Trump ha
sbagliato a giocare le sue carte ed ha regalato ai poteri forti della finanza
globalizzatrice altri quattro anni di tempo per mettere al passo
l’America, prima che – é solo questione di tempo – i nodi
della globalizzazione economica vengano al pettine. E allora – sono
pronto a scommettere – assisteremo a scene ben piú drammatiche che
non la pagliacciata di qualche migliaio di bulli con le corna che
bivaccano a Capitol Hill.
Mi spiego. Trump è probabilmente nel giusto quando dice che la vittoria di Biden è frutto
di un colossale broglio organizzato. In America lo pensano in tanti,
in tantissimi. Ma lo si sapeva giá da prima delle elezioni. I brogli
erano praticamente annunciati; brogli cui noi europei – abituati a
meccanismi di voto difficilmente falsificabili – stentiamo a
credere. Negli USA, invece, truccare le carte è oltremodo facile. Lo
si è sempre fatto, e lo hanno fatto soprattutto i democratici.
Capisco che questa mia
affermazione possa apparire sorprendente, ma vi assicuro che é del
tutto veritiera. Come è possibile? É possibile perché, nella
“patria della democrazia”, per votare non é necessario un
documento d’identitá. Basta che il nominativo che si dichiara
al seggio risulti iscritto nelle liste elettorali dei democratici,
dei repubblicani o degli indipendenti, e il gioco è fatto. A monte,
la voter registration non è automatica, ma deve essere
esplicitamente richiesta da un soggetto che, anche in questo caso,
non é tenuto a presentare un documento di riconoscimento con
fotografia.
Si puó facilmente
immaginare, perció, quali e quanti brogli possano avvenire con
questo sistema: dal singolo individuo che vota dieci volte in dieci
diversi seggi elettorali e con dieci diversi nominativi, alla
organizzazione di vere e proprie “carovane” che deambulano
allegramente da un seggio all’altro. Nel tempo, tutti i tentativi
dei repubblicani per introdurre l’obbligo di un documento
d’identitá per accedere al voto, sono stati bloccati dai
democratici perché, a loro dire, un siffatto provvedimento andrebbe
a discapito dell’elettorato nero delle periferie. Di che fare
invidia alla piú scalcinata delle repubbliche delle banane. Altro
che patria della democrazia!
Ora, partendo da questa
“cultura”, era facile immaginare che cosa avrebbe potuto essere
organizzato nelle presidenziali di novembre, elezioni che per il
mondo dell’alta finanza globalista avevano una valenza di vita o di
morte.
Scrivevo su “Social” del 3 luglio scorso: «La posta
in gioco a novembre sará altissima, mille volte maggiore rispetto a
quella di una elezione presidenziale “normale”. Il popolo
americano dovrá decidere se interrompere definitivamente il processo
di globalizzazione economica e di mondializzazione politica, o se
rassegnarsi alla resa ai poteri fortissimi che vogliono distruggere
gli Stati Nazionali e assoggettare tutti i popoli del mondo al potere
ricattatorio dell’alta finanza internazionale. La lotta é
solamente agli inizi e sará durissima, senza esclusione di colpi.
Prepariamoci ad altri colpi di scena.»
Concetti ribaditi
nell’edizione del 6 novembre: «La posta è talmente alta che
sará tentata ogni cosa per superare l’ostacolo Trump: dalla
eliminazione fisica del soggetto (come a suo tempo fatto con Kennedy)
alla fabbricazione di inchieste giudiziarie ad hoc (la mente va al
Russiagate dei servizi segreti obamiani), dai brogli elettorali su
vasta scala (si teme per il voto “per corrispondenza”) alle piú
diverse operazioni non convenzionali (qualcuno pensa anche ad
epidemie di incerta origine), fino – addirittura – al proposito
di far scoppiare una guerra civile nel caso che Trump riesca,
nonostante tutto, a prevalere.»
E aggiungevo: «Hanno
suscitato forte preoccupazione le recentissime dichiarazioni di Nancy
Pelosi (speaker della Camera dei Rappresentanti ed uno dei massimi
esponenti del Partito Democratico) secondo cui Biden verrá eletto
«qualsiasi sia il conteggio finale dei voti». Semplice
arroganza? Puó darsi. Ammissione di brogli in itinere? Puó darsi.
Personalmente, la frase mi sembra piuttosto una minaccia, e con
implicazioni assai inquietanti.»
Le cose, poi, sono andate
come sono andate. É quasi certo che i brogli ci siano effettivamente
stati, sia quelli “tradizionali”, sia soprattutto quelli del
voto postale. Specialmente – guarda caso – negli Stati-chiave,
quelli che alla vigilia erano considerati “in bilico”:
Pennsylvania, Arizona, Michigan, Wisconsin, fra gli altri.
Il meccanismo era sempre
lo stesso. Si contavano prima i voti “normali”, che vedevano
quasi sempre la vittoria di Trump; poi i voti postali regolari, che
confermavano i risultati giá acquisiti; infine, si contavano i voti
postali giunti fuori tempo massimo (certamente inammissibili e
ipoteticamente truccati) che invece, assai stranamente, andavano
quasi tutti a Biden, fino a ribaltare i risultati iniziali. Ogni
Stato fissava – autonomamente e illegittimamente – le sue
“correzioni” alle regole vigenti: in Pennsylvania – come rivela
il giornalista d’inchiesta Stefano Magni – si é deciso di
conteggiare voti postali senza neanche un timbro che ne attestasse la
spedizione; in Arizona si sono “aspettati” voti postali per una
settimana dopo la scadenza legale; in North Carolina il prolungamento
fai-da-te é stato addirittura di dieci giorni. E i voti postali sono
stati una vera e propria valanga a favore di Biden: ma solo quelli in
ritardo, mentre quelli giunti puntualmente premiavano Trump.
