Nel 1990, alla vigilia dello scioglimento del Patto di Varsavia, il Segretario di stato Usa James Baker assicurava il Presidente dell'URSS Mikhail Gorbaciov che «la NATO non si estenderà di un solo pollice ad Est». Ma in vent’anni, dopo aver demolito la Federazione Jugoslava, la NATO si estende da 16 a 29 paesi (30 se ingloba la Macedonia), espandendosi verso la Russia.
Nel 1999 ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava). Nel 2009 ingloba l’Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava) e, nel 2017, il Montenegro; nel 2019 firma il protocollo di adesione della Macedonia del Nord quale 30° membro. Altri tre paesi – Bosnia Erzegovina (già parte della Federazione Jugoslava), Georgia e Ucraina (già parte dell’Urss) – sono candidati a entrare nella NATO.
Così Washington lega questi paesi non tanto all’Alleanza, quanto direttamente agli USA, rafforzando la sua influenza all’interno dell’Unione Europea. Sui dieci paesi dell’Europa centro-orientale che entrano nella NATO tra il 1999 e il 2004, sette entrano nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2007: all’Unione Europea che si allarga a Est, gli Stati Uniti sovrappongono la NATO che si allarga a Est sull’Europa. Si rivela così, chiaramente, il disegno strategico di Washington: far leva sui nuovi membri dell’Est per stabilire nella NATO rapporti di forza ancora più favorevoli agli Stati Uniti, così da isolare la «vecchia Europa» che potrebbe un giorno rendersi autonoma.
L’espansione a Est ha, oltre a queste, altre implicazioni. Inglobando non solo i paesi dell’ex Patto di Varsavia ma anche le tre repubbliche baltiche un tempo facenti parte dell’Urss, la NATO arriva fino ai confini della Federazione Russa. Nonostante le assicurazioni di Washington sulle sue intenzioni pacifiche, ciò costituisce una minaccia, anche nucleare, verso la Russia.
3B/10 USA E NATO ATTACCANO E INVADONOI L'AFGHANISTAN E L'IRAQ
Gli Stati Uniti attaccano e invadono l’Afghanistan, nel 2001, con la motivazione ufficiale di dare la caccia a Osama bin Laden, indicato come mandante degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 (la cui versione ufficiale non regge alle indagini tecnico-scientifiche effettuate da esperti indipendenti). Osama bin Laden è una figura ben nota a Washington: appartenente a una ricca famiglia saudita, aveva collaborato attivamente con la CIA quando, dal 1979 al 1989, essa aveva addestrato e armato tramite l’ISI (il servizio segreto pachistano) oltre 100 mila mujaidin per la guerra contro le truppe sovietiche cadute nella «trappola afghana» (come la definirà in seguito Zbigniew Brzezinski, precisando che l’addestramento e l’armamento dei mujaidin erano iniziati nel luglio 1979, cinque mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).
Si apre così una nuova fase della situazione internazionale: il presidente degli Stati Uniti viene autorizzato a condurre la «guerra globale al terrorismo», in cui non vi sono confini geografici, condotta contro un nemico che può essere identificato di volta in volta non solo in un terrorista o presunto tale, ma in chiunque si opponga alla politica e agli interessi statunitensi. L’immagine perfetta di nemico, intercambiabile e duratura. Il presidente Bush lo definisce «un nemico oscuro, che si nasconde negli angoli bui della Terra».
Scopo reale dell’intervento militare USA in Afghanistan è l’occupazione di quest’area di primaria importanza strategica. L’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) ci sono grandi riserve petrolifere. Vi si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse».
Nel periodo precedente l’11 settembre 2001, vi sono in Asia forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia. Washington considera tale fatto una sfida agli interessi statunitensi nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercano di occupare il vuoto che la disgregazione dell’URSS ha lasciato in Asia Centrale. Una posizione geostrategica chiave per il controllo di quest’area è quella dell’Afghanistan.
La guerra inizia nell’ottobre 2001 con il bombardamento effettuato dall’aviazione statunitense e britannica. A questo punto il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizza la costituzione dell’ISAF (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza), la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. Ma improvvisamente, nell’agosto 2003, la NATO annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’ISAF, forza con mandato ONU». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la NATO ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’ISAF. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della NATO nel dirigere l’ISAF». La missione ISAF viene in tal modo inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’ISAF.
Dopo l’Afghanistan è il turno dell’Iraq, paese sottoposto dal 1991 a un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni un milione e mezzo di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Il presidente Bush mette l’Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male». Il segretario di stato Colin Powell presenta al Consiglio di sicurezza dell’ONU una serie di «prove» raccolte dalla CIA, che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. Poiché il Consiglio di sicurezza si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.
La guerra inizia nel marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. In aprile truppe USA occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare. Per stroncarla, l’Iraq viene messo a ferro e fuoco da oltre un milione e mezzo di soldati, che il Pentagono vi disloca a rotazione insieme a centinaia di migliaia di contractor militari, usando ogni mezzo: dalle bombe al fosforo contro la popolazione di Falluja alle torture nella prigione di Abu Ghraib.
La NATO partecipa di fatto alla guerra con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione NATO di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Vengono addestrati, in 2.000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni. Contemporaneamente la NATO invia istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare l’Iraq a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della NATO con l’Iraq».
Comitato promotore della campagna NO GUERRA NO NATO