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lunedì 30 aprile 2012
La sovversione cristiana e quel che si è salvato dell'antica cultura europea
Ante Scriptum di Joe Fallisi: "...credo abbia molta ragione, il bravo Fabio Calabrese. Instauratosi, per il tramite di Costantino e Teodosio detti i "grandi", un regno ecumenico (cioè su tutta l'ecumene romana e poi oltre) che riuscì a durare duemila anni, di cui (almeno) mille costellati di torture, pulizia etnica (nei confronti dei pagani e degli eretici) e stragismo abominevoli, tutto il corso storico e politico, la vita intellettuale e spirituale, la cultura ecc. dovette adattarsi, modellarsi ed esprimersi sulla base e all'interno della matrice tirannica giudeocristiana. Indubbiamente le caratteristiche precipue di tale religione, insieme sentimentale e assassina, e con capacità davvero uniche di "recuperare", inglobare e riplasmare, con tutti i mezzi, tutto, furono quelle che permisero tale risultato durevole e il suo effettivo trionfo. A quale prezzo, chiunque abbia a cuore verità, giustizia e libertà, sa bene - cfr. Sulle nostre radici (da incubo), http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/95297. L'umanità dovette attendere il 1789, la Grande Rivoluzione (con i suoi gravi, anche gravissimi, limiti e crimini la più importante ed emancipatrice), perché il vampiro vaticano fosse costretto a dieta. Certo ancora oggi questa mega-associazione a delinquere "spirituale", sfruttatrice e manipolatrice del naturale bisogno di "Trascendenza" dell'uomo, ha un potere enorme, ma i segni evidenti del suo declino irreversibile ci sono, FINALMENTE, tutti. "Destinanta a fallire" non è tanto "l'impresa di Calabrese", quanto la predetta mafia di mentitori e magnamagna. Che anzi si può dire, in effetti, è già fallita"
Fuori dal cristianesimo
Questa volta affronteremo il discorso dei rapporti con la religione divenuta dominante nel cosiddetto Occidente da una prospettiva un po' insolita. E' vero che, farsi dall'età medievale, la cultura europea si è costruita attorno al cristianesimo, ma questo è avvenuto un po' allo stesso modo di come un'ostrica costruisce una perla attorno a un corpo estraneo penetrato in essa, allo scopo di minimizzare il danno. L'Europa, potremmo dire, ha costruito la sua cultura attorno al cristianesimo per limitare l'infezione che esso ha rappresentato e rappresenta, per non cadere in un fondamentalismo simile a quello che la “sorella minore” del cristianesimo, la terza in ordine di tempo delle religioni abramitiche, ha imposto ai popoli arabi, nordafricani e mediorientali.
Che nella cultura europea esista da lunga pezza una componente fortemente anticristiana, è da tempo cosa nota: senza risalire all'antichità, al Contro i cristiani di Celso, occorre quanto meno rifarsi al grande Niccolò Machiavelli che, senza mezzi termini ha accusato il cristianesimo di aver effeminato il mondo e averlo dato in preda ai malvagi perché ha reso gli uomini più pronti a sopportare le ingiurie per guadagnarsi il paradiso, che a vendicarle, e contemporaneamente l'ammirazione professata dal Segretario Fiorentino per le religioni antiche che rafforzavano la coesione delle comunità umane invece di disgregarla come la religione del Discorso della Montagna invece fa.
Una linea di pensiero che pensatori e storici della filosofia non si sono troppo preoccupati di indagare, è quella di quegli autori che in età cinque-seicentesca hanno affermato contemporaneamente l'idea di sovranità dello stato superiorem non recognoscens e una forte critica al cristianesimo, riecheggiando forse inconsapevolmente sia il ghibellinismo medievale sia Machiavelli; ad esempio Jean Bodin che, oltre a essere un teorizzatore dello stato assoluto, afferma con due secoli di anticipo rispetto agli illuministi il concetto di religione naturale contrapposto a quello di “religione rivelata” proprio del cristianesimo e delle fedi abramitiche (ed è forse il primo a mettere sullo stesso piano cristianesimo, ebraismo e islam). La stessa linea di pensiero è espressa più tardi da Thomas Hobbes che vi aggiunge un magistrale tocco di ironia: i cristiani sono in realtà degli atei, perché il loro Dio è una sostanza immateriale, una contraddizione logica, qualcosa che non può esistere.
Machiavelli, Bodin, Hobbes, ma in età illuministica lo stesso orientamento di fondo, il rilevare la contraddizione, il conflitto fra valori civici e valori presunti trascendenti, è raccolto da Jean Jacques Rousseau: “Il cristianesimo separa l'uomo dal cittadino”.
Il romanticismo meriterebbe poi un discorso a parte. Nella tradizione manualistica per gli allievi delle scuole superiori, troppo spesso e con troppa disinvoltura lo si presenta semplicemente come anti-illuminismo, come ritorno ai valori religiosi e cristiani, ma le cose sono certamente più complesse, basti pensare a madame De Stael che individua nell'antichità l'età dell'equilibro, della salute, dell'armonia, della bellezza, e nella “modernità” l'era della lacerazione, del conflitto, del malessere esistenziale, “modernità” che inizia appunto con il cristianesimo. Basterà aggiungere a questi concetti l'idea del recupero della “grande salute” con uno sforzo volontaristico, non rassegnarsi al vulnus cristiano, e avremo la filosofia di Nietzsche.
Del marxismo, del positivismo, della psicanalisi non meriterebbe proprio di parlare. In questi casi abbiamo una critica “alla religione” come se tutte le religioni fossero uguali e sullo stesso piano e/o come se quello cristiano-abramitico fosse l'unico modello di religione possibile (in realtà è semplicemente l'unico che Marx e Freud, entrambi ebrei profondamente imbevuti di mentalità biblica, sono in grado di concepire). Non parliamo poi del fatto che molto spesso si scopre che questa critica “alla religione” è molto spesso null'altro che una critica all'istituzione ecclesiastica, che salva o addirittura esalta il cristianesimo come dottrina, “Cristo, il primo socialista”; sicuramente non è questa la direzione che ci può interessare; intellettualmente un cul de sac. Il marxismo stesso, poi, in ultima analisi non è che una forma estrema di cristianesimo laicizzato con “l'aldilà” in cui “i proletari” avranno la loro ricompensa posto non nel trascendente, ma al termine del processo storico. Non è certamente un caso che Friedrich Nietzsche, il grande e implacabile critico del cristianesimo, abbia riservato al marxismo lo stesso disprezzo.
Tutte queste cose le sappiamo già, sono o dovrebbero essere sedimentate da un pezzo nella nostra cultura e nella nostra Weltanschauung, ma c'è un fatto al quale forse non si è prestata la giusta attenzione: spesso, più spesso di quanto non si pensi, quando ci imbattiamo in un pensatore “cristiano” o “cattolico” particolarmente intelligente e profondo, ci accorgiamo che il suo cristianesimo non è per nulla ortodosso, e che gli sarebbe bastato un piccolo passo in più, uno sforzo intellettuale ulteriore, o magari solo un po' di maggiore sincerità per uscire del tutto fuori dal cristianesimo.
Io non ho sicuramente la pretesa che questo elenco sia esaustivo, ma proveremo ad esaminare quattro intellettuali cattolici molto diversi per tempo e luogo: due grandi della nostra letteratura, uno scrittore inglese reputato uno dei più grandi autori del XX secolo, uno scrittore e giornalista militante fra i più “impegnati” e interessanti del “cattolicesimo politico” contemporaneo. Fatte salve le enormi differenze che esistono fra l'uno e l'altro di questi personaggi, parleremo di Dante Alighieri, Alessandro Manzoni, John R. R. Tolkien, Maurizio Blondet.
Su Dante Alighieri, sulla presenza o meno di un indirizzo esoterico nel pensiero mirabilmente espresso nella Divina Commedia, i critici si accapigliano da secoli. A mio parere, nella sua opera vi sono indizi consistenti di un esoterismo di tipo pagano e celtico-druidico celati (ma nemmeno tanto) “Sotto il velame delli versi strani”.
Dante Alighieri ha un aspetto “celtico” che i critici della letteratura si sono sforzati di ignorare. A volte sospetto che se fosse vissuto nella nostra epoca, sarebbe stato considerato una figura di primo piano del “Celtic Revival” Tanto per cominciare, se si prende in mano la Divina Commedia senza paraocchi, ci si rende facilmente conto di una cosa: Dante conosceva molto bene i poemi del Ciclo Bretone e ne era probabilmente un lettore appassionato; sicuramente questi ultimi sono stati una fonte d'ispirazione non di secondo piano della Commedia.
Credo che tutti ricorderanno uno degli episodi più toccanti del poema dantesco, quello di Paolo e Francesca. Come è piuttosto noto, in esso la molla che determina l'innamoramento (o meglio, la confessione del reciproco sentimento) dei due, è la lettura della storia d'amore di Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”. “Galeotto” ossia Galhaut, è lo scudiero che fa da complice alla relazione adulterina fra la regina e il cavaliere.
Di più, l'intero episodio è modellato sulla narrazione della vicenda arturiana: Paolo Malatesta aveva rappresentato il (molto meno avvenente) cugino Gianciotto nel matrimonio per procura con Francesca da Rimini, con un chiaro parallelismo con la vicenda di Lancillotto inviato da Artù a prelevare Ginevra dalla casa paterna. In entrambe le narrazioni si evidenzia il conflitto fra l'amore e i sentimenti di fedeltà e di onore, anche se Gianciotto Malatesta non è certo Artù.
