Prevenzione anti-terremoto no, Tav
sì
Scrivo da un’Italia che, dopo aver
esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a
urlare in faccia ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le
loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo,
alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre.
Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono –
vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”.
Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni
per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece
arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte
inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri
TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre,
Ponte sullo Stretto, Expo... per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno
Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza
un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici.
Si ristabilirebbero l’organico e i
bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo
Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio,
tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo
combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una
resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con
Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del
2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una
magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo
di firma. E l’ex-procuratore generale Giancarlo Caselli, uno che, a
dispetto del suo narcisismo, non ha fatto proprio il massimo delle
figure nel contrasto a mafia e brigatisti (vedi “La trattativa”
di Sabina Guzzanti), e i suoi due para-dioscuri Padalino e Rinaudo
alla procura di Torino, persistono implacabili nella persecuzione di
quelli che il senatore piddino e fucilatore politico di sindaci
eterodossi come Marino e Raggi, gli indica come terroristi della
Valsusa. Basterà un terremoto a darci la sveglia?
Il baro di Ankara
Al grande poker mediorientale chi vince
questa mano è Erdogan, biscazziere e baro principe (ma il casinò è
in mano a USraele), mentre il pollo, meritatamente e con
soddisfazione di chiunque abbia in odio i rinnegati, i venduti e i
traditori, sono i curdi. Naturalmente idolatrati e difesi oltre ogni
limite della decenza e della verosimiglianza, dall’italiota
quotidiano salafita (nella specificità curda, ma solo in questa,
adornato di scintillanti piume laiche. Per il resto Fratellanza
Musulmana fino alla morte). L’invasione turca della Siria, per
prendersi la città arabo-siriana di Jarablus (per nulla curda, come
tante altre occupate dall’YPG e dal geografo del “manifesto”
diplomato a Tel Aviv assegnate ai curdi, in parallelo con la stessa
revisione operata sui territori arabi dell’Iraq), dopo quella di
Manbij e dopo l’attacco curdo-americano ad Hasakah, respinto dai
lealisti, insegna ai rinnegati di Rojava che vendersi al primo
venuto, nel caso gli Usa, di solito conduce all’essere rivenduti.
Cosa immediatamente dimostrata dalla dichiarazione del vice-Obama,
Joe Biden, con sospetta puntualità sul posto, a sostegno del partner
di poker dalla lucidissima follia e dal formidabile ricatto (vedi
migranti, UE, Merkel, Putin). Dopo aver condotto al guinzaglio i
curdi dell’YPG, che il patetico “manifesto” insiste a definire
“Forze Democratiche Siriane”, vedendoci, oltre ai curdi,
inesistenti arabi, circassi, assiri e turcomanni, a espandersi su
territorio arabo sotto sovranità della libera, democratica e laica
Siria, ora Biden gli intima di arrendersi ai propri boia turchi, anzi
di arretrare al di là della riva orientale dell’Eufrate, dove
storicamente gli spetta di stare.
La vera estensione della presenza
curda.
Dunque i curdi, dalla figura da
cioccolatai per la dabbenaggine e di merda per l’infamia,
prestatisi a fare da ascari a Nato, Usa, Israele, Golfo,
internazionalmente più accettabili dei jihadisti logorati dal tempo,
dalle sconfitte, dalle eccessive barbarie e dalle nequizie loro
attribuite in Europa, hanno assolto al proprio compito e se ne
ritornino a cuccia. Restano sul bagnasciuga dei detriti spiaggiati
tutti coloro che si erano arrapati a vedere frantumare la Siria
renitente a colonialismo, imperialismo, non più dagli impresentabili
scuoiatori e crocefiggitori Isis (richiamati nella riserva) o Al
Qaida-Al Nusra (rigenerati da Assopace, Cia e Hillary in milizia
moderata), bensì dalla meraviglia di un nuovo popolo eletto,
democratico, laico, partecipativo, femminista. Non per nulla portato
in spalla dall’altro popolo eletto e dalla sua lobby, che non nega
armi, fondi, ospedali, propaganda a chiunque si presti a fare a pezzi
stati arabi felicemente multietnici e multiconfessionali.