Solo dopo questi
provvidenziali “aiutini”, si sono proclamati i risultati negli
Stati “in bilico”. Stati andati tutti a Biden – ma guarda la
combinazione! – mentre giornali e televisioni mainstream
facevano a gara (anche in Europa) nel ridicolizzare i tentativi di
Trump per ottenere la controprova di una verifica indipendente.
Tutto ció spiega
l’ostinato rifiuto di Donald Trump, il presidente in carica, a riconoscere la
vittoria dello sfidante, ed altresí spiega (anche se non giustifica
minimamente) la rabbia violenta delle frange piú estreme del
trumpismo.
Ma – parliamoci chiaro
– il responsabile principale di quanto avvenuto è proprio Donald
Trump. Responsabile non certo dell’assalto al Congresso di un pugno
di facinorosi. Basta rileggere il testo del suo “discorso
incendiario” per averne conferma. Imputargli la paternitá
dell’assalto al Congresso è soltanto una manovra dei democratici –
l’ennesima – per criminalizzare l’avversario, per
delegittimarlo, per avere un pretesto che giustifichi la normativa
liberticida che si accingono a varare in nome del politicamente
corretto.
No, la colpa di Trump è
un’altra. É quella di aver giocato sempre in difesa durante i
quattro anni della sua presidenza; salvo, poi, a giocare in attacco
(e in modo sbagliato) solo in questi giorni, fuori tempo massimo,
quando i suoi avversari avevano oramai vinto la partita, sia pure con
metodi non proprio limpidi.
Ha giocato in difesa fin
dall’indomani della sua elezione, nel 2016, quando di fatto
“grazió” l’avversaria sconfitta, Hillary Clinton, non andando
a fondo sulla clamorosa storiaccia (tornata recentemente d’attualitá)
delle sue e-mail.
Continuó a giocare in
difesa nella vicenda del Russiagate, subendo la campagna
diffamatoria dei democratici senza avere il coraggio di denunziare al
popolo americano che si trattava soltanto di una manovra di alcuni
spioni della sconfitta cordata obamiana.
In difesa anche sui
social, accettando che questi si prendessero il lusso di
accordare o negare il diritto di esprimersi al Presidente degli Stati
Uniti; fino alla ingloriosa conclusione di questi giorni, quando
Twitter ha chiuso definitivamente il suo account.
In difesa sulla questione
del nero ucciso dalla polizia a Minneapolis e della strumentale
campagna “antirazzista” orchestrata da Soros e compagni contro di
lui. Anche qui a subire quasi con rassegnazione, senza avere il
coraggio di ribaltare le accuse, di spiegare agli americani che la
polizia locale (responsabile dell’uccisione di Floyd e di altri
eccessi un po’ dappertutto) dipende dai sindaci e dai governatori
degli Stati, non dal Presidente e dal governo federale. Nella
fattispecie, peraltro, il sindaco di Minneapolis era un democratico,
come anche il governatore del Minnesota. Cosí come democratico –
consentitemi l’inciso – é il sindaco di Washington, che l’altro
giorno avrebbe dovuto schierare (e non l’ha fatto) forze di polizia
in numero adeguato a garantire la sicurezza della sede del Congresso.
Trump ha giocato in
difesa anche nello Spygate che era sul punto di deflagrare
qualche mese fa [vedi “Social” del 29 maggio 2020]. Sembra che
fosse pronto a trascinare in tribunale l’ex presidente Obama, con
l’accusa di avere utilizzato i suoi uomini nei servizi segreti per
“fabbricare” un Russiagate del tutto inesistente. Era
tutto pronto, anche con interessanti appendici che riguardavano
l’Italia, ma poi non se n’é fatto nulla.
Fino all’ultima partita
in difesa, quella di una (mancata) radicale riforma che finalmente
garantisse la correttezza delle procedure elettorali. Quest'ultima partita
che gli é stata fatale, decretando la sua sconfitta strategica “a tavolino”.
Che cosa chiedeva Donald
Trump, e che cosa chiedevano i suoi pur esagitati sostenitori?
Solamente che si ricontrollassero le schede in alcuni Stati, quelli
dove il risultato ufficiale non era stato “al di sopra di ogni
sospetto”. La stessa cosa che, alcuni anni fa, era stata chiesta
dal democratico Al Gore, sconfitto dal repubblicano Bush grazie ad
una vittoria di misura nello Stato della Florida.
Il fatto é che, se si
vogliono sfidare i poteri fortissimi che dominano il mondo, bisogna
essere attrezzati per respingere la reazione di quei poteri. Reazione
che sará dura, durissima, senza esclusione di colpi, per distruggere
l’avversario, per cancellarlo dalla scena politica, per farlo
passare come un folle o come un criminale agli occhi dell’opinione
pubblica del suo paese e del mondo intero. Questo Trump non lo ha
capito. E ne sta pagando lo scotto.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com