Forse meno noto è un altro episodio della Divina Commedia nel quale Dante rievoca la tragica conclusione della vicenda arturiana, lo scontro finale tra Artù e Mordred, il figlio incestuoso che questi ha avuto dalla sorella Morgana. In questo scontro, come è noto, Artù uccide Mordred e ne viene a sua volta ferito mortalmente. In esso, Dante raccoglie una tradizione secondo la quale Excalibur si sarebbe infissa nel corpo di Mordred in maniera tanto devastante, vi avrebbe aperto uno squarcio così ampio che un raggio di luce l'avrebbe attraversato sì che la stessa ombra del figlio ribelle ne sarebbe stata trafitta.
Questo episodio, come molti altri della Divina Commedia si presta a una lettura simbolica su cui si sono esercitati i non molti critici che hanno prestato attenzione a questo particolare aspetto di Dante: la luce che trafigge l'ombra significherebbe la regalità legittima, la regalità sacrale che annienta la sua tragica caricatura, il bruto potere dittatoriale basato unicamente sulla forza.
E qui salta subito all'occhio il paragone con Tolkien. Come è arcinoto, negli anni '70 Il Signore degli Anelli ebbe un successo enorme tra gli hippies californiani, fino al punto da essere considerato una vera e propria “bibbia” del movimento hippy. La distruzione dell'anello del potere, dell'anello di Sauron, era vista come il simbolo della distruzione “del potere” in quanto tale, di ogni autorità, Il Signore degli Anelli era letto insomma in chiave anarchica.
Nessuna interpretazione del capolavoro tolkieniano potrebbe in realtà essere più scorretta, più falsa di questa, che va considerata un fraintendimento voluto. Chiunque lo legga senza avere in testa interpretazioni precostituite, ben si rende conto che contro il bruto potere tirannico di Sauron si eleva la concezione del potere legittimo, del potere sacrale incarnato dall'autorità regale di Aragorn e da quella magico-sacerdotale (druidica, verrebbe da dire) di Gandalf.
Dante e Tolkien mostrano entrambi di credere alla regalità sacrale, un'autorità regia che è “sacra” di per sé, senza aver ricevuto la sua sacralità da altri, che è “pontificale” nel preciso senso di costituire un ponte fra l'umano e il divino, e questo basta da solo a rendere quanto meno sospetto il cristianesimo di entrambi.
Già la scelta politica di Dante (che finì per pagarla con l'esilio) è tale da farcelo sentire vicino. Dante era “guelfo” per il semplice fatto che dal 1266 (quando il poeta aveva un anno) con la calata in Italia di Carlo d'Angiò, i guelfi avevano acquistato dappertutto una netta preminenza, ma i guelfi fiorentini si erano divisi in “bianchi” e “neri”, e mentre i “neri” rimanevano guelfi a tutto tondo, nella “parte bianca” fiorentina avevano finito per ripresentarsi le istanze del ghibellinismo, la difesa dell'autonomia comunale dall'ingerenza del papato e la simpatia per l'almeno temporaneamente eclissata causa imperiale. Dante era ovviamente un “bianco”, e forse più vicino ai ghibellini di altri, tant'è che ghibellino è stato spesso considerato da interpreti posteriori, a cominciare da Giosuè Carducci che lo chiamò “ghibellin fuggiasco”. Quando i fuorusciti bianchi e ghibellini si unirono nel tentativo di rientrare in Firenze, tentativo culminato nella sconfitta della battaglia di Lastra, invitarono Dante a partecipare all'impresa, ma egli ricusò, considerando giustamente l'impresa troppo azzardata.
(C'è un fatto che io ho sempre trovato molto curioso riguardo a questo episodio: in molti studi critici e commenti alla Divina Commedia quest'evento viene ricordato come la battaglia DELLA Lastra, si tratta invece della battaglia DI Lastra, Lastra a Signa che oggi venendo da nord coincide con l'ultimo casello autostradale prima di Firenze; questo fatto mi fa pensare che molti critici hanno pontificato sul nostro sommo poeta senza essersi mai degnati di visitare la Toscana e i luoghi danteschi).
E come dimenticare il vigoroso, intenso ritratto che Dante ha dedicato a Farinata degli Uberti, il leader dei ghibellini fiorentini? Di certo in tutta la Commedia Dante non ha omaggiato di nulla di simile un qualsiasi capofazione guelfo.
Un capitolo a parte è rappresentato dal discorso sui cavalieri Templari. Senza dubbio, le motivazioni che portarono il papa e il re di Francia a sopprimere nella maniera brutale che sappiamo l'ordine dei Templari, furono di tipo economico e politico, perché i “Poveri cavalieri di Cristo” erano diventati troppo ricchi e troppo potenti, ma a livello profondo i monaci guerrieri costituivano una figura di combattente sacrale che la Chiesa aveva dovuto evocare durante le crociate, ma che rimaneva estranea al cristianesimo, ed è questo il motivo per il quale i Templari continuano dopo secoli ad affascinare coloro che cercano una spiritualità alternativa al cristianesimo “ufficiale”.
Dante si schiera nettamente dalla parte dei Templari; ha scritto nel Purgatorio:
“Veggio lo novo Pilato [Filippo il Bello re di Francia e persecutore dei Templari come Pilato lo fu di Cristo] sì crudele che ciò [lo schiaffo di Anagni e l'oltraggio a papa Bonifacio VIII] nol sazia, ma sanza decreto porta nel Tempio le cupide vele”.
Dandoci l'immagine delle vele simili a quelle di un vascello di corsari saraceni che entrano nel Tempio, nelle capitanerie templari per rapinare e saccheggiare.
Questo, lo sappiamo, è solo il punto d'attacco di un discorso molto ampio e complesso (che a Dante non doveva essere estraneo) perché i Templari avevano le loro posizioni di forza soprattutto in Francia e nelle Isole Britanniche (le regioni europee a più forte impronta celtica, guarda caso), e se in Francia furono brutalmente sopraffatti, nelle Isole Britanniche continuarono ad agire indisturbati semplicemente cambiando denominazione, e uno dei luoghi templari per eccellenza, la cappella di Rosslyn in Scozia è indicata da una radicata tradizione come probabile nascondiglio del mistico oggetto noto come Santo Graal.
E' verosimile che Dante fosse all'oscuro di tutto ciò? A conti fatti, non molto. La presenza in Dante di un esoterismo o meno, è stata in passato oggetto di dibattiti roventi. Di sicuro si può dire che il movimento letterario del Dolce Stil Novo cui Dante apparteneva, era collegato al movimento semi-esoterico dei Fedeli d'Amore (per i quali l'amore carnale era visto come strumento per elevarsi verso l'Amore divino, una concezione che echeggia molte cose, da Platone al tantrismo), e sicuramente il suo approccio al cristianesimo era molto poco ortodosso; si può sospettare anzi che non fosse affatto un cristiano, che si limitasse a mostrarsi tale per quel tanto che serviva a evitare uno sgradevole interessamento delle autorità ecclesiastiche.
Un verso in particolare della Divina Commedia avuto il potere di sconcertare i commentatori più accorti:
“Et ella giudica et persegue Fortuna suo regno come il loro gli altri dei”.
Ci rimanda a una sorta di politeismo nel quale “Dio” (ma può essere davvero il Dio cristiano?) non è l'unica divinità, ma piuttosto il leader di un pantheon complesso e articolato. Non è l'unico indizio di politeismo che si trova nella Commedia. In un altro passo, Dante fa risalire la litigiosità e la bellicosità dei fiorentini all'influenza di Marte cui la città era dedicata nell'antichità, e ruderi di una statua del dio della guerra sarebbero stati ancora visibili al tempo del poeta.
Non è tutto. Qualche anno fa, nel corso di un'edizione del Triskell, il festival celtico triestino, mi capitò di avere un interessante colloquio, non ricordo con chi, ma di certo uno degli studiosi del fenomeno celtico in tutti i suoi aspetti, anche i più inconsueti, che onorano (non si può usare un altro termine) della loro presenza il festival, che mi fece notare come la traduzione più corrente del motto skianz, nerz, karantez, che accompagna il simbolo del triskell, la triplice spirale che simboleggia la religione celtica, e individua il significato dei tre principi cosmici, della triade rappresentata dal simbolo del triskell, ossia “forza, coraggio, amore”, sia verosimilmente sbagliata, e al posto di “coraggio” si dovrebbe tradurre “sapienza”.
Mi vennero subito in mente le parole che Dante nella Commedia ha immaginato incise sull'architrave della porta della città di Dite: “Fecemi la Divina Potestate, la Suprema Sapienza, il Primo Amore”.
Tre principi cosmici piuttosto che tre persone come nella trinità cristiana; gli stessi simboleggiati nel triskell.
Ma chi era in realtà Dante Alighieri? Sembrerebbe un druido sopravvissuto o riemerso dopo un lungo buio di secoli.
La maggior parte di coloro che hanno avuto la (s)ventura di studiare Alessandro Manzoni sui banchi di scuola, i Promessi sposi e gli Inni sacri, la maggior parte di noi, si è fatta l'idea che egli abbia rappresentato il massimo della bigotteria cattolica, la personificazione del devoto baciapile. Le cose, però, non stanno affatto in questo modo, e il primo indizio che ci permette di scoprirlo è il fatto che I promessi sposi è un testo che si trova all'Indice, quel famoso elenco di libri la cui lettura era un tempo proibita e oggi ancora sconsigliata dalla Chiesa ai buoni fedeli.
