precisate dal Generale Johannes Steinhoff, che prestò per tre anni servizio come Presidente del Comitato Militare della NATO (uno dei posti più alti in seno all’Alleanza Atlantica): “E’ un fatto che l’Alleanza va a rotoli dolcemente … è ancor vero oggi, come all’epoca della creazione della NATO, che questa alleanza è totalmente dipendente dalla leadership degli Stati Uniti. Sembra venuto il momento di rivedere questa leadership … Dato che non serve a nulla che gli Stati Uniti partecipino ad una alleanza che non è capace di reagire ad un attacco sovietico – il solo scopo reale della NATO – bisognerebbe forse che il nostro prossimo Presidente stabilisca a quali condizioni intendiamo proseguire la nostra partecipazione”(5).
Buon per noi allora che gli obiettivi geopolitici della politica estera sovietica (i medesimi oggi della Federazione Russa) fossero improntati alla necessità di garantire a qualsiasi prezzo la sua sicurezza ed evitare l’accerchiamento militare (lo stesso obiettivo che la NATO continua a perseguire espandendosi ad Est fino ai confini russi e tentando di occupare Siria ed Iran).
Concludo questo breve excursus storico ricordando solo un altro determinante documento pubblicato dal “New York Times”, in cui l’ex Presidente USA Ronald Reagan dichiarò che l’Europa poteva essere ” il teatro di una guerra nucleare limitata”. Ciò vuol dire che URSS ed USA avrebbero potuto fare dell’Europa, dell’ovest e dell’est, un campo di battaglia nucleare, senza coinvolgersi direttamente(6).
Altro che difesa dell’Europa … se quello che diceva Reagan corrisponde a verità una guerra della Nato contro l’Unione Sovietica avrebbe comportato la distruzione totale del nostro continente!
Perché allora gli europei non si sono mai fatti il proprio esercito indipendente dalla NATO (dalla quale non a caso il Charles Generale De Gaulle fece uscire la Francia, espellendo dal proprio territorio le basi USA e dotandosi della force de frappe nucleare)? La risposta la troviamo in un documento sfuggito al Pentagono e pubblicato ancora dal New York Times nel febbraio del 1992: “La Nato è… lo strumento attraverso il quale gli Stati Uniti intendono mantenere la propria presa sull’Europa, impedendole di crescere economicamente, politicamente, militarmente”. Per questo motivo gli americani si sono sempre opposti alla nascita di un esercito europeo autonomo, sganciato dall’Alleanza Atlantica(7).
Quando, sempre nel 1992, due statisti europei come Kohl e Mitterand cercarono di far nascere l’Eurocorp, cioè un corpo d’armata franco tedesco aperto alla partecipazione degli altri Paesi della CEE, l’allora segretario di stato James Baker dichiarò senza mezzi termini che “gli Stati Uniti sono contrari anche alla sola ipotesi di una forza militare europea indipendente”. E il progetto abortì …
In definitiva non si può non condividere quanto recentemente affermato dall’Ambasciatore russo presso la NATO, Dimitry Rogozin: “La NATO continua a vivere secondo i principi enunciati dal Segretario generale della NATO Lord Ismay: ‘l’America dentro, la Germania sotto e la Russia fuori’. Questo significa il controllo del militarismo tedesco; capiscono che i tedeschi possono sempre trasformarsi in una forza, che consoliderà l’Europa intorno a sé” … Gli statunitensi hanno inventato la storia secondo cui l’Europa non può fare a meno di loro. Il risultato di tale rapporto è inferiore ai benefici per l’Europa. Ciò che questo significa per l’Europa, è che essa è diventata ostaggio e obiettivo di attacchi di rappresaglia, senza nemmeno avere accesso alle tecnologie statunitensi”.
E’ davvero quello che vogliamo?
Ma in Italia a cosa serve la NATO, con le sue 113 basi militari dispiegate sul nostro territorio? Elenchiamone chiaramente le principali conseguenze:
1) La mancanza di sovranità nei principali settori di intervento: militare, politica estera, economica, lotta alla criminalità.
2) Identità nazionale solo retorica ma oggi rilanciata in maniera propagandistica per favorire l’invio di militari nelle “missioni di pace americane” all’estero.
3) Mancato sviluppo delle direttrici geopolitiche italiane, nei Balcani e nel Mediterraneo, con forti perdite economiche per le nostre imprese.
“Il paese ospitato (gli USA), mantiene il paese ospitante (l’Italia) all’interno della propria area di influenza, mentre la presenza di forze armate su un altro territorio può costituire una forma di pressione politica territoriale in grado di esercitare influenza nelle politiche interne del paese ospitante. La presenza militare plasma i paesi riceventi, influenzandone cultura e società, ed alterandone anche il processo di democratizzazione”(8).
Steve Brady - 09/07/2012
(Fonte: statopotenza)
Note:
1. “Speciale obiettivo USA in Afghanistan: il petrolio”, su www.rainews24.it
2. Michel Chossudovsky, “Chi era Usama Bin Ladin?”, Global Research, 12/09/2001
3. “Cosa si nasconde dietro la guerra in Afghanistan”?, Peacereporter, 06/10/2009. Stefano Vernole, “Guerra alla droga: Mosca accusa Washington”, www.eurasia-rivista.org, 6/11/2008
4. Robert Charles Close, “L’Europa senza difesa?”, Mucchi, Modena, 1978
5. Ibidem, p. 312
6. Documento pubblicato in Italia solo dal quotidiano “La Stampa” di Torino
7. www.massimofini.it, 1992
8. Intervento di Stefano Vernole al Convegno di Roma, “Da Jalta al multipolarismo”, www.eurasia-rivista.org, 27/01/2011
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