Grande è la confusione sotto il cielo
con i curdi, mercenari degli Usa e longa manus di Israele, che
picchiavano l’Isis, mercenari Usa-Nato-Israele-Golfo, e ora vengono
picchiati dai turchi con il beneplacito dei loro padrini e compari
americani e israeliani, mentre i russi, amici di Damasco, che, avendo
flirtato con i curdi in funzione anti-Nato, se li sono visti
sottrarre dalla Nato in funzione anti-Damasco e ora però sono
costretti a biasimare i turchi che li picchiano, ma con i quali
turchi s’erano illusi di poter consumare merende. Collateralmente,
anzi in subordine, al rientro del “maverick” (mattocchio
imprevedibile) turco nell’ordine geopolitico che, in un modo o
nell’atro, con i partner e subordinati che capitano, corrisponde
alla visione dell’élite mondialista, plaudono i diretti
interessati europei, a partire da Hollande fino allo zannuto ministro
della Difesa tedesco.
Carta perde, carta vince
A prima vista Erdogan parrebbe aver
calato il poker: ha rimesso in riga gli odiati curdi, si è rifatto
una verginità davanti all’opinione pubblica occidentale, dopo il
mezzo autogolpe e la successiva epurazione da rendere la Gestapo un
corpo di boy scout, fingendo di dare addosso al califfo che aveva fin
lì avuto come socio d’affari e di genocidio in Iraq e Siria.
Difatti l’Isis, ricevuto l’ordine di servizio, ha abbandonato
Manbij e Jarablus senza lasciarsi dietro neanche una mina (mentre ad
Hasakah l’eroico YPG delle splendide ragazze e dagli invincibili
giovanotti, infiltratosi in città compiendo assassinii, saccheggi e
sequestri, ne è stato cacciato da forze armate serie, quelle di
Bashar el Assad.). A questa rigenerazione d’immagine ha poi
aggiunto la costituzione della famosa “zona cuscinetto” di 30 km
per 7 all’interno del territorio siriano, quella che andava
invocando da due anni, che Hillary non perdeva l’occasione per
definire indispensabile e urgente, ma che Obama frenava perché
apprensivo su un’eventuale seguito di impegno Usa a terra.
Freno saltato nel momento in cui forze
di terra e aria americane, richiamate dai curdi, ansiosi di farsi
sudditi e mercenari dell’Impero al pari dei fratelli del Kurdistan
iracheno, sono penetrate in Siria attraverso l’ospitale Rojava e vi
hanno costituito una base (che domani, in caso di liti in famiglia,
potrebbe anche rimpiazzare quella turca di Incirlik).
Il fascino del modello Erdogan
Il biscazziere di Ankara, grande
bluffatore, ma anche grande ricattatore ha vinto questa mano: sta
dentro la Siria e questo significa che in Siria ci sta ufficialmente
la Nato. Ha preso in giro la Russia ventilando qualcosa che, per i
nostri grandi e sprovveduti analisti, pareva addirittura un cambio di
campo. Ha sottratto la milizia curda agli Usa, che da quella avevano
ricevuto grande beneficio propagandistico (vedi “il manifesto” e
la lobby), dopo essersi macchiati col parto, l’allevamento e la
manutenzione del terrorismo jihadista. Ha anche rabbonito gli
iraniani che, nell’incontro dei rispettivi ministri della Difesa,
hanno convenuto con i turchi che, sì, i curdi sono per entrambi una
gran rottura di coglioni. E chissà se questo non si riverbererà
sull’appoggio di Tehran a Hezbollah e Damasco. E poi ha turlupinato
il mondo intero facendo credere che andava menando quell’Isis che,
commissionatogli da USraele, nelle persone di Hillary, Obama e
Netaniahu, è stato il rompighiaccio del suo ottomanesimo d’assalto
contro Siria e Iraq e suo partner nel colossale business del petrolio
rubato, trasportato, venduto a Israele e altri. Ora che, con la scusa
di colpirlo (avendogli attribuito gli autoattentati compiuti contro i
propri cittadini) s’è tolto dai piedi i curdi, complici nella
distruzione della Siria, ma concorrenti su chi se ne deve
avvantaggiare, e ha ricondotto gli Usa alla coerenza Nato, la mano
parrebbe davvero sua.