Tanto per capirci, le opere di Karl Marx non sono mai state messe all'Indice. Cosa c'è dunque nel romanzo di Manzoni che alle autorità ecclesiastiche è apparso per la fede cristiana più pericoloso delle affermazioni dell'uomo che ha più radicalmente negato qualsiasi trascendenza e affermato che “La religione è l'oppio dei popoli”?
Per rispondere a questa domanda, occorre tenere conto da un lato delle complicità sotterranee che sono esistite anche prima del Concilio Vaticano II tra marxismo e cristianesimo, dall'altro capire un po' più approfonditamente questa figura chiave della cultura romantico-risorgimentale.
Ricordiamo per prima cosa il contesto familiare in cui fu educato Alessandro Manzoni: era nipote di uno degli illuministi italiani più detestati dalla Chiesa, Cesare Beccaria. Beccaria, che era un giurista, fu autore del trattato Dei delitti e delle pene in cui denunciava la mostruosità dei sistemi giudiziari del suo tempo, la sproporzione fra crimini e pene, il frequente ricorso alla tortura che spingeva spesso gli innocenti a confessare colpe inesistenti per paura o per sottrarsi alla sofferenza. In sistemi di questo genere che è quasi assurdo definire “giuridici”, la Chiesa cattolica, soprattutto a partire dal Concilio di Trento, ma anche in precedenza, aveva grandissima parte, aveva fatto ricorso in grande stile alla tortura, al rogo, ad atrocità di ogni genere allo scopo di reprimere gli “eretici”. Lo Stato della Chiesa fu fino alla sua scomparsa nel 1870 uno dei più retrivi d'Europa, con una legislazione che prevedeva l'uso della pena di morte anche per piccoli reati, e fino alla sua soppressione fu uno degli ultimi in Europa a mantenere quella “simpatica” eredità della rivoluzione francese che era la ghigliottina.
Nell'appendice poi espunta dei Promessi sposi, La storia della Colonna Infame, Manzoni ha chiaramente dimostrato di non essersi molto discostato dalle idee illuministiche del nonno neppure dopo la conversione.
Riguardo alla sua famosa conversione, sarebbe il caso di avere le idee più chiare di quanto non avvenga di solito: Manzoni fu convertito dalla moglie, Enrichetta Blondel, che non era cattolica ma aderiva a una variante considerata eretica di cristianesimo, il giansenismo.
La storia di questo movimento religioso è una di quelle cose su cui sarebbe utile essere meglio informati ma che “stranamente” sembra che la nostra “cultura ufficiale” non abbia nessuna voglia di approfondire. Esso prende il nome dal suo fondatore, Cornelius Jansen, vissuto nel XVII secolo, che fu vescovo della città belga di Ypres. Si tratta di una regione dove i cattolici vengono a stretto contatto con i protestanti. Ne abbiamo parlato più volte: il protestantesimo non ha la religiosità tutta esteriore, basata sulla pomposità dei riti del cattolicesimo, né la sua complessa ed efficiente organizzazione gerarchica che ne fa una potente macchina di potere, ciò non toglie però che vi si trovino un'ossessione biblica, un fondamentalismo che ben difficilmente si trovano nel mondo cattolico, ed è ben difficile o impossibile decidere quale delle due varianti del cristianesimo sia la più deleteria.
Ciò non toglie però che le obiezioni dei protestanti contro il cattolicesimo con cui Jansen doveva confrontarsi, fossero perfettamente fondate; egli cercò allora di dare vita a una religione più autentica, basata maggiormente sull'interiorità e il sentimento e adottando un maggior rigore morale. Si aspettò la morte del suo fondatore per dichiarare il giansenismo formalmente eretico, ma fin da subito esso dovette subire gli attacchi dei gesuiti, nonostante che in sua difesa si schierasse un intellettuale del calibro di Blaise Pascal con le Lettere provinciali. Evidentemente, la religiosità che il cattolicesimo riconosce come propria non è, non può essere quella di Cornelius Jansen, ma quella che Molière ha così efficacemente ritratto nel Tartufo.
Peggio ancora, Manzoni era sempre, oltre che un sospetto giansenista, parte del movimento risorgimentale. C'è un passo tagliato della tragedia Adelchi in cui egli esorta il papa a rinunciare alla sovranità temporale per il bene dell'unità italiana, un passo che sorprende per la sua ingenuità: Manzoni non aveva capito fino in fondo quel che invece era chiarissimo a Machiavelli, che il cattolicesimo è soprattutto potere.
I promessi sposi è un romanzo che ha molti motivi per spiacere alle autorità ecclesiastiche: un personaggio di primo piano è don Abbondio, un ecclesiastico che vi fa una figura miseranda, colto in tutta la sua miseria e meschinità di uomo pavido e debole, ma soprattutto con il personaggio della monaca di Monza tratta un problema che per la Chiesa è estremamente spinoso, quello delle monacature e delle “vocazioni” forzate, dell'enorme quantità di vite rovinate dall'istituzione ecclesiastica nel corso dei secoli. Notiamo che, da quando i cambiamenti della società hanno permesso di non dover più avviare i figli cadetti al sacerdozio o al monachesimo per mantenere intatto il patrimonio familiare, “le vocazioni” sono vertiginosamente crollate.
Una delle ragioni per le quali I promessi sposi è stato messo, ed è tuttora, all'Indice (che – ricordiamolo – esiste ancora oggi, anche se non più nella forma dei libri “proibiti” ma semplicemente “sconsigliati”), è probabilmente anche il fatto che esso sia stato scelto dallo stato italiano unitario e promosso a libro di testo non tanto per i suoi meriti letterari ma come modello “standard” di lingua italiana. In altre parole, la Chiesa cattolica ha continuato a lungo a vivere come un'usurpazione il fatto che gli Italiani con il risorgimento si fossero ripresi ciò che era loro, ciò che era stato loro sottratto per secoli e i “successori di Pietro” avevano avuto una parte determinante nel defraudarli.
In ogni caso, Alessandro Manzoni è forse l'esempio più lampante del fatto che un intellettuale cattolico, se è davvero una persona intelligente e in buona fede, consciamente o inconsciamente, non può vivere il cristianesimo e soprattutto il cattolicesimo altro che come una soffocante camicia di forza mentale.
In questo contesto è impossibile non fare riferimento a John R. R. Tolkien; l'autore inglese è forse l'esempio più evidente del totale contrasto fra le dichiarazioni ostentate di cristianesimo e di cattoliticità e la mentalità profonda che emerge dall'analisi della sua opera, che è di tutt'altro segno e dove una componente pagana emerge con tutta chiarezza, ma all'autore del Signore degli anelli ho dedicato un'ampia analisi nello scritto "Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo" al quale vi rimando, tuttavia qui sarà il caso di riportare almeno una breve sintesi.
Tolkien apparteneva alla minoranza cattolica inglese, che è una minoranza estremamente ristretta. Quando avviene di appartenere a un gruppo di questo tipo, ci spiegano i sociologi, più esso è minoritario, più è forte il senso di appartenenza ad esso dei suoi componenti, ed è una sorta di status ascritto che ha poco a che vedere con la visione del mondo che una persona si forma attraverso le esperienze nel corso della sua esistenza. Per questo motivo, non dovremmo stupirci troppo del fatto che le dichiarazioni di cristianesimo di Tolkien siano continuamente contraddette dalla Weltanschauung che emerge dalla sua opera letteraria; da essa se ne può desumere innanzi tutto una morale che non è certo quella cristiana, che non impone davvero di porgere l'altra guancia ai nemici, ma di fronteggiarli con le armi in pugno.
Non certo cristiana ma pagana e specificamente celtica è la concezione della regalità sacrale incarnata nel Signore degli anelli dalla figura di Aragorn. Il cristianesimo per sua natura non ammette altro potere non dico sacrale, ma nemmeno autonomo nella sfera civile che non dipenda dall'investitura da parte della Chiesa, e tutti sappiamo come questa pretesa durante l'età medievale abbia creato un conflitto permanente, una sorta di grande guerra civile europea a bassa intensità fra guelfi e ghibellini.
Il cristianesimo e la Chiesa cattolica pretendono di essere “nel mondo, ma non del mondo”. Se questa pretesa non fosse altro che una vanteria priva di fondamento, se davvero l'ideale avesse un peso maggiore dei calcoli politici, noi ci aspetteremmo che la Chiesa cattolica facesse quadrato attorno a qualcuno, soprattutto se “dei suoi”, che viene attaccato per la colpa di cercare onestamente la verità e tentare di farla conoscere... infatti!
Infatti il giornalista Maurizio Blondet allora collaboratore dell' “Avvenire”, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, che all'indomani dell'attentato dell'11 settembre 2001 fece uno splendido lavoro investigativo sull'attentato delle Twin Towers mettendo in evidenza tutte le contraddizioni e i punti oscuri della versione ufficiale dei fatti, che rendono estremamente improbabile che essa sia la verità, e danno invece ben più credibilità all'ipotesi che l'attentato sia stato organizzato dagli stessi servizi segreti americani per provocare un'ondata emotiva di utile sdegno patriottico, e condensò i risultati della sua ricerca nel libro Auto-attentato in USA, ebbe come premio, per il lavoro fatto, il licenziamento, la perdita dell'impiego.
Per un cattolico, essere troppo sincero è pericoloso, ma è probabile che già prima di allora Maurizio Blondet fosse un cattolico alquanto atipico. Nel libro pubblicato nel 2000 Gli “adelphi” della dissoluzione, Blondet riporta un'intervista che ebbe modo di fare al filosofo Massimo Cacciari nella quale l'accusa al cristianesimo di essere la causa remota della dissoluzione dell'ethos tradizionale della cultura europea, di avere la responsabilità diretta di tutti i fenomeni patologici della modernità, è riportata con una chiarezza solare che ci aspetteremmo da un Nietzsche o da un Evola, non certo da esponenti dell'intellettualità cattolica. Mi sono richiamato tante volte a questo brano, che a mio parere è fondamentale per capire la crisi di valori dell'epoca che stiamo vivendo, che adesso ho quasi pudore a riportarlo per l'ennesima volta: “Il Cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ethos" (...). Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell'Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L'ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l'uomo (...). La secolarizzazione totale che viviamo [è] figlia della sovversione originaria operata dal Cristianesimo”.
Nel corso dell'intervista, Blondet non esprime alcun moto di dissenso o di perplessità circa queste asserzioni, anzi, sembra condividerle pienamente, come si desume anche dal fatto che le ha riportate nel suo libro; il che, lo si ammetterà, per un cattolico intransigente, collaboratore di un giornale portavoce della CEI, è perlomeno strano.
Essendo, da quel che i suoi scritti lasciano intendere, un uomo di grande acume e profonda onestà intellettuale, Maurizio Blondet ha dimostrato più di altri di vivere il cristianesimo come una vera e propria camicia di forza intellettuale, con la consapevolezza che il conflitto fra la fede che si crede di dover professare e ciò che dicono la ragione e la sensibilità morale, può raggiungere livelli laceranti.
In uno scritto che mi dispiace di dover citare a memoria, del 2010, apparso sul suo sito “Effedieffe”, Blondet esprimeva delle profonde perplessità circa l'Antico Testamento, soprattutto là dove un Dio ben lontano dal mostrarsi “padre di tutte le genti” appare l'istigatore del più feroce sciovinismo etnico ebraico e, più che giustificare o invitare, ordina al “popolo eletto” la guerra, la violenza, lo sterminio delle altre popolazioni, la dimostrazione di un livello etico estremamente basso, preistorico, che lo stesso Blondet definisce “Un residuo dell'Età del Ferro”.
Considerazioni validissime e penetranti, alle quali si potrebbe aggiungere solo che occorre davvero chiedersi quanta cecità, quanta incapacità di vedere quello che si ha sotto gli occhi, ci voglia per ritenere “ispirato da Dio” un libro che propaganda ed esalta simili mostruosità.
A dire il vero, però, io ho l'impressione che sia proprio questo aspetto violento e preistorico della bibbia a spiegare la persistente fascinazione che essa continua ad avere negli Stati Uniti: gli yankee sono “un popolo” (un'accozzaglia multietnica) che, mentre ha conosciuto un imponente sviluppo tecnologico, mentalmente e culturalmente, dal livello della cultura europea da cui la maggior parte di loro proviene (o proveniva in passato, perché oggi i bianchi di origine europea stanno diventando una minoranza negli States) è regredito a una condizione da trogloditi.
Tuttavia lo scritto di Blondet che evidenzia forse meglio il distacco dell'autore dal giudeo-cristianesimo, dalla mentalità abramitica (che a me pare indiscutibile, sebbene lui stesso si ostini a non riconoscerlo), è probabilmente un altro, uno scritto del 2007 che egli presenta come una semiseria “divagazione domenicale”, proprio perché invece è una tematica di una serietà scottante.
L'articolo del 18.12.2007 parte prendendo spunto da un reportage sull'Iran del giornalista Bernard Guetta cui l'autore affianca la sua personale conoscenza di donne iraniane, che:«hanno un'aria meno islamica possibile e persino i veli, leggerissimi e sciolti, sembrano portati più che altro per sedurre. ... Chiunque sia stato in Iran conosce quelle seduzioni, quegli sguardi, quei veli civettuoli e così contrari a quelli che si vedono in Arabia, o anche sulle marocchine integraliste di Milano.
(...).
Ma colpiscono i lineamenti di quelle avvenenze iraniane: sono indubitabilmente, palesemente indo-europei. In altri tempi, si sarebbe detto di razza ariana, come infatti sono i persiani (...).
basta percorrere le strade e le case dell'India, l'eleganza delle figlie e delle mogli dei maharaja, la pelle bianca, la sinuosa figura e l'alta statura e talora gli occhi neroblù, per sentirsi fra «gente nostra»... è la sensazione che ebbero i greci delle falangi di Alessandro nell'Afghanistan allora buddhista - ancor oggi, certi poliziotti pashtun hanno profili barbuti da Pericle e da bronzi di Riace, cui manca solo l'elmo ellenico - e appena si affacciarono in India.
La lingua in qualche modo somigliava, si stupirono gli jonici.
Ma ancor più della lingua, doveva colpire qualcosa di essenziale: un certo rilievo orgoglioso del corpo, del corpo umano. Questo è forse, profondamente, ciò che fa di un arya un arya: l'eloquenza del corpo.
In India, la comunione si rivela nell'arte del Gandhara. La scultura alla greca fu subito, con intima simpatia, adottata in India. Ci restano quei Buddha giovinetti, dal corpo appena velato da panneggi di mussola trasparente, evocazione di atleti greci dalla grazia adolescente, amorosamente scolpiti da Skopas e da Fidia. Le giovinette nel fiore della pubertà, le korai ben panneggiate, mai nude, ma dal piccolo seno rilevato e rivelato dell'arte arcaica ellenica (...).
Anche oggi il sari indiano copre le gambe, ma rileva il seno, e mostra nude le braccia - le bianche braccia - e la curva del ventre. E il bramino giovane e casto va con il petto nudo senza imbarazzo, come un giovane ateniese del tempo di Fidia. Lieve, l'orgoglio ariano del corpo - regale e divino, atletico e adolescente - resta nell'induismo più puritano.
L'Islam ha coperto tutti i corpi, anche quelli ariani, anche quelli africani.
Dico la verità (e gli amici musulmani mi perdonino questa piccola malignità), fanno benissimo a coprire le loro donne, caviglie e volto, in informi abiti che non rivelano nulla. Le donne arabe e beduine, semite, ci guadagnano a non mostrarsi. Ma le donne iraniane ci guadagnano eroticamente a mostrarsi, e lo sanno benissimo: indomabile, l'orgoglio ariano del corpo vince le velature musulmane, la fa leggere e trasparenti, seduttive. Stiamo parlando della Persia, la più antica delle culture ariane (...).
Non a caso l'Islam vieta la raffigurazione del corpo umano, ne teme l'eros implicito, l'ombra di «divinità» immanente che rivela quando è perfetto”.
Il corpo come divinità immanente, come esteriorizzazione dell'anima, come rivelazione dell'innata, istintiva superiorità dell'uomo indoeuropeo, l'esistenza delle diverse “razze dell'anima”, precisamente quel che c'è bisogno di comprendere per confutare definitivamente l'universalismo giudeo-cristiano e islamico, e tutti i deleteri miti egualitari, democratici e marxisti che dal cristianesimo sono derivati.
Ne abbiano raggiunto la piena consapevolezza o meno, l'esame del pensiero di questi autori “cristiani”: Dante, Manzoni, Tolkien, tre scrittori, con tutte le differenze del caso, fra i più eminenti della letteratura mondiale, a cui ci sentiamo di accostare anche il nostro Blondet, dimostra con chiarezza una cosa, che i miti cristiani sono idoli vuoti e, come insegnava il grande Friedrich Nietzsche, basta percuoterli col martello di un intelletto vivace per avvertire il suono falso che ne emana.
Fabio Calabrese
(Fonte: http://www.ereticamente.net/)
Siria - Quel che succede a Damasco nel racconto di Marinella Correggia
Marinella Correggia
Ante Scripum: "Sono molto contento di questo reportage di Marinella Correggia.. che conosco personalmente da parecchi anni, una persona onesta e sincera, non si può dubitare di quanto scrive.. ve lo garantisco" (Paolo D'Arpini)
Mina, l'egiziano
Nella “chiesa più antica del mondo”, quella di Anania (ridiede la vista e battezzò Saulo di Tarso) il custode egiziano copto spiega che le circa cento famiglie di suoi connazionali sono tutte tornate in patria: soprattutto perché i ristoranti dove erano impiegati lavorano molto meno. “Dal Cairo mia sorella mi telefona inquieta” spiega il signor Mina, “il dominio dei Fratelli musulmani si sente, altro che rivoluzione”. Ma hanno votato, gli egiziani…”Mi dirai che sono stati comprati. Sono corsi fiumi di soldi – esteri – per indirizzare questo voto, hanno sfruttato la debolezza, la povertà delle persone”.
Nella Chiesa ogni sera il sacerdote Idlib (che ha vissuto a Roma e parla italiano) guida un gruppo di meditazione per la pace in Siria: “Ieri abbiamo detto rosari per tre ore. Siamo confidenti…”. Anche lui ce l’ha con le bugie e la propaganda internazionali e con “questi mafiosi” (i gruppi armati e islamisti) che “obbligano le persone a scappare dalle loro case, terrorizzano, uccidono”. Nella tranquillità di questa chiesa, Mina ascolta quel che le tivù del paese dicono.