Erdogan mette sul tappeto verde, col
cinismo del serial killer, la posizione geostrategica del suo paese e
del suo esercito, il secondo Nato dopo quello degli Usa, la più
preziosa per mosse in qualsiasi direzione da questa specie di
“heartland”: Mediterraneo, Medioriente, Africa, Iran e
Asia, Russia. Un autentico pivot. Ma che senza il perno sul quale
girare, gira vuoto. E il perno sono gli Usa, fornitori dell’intero
armamentario delle forze armate turche (che nessuno riuscirebbe a
sostituire in meno di vent’anni); Israele, che ne può stabilizzare
o destabilizzare l’assetto agendo sulle minoranze curde, come fa da
sempre in Iraq; e la NATO insieme all’UE, che lo vedono
inserito-incastrato in un sistema reticolare di alleanze e
interdipendenze che, se Erdogan prova a usarle tipo agitando i
milioni di turchi contro Merkel, può davvero isolarlo da quella
“comunità internazionale” nella quale, per intima sintonia
criminale, non può non restare collocato. Venendo ai russi, è
proverbiale la loro prudenza. E la prudenza è spesso saggezza. Ma
non sempre. Con questa fissa di tenersi buoni tutti quanti,
trascurano che il diavolo e l’acqua santa alla resa dei conti sono
inconciliabili.
Poker contro scala reale
Se dunque il tiranno di Ankara ha
calato il poker, che stia in guardia: c’è di fronte un giocatore
che potrebbe avere in mano i colori. E non credo che all’altro lato
del tavolo vi sia un russo disposto ancora a rilanciare. Per quanto
forse gli converrebbe. Ora. C’è ancora una finestra temporale
nella quale il grande pezzo degli Usa che guarda a Trump (non a
quello bislacco e islamofobico, a quello anti-guerra, distante dalla
Nato e che vuole il dialogo con Mosca) non pare disponibile
all’armageddon probabilmente nucleare. Quello che arriverà con il
pendaglio da manicomio criminale, Hillary. Perché allora non ce ne
sarà più per nessuno. Quanto a noi, che da qui guardiamo col fiato
sospeso e il cuore in gola a cosa riserverà il domani alla Siria e,
con lei, al mondo, troviamo conforto nello sguardo sull’Iraq dove
l’avanzata delle forze nazionali irachene verso le ultime
roccaforti dell’Isis alimenta la speranza che il progetto
anglosionista della spaccatura del grande paese in frammenti
coloniali possa stavolta non riuscire. A dispetto degli ineffettuali
mercenari Peshmerga e del loro narcomafioso presidente Barzani.
Curdi buoni, egiziani cattivi,
Regeni martire
Mettendo sottosopra la realtà per
ridurla nei termini in cui ce la intendono proporre da Washington
(Langley), Londra, Tel Aviv, Bruxelles, il quotidiano salafita, da
autentico virtuoso, si spacca in due opposti e ci offre un doppio
paginone-ossimoro (il manifesto, 29/8/16). Da un lato lo scontro tra
manigoldi attorno a Rojava, curdi, turchi, Isis, Usa, con il corredo
delle forze speciali (squadroni della morte) Nato, ci viene
presentato come il martirio degli unici buoni, i curdi, che solo loro
combattevano e vincevano i jihadisti (i siriani lo fanno da quasi 6
anni, ma non conta, non sono i buoni) e, hai visto mai, alla lunga ce
l’avrebbero fatta anche contro il “dittatore di Damasco”.
Bombardando i civili siriani a Hasakah avevano bene iniziato.