Gaith, di Homs
Un racconto più diretto, su Homs, viene da Gaith (“Pioggia”), studente alla facoltà di odontoiatria che va a Homs tutti i mesi a trovare la famiglia abitante nel quartiere Al Zahra. Ecco la sua verità. “I terroristi si erano insediati nei quartieri di Baba Amr e Khalidya (che è vicino ad Al Zahra) e volevano fare di quelle aree un’altra Bengasi, anzi forse un altro Afghanistan islamico. Volevano occupare tutta Homs forse. Intanto il mio quartiere era quasi accerchiato, era pericoloso uscire per andare a lavorare altrove; si rischiavano rapimenti, uccisioni di alaouiti, cristiani, e sunniti che non stavano con i terroristi.
Da Khalidya e Bara Amr arrivavano a Zahra e Akrama attacchi come quello che ha ucciso il giornalista francese (Gilles Jacquier, ad Akrama, ndr). No, non so dire da dove vengono i terroristi; mi dicono che ci sono prove di tante presenze di stranieri”. Come mai in febbraio è arrivato l’esercito ad accerchiare Baba Amr? Prima di febbraio l’esercito non c’era a Homs, c’era solo la polizia. Il governo aveva mandato in quei quartieri dei religiosi per negoziare ma non hanno voluto. Allora per proteggere i civili è arrivato l’esercito, a febbraio. Da Baba Amr se ne sono andati quasi tutti i civili che non fanno la guerra. Questi ultimi hanno distrutto o saccheggiato tante case”.
I media dicono che l’esercito ha ucciso tanti civili a Homs… ”Forse dei civili sono morti fra i due fuochi. Ma tanti uccisi non erano civili, erano ben armati”.
E la strage di Karm Zeitoun, tutti quei morti che abbiamo visto negli orribili video diffusi in marzo? “Sono stati i terroristi. L’hanno detto anche i parenti sopravvissuti”.
Ma all’inizio della crisi le manifestazioni erano pacifiche e sono state represse? “Io in marzo 2011 ho visto alla tivù Addounya una manifestazione a Nazihine, vicino a Karm Zeitoun, ho riconosciuto la zona. Ebbene c’erano persone armate. All’inizio sparavano in aria. E ad aprile a Idlib hanno iniziato a uccidere la polizia. Certi video mostravano anche cecchini dall’alto delle case”.
Com’è la situazione a Homs? “Adesso rimangono gruppi armati a Baba Amr e Khalidya”. Cosa pensi della Free Syrian Army? “Che non è vero che sono soprattutto disertori dell’esercito e civili. Sono islamisti, non rivoluzionari. Questa è la rivoluzione? Uccidere? Sono Fratelli musulmani come quelli che hanno vinto in Egitto. E sono ben armati dall’esterno, dai cosiddetti amici della Siria”. All’università hai compagni che sono con l’opposizione? “Sì, ad esempio alcuni di Idlib ma loro non vogliono discutere, e dicono che uccidere i soldati è giusto. E’ meglio l’opposizione non armata, che vuole una Siria unita e in pace”. Appello: “Chiediamo al governo italiano di non stare con chi protegge i terroristi. Ma solo Cina e Russia vogliono il dialogo e non la guerra in Siria”.
Sguardi latinoamericani
Non solo Russia e Cina, per la verità. Le posizioni dei paesi dell’America Latina tanto amati dalla “sinistra” occidentale non sono da questa prese in alcuna considerazione quando si ha a che fare con la Libia e la Siria. Cuba ha di nuovo chiesto all’Onu una commissione di inchiesta sui bombardamenti Nato in Libia e ha denunciato la guerra mediatica contro la Siria. Una narrazione alla quale Martin Hatchoun, inviato cubano di Prensa Latina, in Siria da sei mesi, non crede.
Martin racconta alcuni episodi che danno l’idea della grande confusione. Anche terminologica: “Gli oppositori sono sempre chiamati attivisti per i diritti; e anche se sono armatissimi sono sempre messi nella categoria dei civili”.
Le bugie sono di tutti i tipi e contano sul fatto che una volta dette, rimangono depositate e vai a smentirle. “Nel quartiere Mezzeh nel quale abitavo, un’operazione molto precisa delle forze di polizia contro un appartamento che ospitava cellule armate e che è stato l’unico danneggiato dalle sparatorie, è diventata sui media internazionali – primo lancio la Reuters – una manifestazione repressa nel sangue. Massacri come quello di Karm Zeitoun a Homs per i quali si è incolpato l’esercito, quando questo si è rivelato falso, la notizia non è però circolata”. Oppure “Al Jazeera intervista un “osservatore dell’Onu” il quale spiega della grande crudeltà del regime; poi la stessa Lega Araba smentisce il ruolo dell’uomo, ma chi se ne accorge?”.
Un caso che ha colpito molto i media è stata la piccola Afef, pochi mesi: secondo l’opposizione e molti media era morta in carcere per le torture. “Solo che la madre, di Homs, ha spiegato pubblicamente che la bambina era in ospedale ed è morta di malattia e ha mostrato il certificato medico”. Un altro è stato Suri, otto anni: piccola vittima dei miliziani di Assad con scandalo internazionale? Così pareva, “e invece la madre nel video urlava disperata che se lì ci fosse stato l’esercito il bambino sarebbe ancora vivo”.
E le foto dell’Afghanistan spacciate per siriane. E il video dei maltrattamenti di presunti prigionieri, che in realtà si riferiva al Libano del 2008. E il giorno del referendum, “che io ho visto tranquillo ma la Bbc per il mondo latino parlava- come se fosse stata qui – di bombardamenti dell’esercito con morti”.
Cinecittà mediorientale: “Un siriano all’inizio della crisi sta con l’opposizione e scappa in Turchia dove però vede approntata una specie di fabbrica del falso nel Centro per i media; tornato in Siria ha raccontato tutto”.
Martin conclude dicendo che, “se senti la gente nelle strade, al contrario di quel che si dice nel mondo dei media, tutti vogliono che l’esercito agisca con più decisione, la faccia finita con i gruppi armati”.
Che ci sia dietro una “conspiracion” è evidente ai latinoamericani che hanno partecipato alla delegazione in Siria del World Peace Council (Wpc) e della World Federation of Democratic Youth (Wfdy), su invito dell’Unione nazionale degli studenti (Nuss) con 29 delegati da 24 paesi (Cuba, Venezuela, Sudafrica, India, Nepal, Russia, Belgio, Italia, ecc.). Socorro Gomes, presidente brasiliana del Wpc, riassume in “Nato, basi militari americane nel mondo, ingerenza destabilizzante“ gli strumenti militar-umanitari da combattere. Per il deputato comunista venezuelano Jul Jabrul, la missione in Siria era di solidarietà più che di accertamento dei fatti perché “non abbiamo bisogno di riprove per capire che è in atto una cospirazione armata, e una guerra mediatica”.
Insomma non solo non credono ai media ma ritengono che il “fronte siriano” sia cruciale nella lotta antimperialista. (Come ha riassunto un delegato portoghese: “Non è necessario chela Siria sia un paradiso, per ritenerla cruciale nella lotta antiimperialista. Ulteriore riassunto: “Deve essere il popolo del paese a decidere, non le potenze internazionali e i loro alleati petromonarchici”.
Tutto ciò mentre la Reuters continua a inserire ovunque – per universale circolazione- la frase magica “L’Onu dice che Assad ha ucciso novemila persone” (l’Onu in realtà – pur attingendo solo a fonti dell’opposizione – parla di “novemila vittime nelle violenze e negli scontri”), gli abitanti di Damasco cercano di non pensare troppo al pericolo di altre attentati suicidi come quello che ha fatto una strage nel quartiere di Maidan, il 27 aprile.
Così, sembra una città normale mentre si passeggia di sera al “mercato dei poltroni” (così chiamato perché i banchi vendono anche ortaggi già tagliati e pronti all’uso, una specie di quarta gamma sfusa e a buon prezzo).
Marinella Correggia
(Fonte di questo articolo: http://www.sibialiria.org/)
Altri articoli di Marinella Correggia: http://www.circolovegetarianocalcata.it/?s=marinella+correggia+siria
Ante Scripum: "Sono molto contento di questo reportage di Marinella Correggia.. che conosco personalmente da parecchi anni, una persona onesta e sincera, non si può dubitare di quanto scrive.. ve lo garantisco" (Paolo D'Arpini)
Mina, l'egiziano
Nella “chiesa più antica del mondo”, quella di Anania (ridiede la vista e battezzò Saulo di Tarso) il custode egiziano copto spiega che le circa cento famiglie di suoi connazionali sono tutte tornate in patria: soprattutto perché i ristoranti dove erano impiegati lavorano molto meno. “Dal Cairo mia sorella mi telefona inquieta” spiega il signor Mina, “il dominio dei Fratelli musulmani si sente, altro che rivoluzione”. Ma hanno votato, gli egiziani…”Mi dirai che sono stati comprati. Sono corsi fiumi di soldi – esteri – per indirizzare questo voto, hanno sfruttato la debolezza, la povertà delle persone”.
Nella Chiesa ogni sera il sacerdote Idlib (che ha vissuto a Roma e parla italiano) guida un gruppo di meditazione per la pace in Siria: “Ieri abbiamo detto rosari per tre ore. Siamo confidenti…”. Anche lui ce l’ha con le bugie e la propaganda internazionali e con “questi mafiosi” (i gruppi armati e islamisti) che “obbligano le persone a scappare dalle loro case, terrorizzano, uccidono”. Nella tranquillità di questa chiesa, Mina ascolta quel che le tivù del paese dicono.
Gaith, di Homs
Un racconto più diretto, su Homs, viene da Gaith (“Pioggia”), studente alla facoltà di odontoiatria che va a Homs tutti i mesi a trovare la famiglia abitante nel quartiere Al Zahra. Ecco la sua verità. “I terroristi si erano insediati nei quartieri di Baba Amr e Khalidya (che è vicino ad Al Zahra) e volevano fare di quelle aree un’altra Bengasi, anzi forse un altro Afghanistan islamico. Volevano occupare tutta Homs forse. Intanto il mio quartiere era quasi accerchiato, era pericoloso uscire per andare a lavorare altrove; si rischiavano rapimenti, uccisioni di alaouiti, cristiani, e sunniti che non stavano con i terroristi.
Da Khalidya e Bara Amr arrivavano a Zahra e Akrama attacchi come quello che ha ucciso il giornalista francese (Gilles Jacquier, ad Akrama, ndr). No, non so dire da dove vengono i terroristi; mi dicono che ci sono prove di tante presenze di stranieri”. Come mai in febbraio è arrivato l’esercito ad accerchiare Baba Amr? Prima di febbraio l’esercito non c’era a Homs, c’era solo la polizia. Il governo aveva mandato in quei quartieri dei religiosi per negoziare ma non hanno voluto. Allora per proteggere i civili è arrivato l’esercito, a febbraio. Da Baba Amr se ne sono andati quasi tutti i civili che non fanno la guerra. Questi ultimi hanno distrutto o saccheggiato tante case”.
I media dicono che l’esercito ha ucciso tanti civili a Homs… ”Forse dei civili sono morti fra i due fuochi. Ma tanti uccisi non erano civili, erano ben armati”.
E la strage di Karm Zeitoun, tutti quei morti che abbiamo visto negli orribili video diffusi in marzo? “Sono stati i terroristi. L’hanno detto anche i parenti sopravvissuti”.
Ma all’inizio della crisi le manifestazioni erano pacifiche e sono state represse? “Io in marzo 2011 ho visto alla tivù Addounya una manifestazione a Nazihine, vicino a Karm Zeitoun, ho riconosciuto la zona. Ebbene c’erano persone armate. All’inizio sparavano in aria. E ad aprile a Idlib hanno iniziato a uccidere la polizia. Certi video mostravano anche cecchini dall’alto delle case”.
Com’è la situazione a Homs? “Adesso rimangono gruppi armati a Baba Amr e Khalidya”. Cosa pensi della Free Syrian Army? “Che non è vero che sono soprattutto disertori dell’esercito e civili. Sono islamisti, non rivoluzionari. Questa è la rivoluzione? Uccidere? Sono Fratelli musulmani come quelli che hanno vinto in Egitto. E sono ben armati dall’esterno, dai cosiddetti amici della Siria”. All’università hai compagni che sono con l’opposizione? “Sì, ad esempio alcuni di Idlib ma loro non vogliono discutere, e dicono che uccidere i soldati è giusto. E’ meglio l’opposizione non armata, che vuole una Siria unita e in pace”. Appello: “Chiediamo al governo italiano di non stare con chi protegge i terroristi. Ma solo Cina e Russia vogliono il dialogo e non la guerra in Siria”.
Sguardi latinoamericani
Non solo Russia e Cina, per la verità. Le posizioni dei paesi dell’America Latina tanto amati dalla “sinistra” occidentale non sono da questa prese in alcuna considerazione quando si ha a che fare con la Libia e la Siria. Cuba ha di nuovo chiesto all’Onu una commissione di inchiesta sui bombardamenti Nato in Libia e ha denunciato la guerra mediatica contro la Siria. Una narrazione alla quale Martin Hatchoun, inviato cubano di Prensa Latina, in Siria da sei mesi, non crede.
Martin racconta alcuni episodi che danno l’idea della grande confusione. Anche terminologica: “Gli oppositori sono sempre chiamati attivisti per i diritti; e anche se sono armatissimi sono sempre messi nella categoria dei civili”.
Le bugie sono di tutti i tipi e contano sul fatto che una volta dette, rimangono depositate e vai a smentirle. “Nel quartiere Mezzeh nel quale abitavo, un’operazione molto precisa delle forze di polizia contro un appartamento che ospitava cellule armate e che è stato l’unico danneggiato dalle sparatorie, è diventata sui media internazionali – primo lancio la Reuters – una manifestazione repressa nel sangue. Massacri come quello di Karm Zeitoun a Homs per i quali si è incolpato l’esercito, quando questo si è rivelato falso, la notizia non è però circolata”. Oppure “Al Jazeera intervista un “osservatore dell’Onu” il quale spiega della grande crudeltà del regime; poi la stessa Lega Araba smentisce il ruolo dell’uomo, ma chi se ne accorge?”.
Un caso che ha colpito molto i media è stata la piccola Afef, pochi mesi: secondo l’opposizione e molti media era morta in carcere per le torture. “Solo che la madre, di Homs, ha spiegato pubblicamente che la bambina era in ospedale ed è morta di malattia e ha mostrato il certificato medico”. Un altro è stato Suri, otto anni: piccola vittima dei miliziani di Assad con scandalo internazionale? Così pareva, “e invece la madre nel video urlava disperata che se lì ci fosse stato l’esercito il bambino sarebbe ancora vivo”.
E le foto dell’Afghanistan spacciate per siriane. E il video dei maltrattamenti di presunti prigionieri, che in realtà si riferiva al Libano del 2008. E il giorno del referendum, “che io ho visto tranquillo ma la Bbc per il mondo latino parlava- come se fosse stata qui – di bombardamenti dell’esercito con morti”.
Cinecittà mediorientale: “Un siriano all’inizio della crisi sta con l’opposizione e scappa in Turchia dove però vede approntata una specie di fabbrica del falso nel Centro per i media; tornato in Siria ha raccontato tutto”.
Martin conclude dicendo che, “se senti la gente nelle strade, al contrario di quel che si dice nel mondo dei media, tutti vogliono che l’esercito agisca con più decisione, la faccia finita con i gruppi armati”.
Che ci sia dietro una “conspiracion” è evidente ai latinoamericani che hanno partecipato alla delegazione in Siria del World Peace Council (Wpc) e della World Federation of Democratic Youth (Wfdy), su invito dell’Unione nazionale degli studenti (Nuss) con 29 delegati da 24 paesi (Cuba, Venezuela, Sudafrica, India, Nepal, Russia, Belgio, Italia, ecc.). Socorro Gomes, presidente brasiliana del Wpc, riassume in “Nato, basi militari americane nel mondo, ingerenza destabilizzante“ gli strumenti militar-umanitari da combattere. Per il deputato comunista venezuelano Jul Jabrul, la missione in Siria era di solidarietà più che di accertamento dei fatti perché “non abbiamo bisogno di riprove per capire che è in atto una cospirazione armata, e una guerra mediatica”.
Insomma non solo non credono ai media ma ritengono che il “fronte siriano” sia cruciale nella lotta antimperialista. (Come ha riassunto un delegato portoghese: “Non è necessario chela Siria sia un paradiso, per ritenerla cruciale nella lotta antiimperialista. Ulteriore riassunto: “Deve essere il popolo del paese a decidere, non le potenze internazionali e i loro alleati petromonarchici”.
Tutto ciò mentre la Reuters continua a inserire ovunque – per universale circolazione- la frase magica “L’Onu dice che Assad ha ucciso novemila persone” (l’Onu in realtà – pur attingendo solo a fonti dell’opposizione – parla di “novemila vittime nelle violenze e negli scontri”), gli abitanti di Damasco cercano di non pensare troppo al pericolo di altre attentati suicidi come quello che ha fatto una strage nel quartiere di Maidan, il 27 aprile.
Così, sembra una città normale mentre si passeggia di sera al “mercato dei poltroni” (così chiamato perché i banchi vendono anche ortaggi già tagliati e pronti all’uso, una specie di quarta gamma sfusa e a buon prezzo).
Marinella Correggia
(Fonte di questo articolo: http://www.sibialiria.org/)
Altri articoli di Marinella Correggia: http://www.circolovegetarianocalcata.it/?s=marinella+correggia+siria
domenica 29 aprile 2012
Il costo di gestione delle banconote è di molto inferiore al costo della moneta elettronica
Il costo di gestione della moneta fisica, ovvero della banconota di carta, è di gran lunga inferiore a quello della moneta elettronica; chi è quel tendenzioso che dice il contrario? Ovviamente la banconota deve girare libera, fuori dall'attuale sistema bancario, altrimenti il suo costo di gestione diventa quello - altissimo - della moneta elettronica.
Lasciatemi spiegare. Stampare una banconota costa 2 €cent, ovvero 0,02€, e la circolazIone della stessa poi non costa nulla; io la passo a te, tu la passi a me..... Ci paghi l'iva e le tasse, ma a parte questo nessuno ci guadagna, nessuno ci lucra. La banconota è solo un utile mezzo per facilitare lo scambio, il baratto; è un mezzo facilitatore, non deve essere una fonte di guadagno per gli intermediari dello scambio, nè essere presente in modo insufficiente diventando fattore limitante degli scambi. Ció in effetti accade finchè le banconote girano liberamente e in quantità adeguata, ovvero finchè la banca non ci mette lo zampino. Se io infatti faccio l'errore di depositare la banconota in banca e ritiro al bankomat i miei 100€, la mia banca si tiene 1.5€, ovvero l'1.5%. Se riverso quella banconota in banca e poi la ritiro al Bankomat per 67 volte, i 100€ sono spariti: se li è pappati la banca. E lì possiamo eccepire che pagare il bancario per mettere i soldi nel bancomat ha un costo che devo pagare, ma la giustificazione non regge nel caso delle transazioni bancarie con denaro virtuale: la banca si tiene la sua percentuale, e con una serie di passaggi che non sono neanche tanti si mangia tutto il capitale. Con rischio zero e fatica zero: oggi i software bancari te li tirano dietro, e puoi trasferire milioni con un "click". A Wörgel la moneta indipendente creata dal Comune nel 1932 passava di mano 57 volte all'anno. Gratis.