Sulla pagine di fronte riesumano, ormai
ultimi giapponesi nella giungla, affiancati dal solito virulento
capo-Amnesty d’Italia (indifferente all’epico fiasco del recente
rapporto sugli scomparsi nelle carceri siriane, diligentemente
ripreso dall’agenziucola umanista “Pressenza”), un Giulio
Regeni ormai prudentemente lasciato ai trafiletti dal resto della
stampa. Un estremo, quasi disperato sforzo pro Fratelli Musulmani e
loro braccio armato terrorista (delle cui imprese bombarole contro
civili e funzionari egiziani nulla fanno sapere). L’occasione è
l’uscita del presidente Al Sisi – che ha resi verdi di bile sia
i manifestini che gli amnestini - sui rapporti normalizzati con Roma.
Noury di Amnesty abbaia e Chiara Cruciati risponde con guaiti
frustrati su quella che è la loro “mission non accomplished”:
l’isolamento dell’Egitto uscito dalle benefica morsa dei Fratelli
Musulmani e dalla tutela di Erdogan, che ne avrebbero garantito
docilità e collaborazionismo incondizionato. Sulla Libia e tutto.
Contro quella che viene definita la
resa del governo italiano, questo duetto di botoli lancia su Al Sisi
(come già su Assad e, prima, su Milosevic, Gheddaffi, Saddam)
fantasmagoiriche e totalmente indocumentate cifre di omicidi
extragiudiziali, prigionieri politici, scomparsi. Di quello che al
momento, anche per la nuova amicizia con Mosca e il ruolo
determinante in Libia, per il controllo del Canale di Suez da lui
raddoppiato, per la scoperta disponibilità, grazie all’ENI, di
un’enorme ricchezza di idrocarburi in mare, è diventato un
protagonista dell’area e oltre l’area e, oggettivamente, un
antagonista di Israele e dei suoi sodali in Turchia e nel Golfo, si
pretende grottescamente che sia un apripista dell’espansionismo
sionista. E gli si invoca contro tutto l’amamentario già
collaudato contro altri birbaccioni: rotture diplomatiche, sanzioni,
ostracismo politico, boicottaggio economico e alla fine, non detto ma
sperato, bombe.
Ciò che questi trombettieri e pifferai
dell’Impero devono occultare, come si sono affannati a fare fin
dall’inizio, è la vera natura del personaggio Regeni., come
evidentemente è nota al governo italiano, a molti media e agli
accademici di Oxford e Cambridge che alla richieste di complicità
della famiglia Regeni hanno opposto un consapevole silenzio. Chi e
come abbia chiuso la vicenda umana del giovanotto non è dato ancora
saperlo. Non deve essere facile per gli inquirenti egiziani: la
controparte opera bene. Del resto noi aspettiamo da un po’ di tempo
che ci dicano chi abbia abbattuto l’Itavia di Ustica, chi abbia
rapito e ucciso Moro, chi abbia colpito l’Italicus e via ignorando.
Ma sapendo il cui prodest.
Trattasi di papere
E’ dato sapere qualcosa che Amnesty e
il quotidiano salafita, pur avendone piena contezza, nascondono e, a
domanda, non rispondono. Cosa andava facendo Regeni in Egitto,
all’Università americana, dopo aver lavorato in Inghilterra alle
dipendenze di maestri spioni e masskiller angloamericani come David
Young, carcerato per il Watergate, Colin McCole, ex-capo dei servizi
segreti britannici, e John Negroponte, creatore dei Contras e degli
squadroni della morte in Centroamerica e poi in Iraq. La loro ditta,
Oxford Analytica, si occupava di spionaggio economico e
politico, aveva 1.400 dipendenti e sedi a Londra, Parigi, Washington
e New York. Non un ufficetto alla Callaghan. Regeni lavorava per
delle spie. Regeni faceva corsi all’Università Americana del
Cairo. La resistenza afghana ha appena fatto saltare l’Università
American a Kabul. Io conoscevo molto bene l’Università Americana
di Beirut. Tutti sanno che le università americane in quei paesi
allevano i virgulti dei diplomatici e delle multinazionali Usa
insieme a quella che dovrebbe diventare la futura classe dirigente
collaborazionista locale. In parole povere, sono scuole e covi di
spie.
Regeni non era una spia, mandata a
farsi ammazzare per sfrucugliare un governo non gradito? Diceva
qualcuno che se cammini come una papera, fai quac quac come una
papera, deponi uova come una papera, è molto probabile che tu sia
una papera.