Vuol dire che, solo il primo anno e poi "a gratis", il costo di ogni transazione era di 0,02 centesimi di € diviso 57 transazioni, 0,00035€ a transazione, ovvero neanche un 3millesimo di quanto mi chiede la banca per fare la stessa operazione. Inoltre, una volta pagati i 2 centesimi di costo della banconota, anche quella briciola non c'è più: l'uso del denaro diventa gratuito, e la banconota è nostra, NON delle banche centrali come accade tuttora, NON a debito com'è oggi. È finalmente nostra, il mondo è finalmente senza debiti. Chiaramente occorre che il denaro in circolazione sia sufficiente, altrimenti siamo obbligati continuamente ad andare in banca o al Bankomat. Cui prodest? Alla banca naturalmente, che ci lucra. Ed ha come scusa alla limitazione del circolante adduce l'esigenza di controllare ill circolante per evitare il riciclaggio.
A questo punto dobbiamo spendere due parole sul riciclaggio. Per riciclaggio, "Money laundry" in inglese ovvero "lavaggio di denaro", si intende rimettere in circolo denaro già esistente ma che ha mediato operazioni illecite.
E per azioni illecite uno di aspetta che si intendano cose "brutte", non etiche. Immaginate il traffico di organi dei bambini del terzo mondo, i soldi derivati da furti, dalla vendita d'armi, dalla vendita di droga pesante a minorenni, dal finanziamento illegali dei partiti, dai furti della Tav, dai furti della Casta, i furti della Chiesa.....
Invece nel capitolo "riciclaggio" sono compresi soprattuttoi soldi "in nero", ovvero derivati da normalissime transazioni commerciali che non vogliono sottostare alla manovra di rastrellamento di denaro del Bankiere, al pizzo di Agenzia Entrate ed Equitalia che lo appoggiano. E vengono quindi equiparati a soldi derivati da attività criminali, e l'evasore viene dipinto dai media come un criminale. Quando invece il criminale è il banchiere, il politico-banchiere che ha invaso il vertice del potere ed ha come unico scopo il saccheggio di Stato e Popolazione.
Ma i monumenti si fanno ai soldati morti per le banche credendo di morire per la patria, non ai disertori che saggiamente si rifiutavano di sparare a degli sconosciuti per far piacere ai padroni, e così ora sui giornali - tutti di potere- finiscono In prima pagina con onori e gloria i paladini del sistema mafio-politico-finanziario, mentre nella cronaca nera ci finiscono i coraggiosi che hanno le palle di ribellarsi al furto statale di denaro, quelli che e per sopravvivere evadono l'estorsione - pardon-le tasse.
Una cosa peró da puntualizzare sul riciclaggio è che vi è un riciclaggio a monte della creazione del denaro, ed è insito nella creazione del denaro.
Tutto il denaro infatti è da considerarsi riciclato dal momento della creazione, in quando derivante da un'attività criminale legalizzata grazie a infiltrazioni bancarie nei vertici politici che permettono all'organizzazione ologarchica delle banche centrali di creare denaro in proprio in cambio di Titoli di Stato, ovvero dei titoli che indebitano le Nazioni per sempre, con un meccanismo che si autoalimenta, è insolvibile, e finisce per mettere in ginocchio le Nazioni.
All'inizio era l'ex Governatore di Bankitalia che con ovvio conflitto di interessi saliva ai vertici politici. Ora metà dello Staff del Governo è formato da Bankieri che con ovvio conflitto d'interessi depredano lo Stato. Come? Continiando il micidiale meccanismo della creazione di denaro con creazine di debito pubblico (ovvero non riprendendosi la sovranità monetaria), e togliendo liquidità dalla circolazione con la scusa di far quadrare i bilanci statali.
Ma senza denaro in circolazione l'economia non gira!!
Siamo in una grave rarefazione monetaria, semplicisticamente chiamata "deflazione", creata con la scusa di evitare la temuta Inflazione. Ma la virtuosa Euflazione dov'è? Perchè non si mira ad una liquiditá adeguata a soddisfare le esigenze dei cittadini lavoratori in primis? La scaletta dei sacrifici attualmente è: Cittadini, Stato, Bankieri. Dovrebbe essere l'opposto. Sono i Cittadini che dovrebbero avere banconote a disposizione per far girare l'economia. Se è vero che il Money supply è uno stimato €6.000 miliardi, pgni cittadino dovrebbe avere a disposizione, di sua proprietá, 100.000€. Che servono per le transazioni, privi di interessi, privi di costi bancari.
Ma questo le banche lo odiano e il mestiere dell'Usura lo vieta. È per questo che vi vogliono far credere che il denaro elettronico costa meno. In effetti è vero, costa di meno a crearlo, ma oltre a costare mille volte di più la gestione, ha i seguenti svantaggi per il Cittadino: ci tiene controllati a ogni transazione, lucra su ogni operazione; se Draghi, Monti o la Goldman Sachs non ci eroga più il denaro in modo mirato o generalizzato, se si rompe il computer e il bankomat siamo a piedi. E così la banca fá di noi ció che vuole.
Chi se non un bankiere o un servo dei bankiere vorrebbe solo la moneta elettronica?
Antonio Miclavez
sabato 28 aprile 2012
Lodo e lodini del governo "tecnico".. pro domo sua
Laudetur Priapus semper
Sono diventati un bel po', motivo per cui serve un riepilogo: si tratta dei lodi e "lodini" del governo, quei provvedimenti ad personas o ad aziendas infilati da burocrati e professori nelle loro "riforme di struttura".
BANCHE E D&G.
"Ci sono decine di posizioni aperte per pratiche di elusione fiscale, alcune anche molto grosse: non vorrei che da questa delega venisse fuori una sanatoria per il pregresso". Vincenzo Visco, già ministro delle Finanze con Prodi, l'uomo delle tasse su cui il Pdl ha fatto un paio di campagne elettorali, è parecchio preoccupato dall'articolo 9 della delega fiscale approvata dal governo: i bocconiani, infatti, promettono di depenalizzare l'elusione fiscale, recentemente inclusa tra le fattispecie penali da una sentenza della Cassazione.
A quel punto - per impedire cortocircuiti tra vecchie e nuove norme, tra legge e giurisprudenza - cosa c'è di meglio di una bella sanatoria per il passato? Anche se così non fosse, comunque, il decreto attuativo del governo, quando sarà varato, finirà per influire su processi e indagini in corso.
BELLAVISTA CALTAGIRONE
Sono le "posizioni aperte, anche molto grosse" di cui parla Visco: gli stilisti Dolce e Gabbana, intanto, che la Suprema Corte ha rinviato in appello proprio considerando reati alcune pratiche elusive, Unicredit, i cui vertici sono indagati a Milano per aver sottratto all'erario 750 milioni di profitti, e buona parte delle principali banche italiane, già finite nel mirino del fisco per le stesse pratiche (Intesa, Mps, Popolare di Milano, etc). Caltagirone & Co.
Tra i "lodini" del governo tecnico va citato anche il nuovo regolamento sui requisiti di onorabilità per i manager delle assicurazioni: un testo partorito dal ministro berlusconiano Paolo Romani, ma "vistato" e pubblicato dall'attuale titolare della Giustizia. Vi si prevede che l'amministratore o alto dirigente di assicurazioni condannato per reati finanziari (e, sopra una certa soglia, anche d'altro genere ) venga sospeso dal suo incarico.
Bene, si dirà. Peccato che la norma, entrata in vigore il 24 gennaio, non sia retroattiva e così Francesco Gaetano Caltagirone (già cliente dell'allora avvocato Severino), condannato ad ottobre per la scalata dei "furbetti" a Bnl, è potuto restare al suo posto di vicepresidente di Generali, così come ha potuto tenersi la poltrona l'ad di Unipol Carlo Cimbri, condannato nello stesso processo. Non solo: visto che le nuove regole non si applicano ai processi in corso, i due - se non finiscono di nuovo alla sbarra - possono stare tranquilli per sempre.
DOLCE GABBANA SUPERBUROCRATI.
In un decretino del 24 marzo, quello che "restituisce" alle banche le commissioni sui fidi, c'è un altro piccolo comma, notato ieri dall'Unità. È un emendamento al tetto agli stipendi per i manager di Stato: in sostanza prevede, per quelli che avrebbero potuto andare in pensione a dicembre ma sono ancora al loro posto, che la decurtazione dello stipendio non si rifletta sulla pensione. Quante persone riguarda? "Non lo so, massimo 5 o 10 - spiega il sottosegretario Gian-franco Polillo - Prendiamo il caso del ragioniere generale Mario Canzio: stipendio dimezzato, pensione pure, magari decideva di ritirarsi subito visto che poteva e noi non volevamo trovarci in difficoltà in quella o altre posizioni delicate".
UNICREDIT BERLUSCONI.
Ai più maliziosi, l'emendamento del Guardasigilli al ddl anti-corruzione può ricordare i fasti dell'epoca del Cavaliere. Il testo della Severino, infatti, potrebbe incidere non poco sul processo Ruby: la norma riscritta, spiega la relazione tecnica, non solo provvede infatti a "circoscrivere la concussione", ma anche ad una "netta differenziazione delle ipotesi di costrizione e induzione " con relativa diversità di pena e tempi di prescrizione. L'ex premier costrinse o indusse la Questura ad affidare Ruby a Nicole Minetti? È il crinale sottile su cui si giocherà la partita.
BANCA INTESA BERTOLASO & CO.
Un altro souvenir d'antan è un piccolo articolo contenuto nel ddl di riforma della Protezione civile, approvato per ora solo in via preliminare: prima che il testo sia definitivo serve il via libera delle Regioni (e per ora non c'è), ma ad oggi all'articolo 10 si legge che "in considerazione dell'incertezza dei fenomeni e della speciale difficoltà tecnica connessa alla valutazione dei rischi (...) il soggetto incaricato dell'attività di previsione e prevenzione è responsabile solo in caso di dolo o colpa grave". Si tratta di una specie di norma interpretativa che potrebbe avere effetti "sterilizzatori" sul processo alla commissione Grandi Rischi per la mancata evacuazione de L'Aquila prima del terremoto del 2009, a margine del quale è indagato anche Guido Bertolaso.
CORALLO.
Trattasi di Francesco, imprenditore del gioco d'azzardo con ottime entrature nella fu Alleanza nazionale, e figlio di Gaetano, in stretti rapporti con Nitto Santapaola e già condannato per associazione a delinquere semplice . Al povero Corallo jr era successo che la legge sulle nuove concessioni per le slot machine lo escludesse dalla spartizione della torta: prevedeva infatti il divieto per indagati e condannati di mafia, inclusi i coniugi e i parenti fino al terzo grado. Fortuna che un emendamento (parlamentare, ma col parere favorevole del governo) al dl liberalizzazioni abbia fatto sparire quella previsione: no a condannati e indagati e ai loro coniugi, via libera per tutti gli altri.
Marco Palombi - Fatto Quotidiano
(Fonte secondaria: La Tua Voce)
Sono diventati un bel po', motivo per cui serve un riepilogo: si tratta dei lodi e "lodini" del governo, quei provvedimenti ad personas o ad aziendas infilati da burocrati e professori nelle loro "riforme di struttura".
BANCHE E D&G.
"Ci sono decine di posizioni aperte per pratiche di elusione fiscale, alcune anche molto grosse: non vorrei che da questa delega venisse fuori una sanatoria per il pregresso". Vincenzo Visco, già ministro delle Finanze con Prodi, l'uomo delle tasse su cui il Pdl ha fatto un paio di campagne elettorali, è parecchio preoccupato dall'articolo 9 della delega fiscale approvata dal governo: i bocconiani, infatti, promettono di depenalizzare l'elusione fiscale, recentemente inclusa tra le fattispecie penali da una sentenza della Cassazione.
A quel punto - per impedire cortocircuiti tra vecchie e nuove norme, tra legge e giurisprudenza - cosa c'è di meglio di una bella sanatoria per il passato? Anche se così non fosse, comunque, il decreto attuativo del governo, quando sarà varato, finirà per influire su processi e indagini in corso.
BELLAVISTA CALTAGIRONE
Sono le "posizioni aperte, anche molto grosse" di cui parla Visco: gli stilisti Dolce e Gabbana, intanto, che la Suprema Corte ha rinviato in appello proprio considerando reati alcune pratiche elusive, Unicredit, i cui vertici sono indagati a Milano per aver sottratto all'erario 750 milioni di profitti, e buona parte delle principali banche italiane, già finite nel mirino del fisco per le stesse pratiche (Intesa, Mps, Popolare di Milano, etc). Caltagirone & Co.
Tra i "lodini" del governo tecnico va citato anche il nuovo regolamento sui requisiti di onorabilità per i manager delle assicurazioni: un testo partorito dal ministro berlusconiano Paolo Romani, ma "vistato" e pubblicato dall'attuale titolare della Giustizia. Vi si prevede che l'amministratore o alto dirigente di assicurazioni condannato per reati finanziari (e, sopra una certa soglia, anche d'altro genere ) venga sospeso dal suo incarico.
Bene, si dirà. Peccato che la norma, entrata in vigore il 24 gennaio, non sia retroattiva e così Francesco Gaetano Caltagirone (già cliente dell'allora avvocato Severino), condannato ad ottobre per la scalata dei "furbetti" a Bnl, è potuto restare al suo posto di vicepresidente di Generali, così come ha potuto tenersi la poltrona l'ad di Unipol Carlo Cimbri, condannato nello stesso processo. Non solo: visto che le nuove regole non si applicano ai processi in corso, i due - se non finiscono di nuovo alla sbarra - possono stare tranquilli per sempre.
DOLCE GABBANA SUPERBUROCRATI.
In un decretino del 24 marzo, quello che "restituisce" alle banche le commissioni sui fidi, c'è un altro piccolo comma, notato ieri dall'Unità. È un emendamento al tetto agli stipendi per i manager di Stato: in sostanza prevede, per quelli che avrebbero potuto andare in pensione a dicembre ma sono ancora al loro posto, che la decurtazione dello stipendio non si rifletta sulla pensione. Quante persone riguarda? "Non lo so, massimo 5 o 10 - spiega il sottosegretario Gian-franco Polillo - Prendiamo il caso del ragioniere generale Mario Canzio: stipendio dimezzato, pensione pure, magari decideva di ritirarsi subito visto che poteva e noi non volevamo trovarci in difficoltà in quella o altre posizioni delicate".
UNICREDIT BERLUSCONI.
Ai più maliziosi, l'emendamento del Guardasigilli al ddl anti-corruzione può ricordare i fasti dell'epoca del Cavaliere. Il testo della Severino, infatti, potrebbe incidere non poco sul processo Ruby: la norma riscritta, spiega la relazione tecnica, non solo provvede infatti a "circoscrivere la concussione", ma anche ad una "netta differenziazione delle ipotesi di costrizione e induzione " con relativa diversità di pena e tempi di prescrizione. L'ex premier costrinse o indusse la Questura ad affidare Ruby a Nicole Minetti? È il crinale sottile su cui si giocherà la partita.
BANCA INTESA BERTOLASO & CO.
Un altro souvenir d'antan è un piccolo articolo contenuto nel ddl di riforma della Protezione civile, approvato per ora solo in via preliminare: prima che il testo sia definitivo serve il via libera delle Regioni (e per ora non c'è), ma ad oggi all'articolo 10 si legge che "in considerazione dell'incertezza dei fenomeni e della speciale difficoltà tecnica connessa alla valutazione dei rischi (...) il soggetto incaricato dell'attività di previsione e prevenzione è responsabile solo in caso di dolo o colpa grave". Si tratta di una specie di norma interpretativa che potrebbe avere effetti "sterilizzatori" sul processo alla commissione Grandi Rischi per la mancata evacuazione de L'Aquila prima del terremoto del 2009, a margine del quale è indagato anche Guido Bertolaso.
CORALLO.
Trattasi di Francesco, imprenditore del gioco d'azzardo con ottime entrature nella fu Alleanza nazionale, e figlio di Gaetano, in stretti rapporti con Nitto Santapaola e già condannato per associazione a delinquere semplice . Al povero Corallo jr era successo che la legge sulle nuove concessioni per le slot machine lo escludesse dalla spartizione della torta: prevedeva infatti il divieto per indagati e condannati di mafia, inclusi i coniugi e i parenti fino al terzo grado. Fortuna che un emendamento (parlamentare, ma col parere favorevole del governo) al dl liberalizzazioni abbia fatto sparire quella previsione: no a condannati e indagati e ai loro coniugi, via libera per tutti gli altri.
Marco Palombi - Fatto Quotidiano
(Fonte secondaria: La Tua Voce)
venerdì 27 aprile 2012
Fukushima: nessun tsunami bensì il secondo bombardamento atomico del Giappone
L’ex analista dell’NSA, Jim Stone, sostiene che non ci fu nessun
terremoto. Lo tsunami venne causato da bombe nucleari detonate in mare
e le esplosioni avvenute a Fukushima furono provocate da mini – bombe
atomiche nascoste in delle telecamere, installate da una società di
sicurezza israeliana. Il movente: punire il Giappone per essersi
offerto di arricchire l’uranio iraniano, allontanandosi così dal
diktat degli Illuminati. L’articolo che seguirà esporrà una teoria
sulla quale si potrà discutere, non ha le pretese di essere verità
assoluta.
I due schemi di arma nucleare portatile mostrano una notevole
somiglianza con le telecamere di sicurezza della Magna BSP. Anche nel
caso di fusione del nocciolo, un reattore ad acqua bollente, non
raggiunge uno stato critico e soprattutto non esplode come una testata
nucleare, va semplicemente incontro al processo di meltdown.
L’esplosione del reattore numero 3, che l’azienda Magna BSP ha
“immortalato”, presenta palesi somiglianze ad un test atomico.
Quando confrontiamo il terremoto di magnitudo 6,8 che ha devastato
Kobe, in Giappone, il 17 gennaio 1995, con quello di Fukushima, i dati
sembrano non tornare. Una rapida ricerca su Google Immagini del
terremoto di Kobe ci rivela come vennero pesantemente danneggiati gli
edifici, i ponti, le autostrade sopraelevate e le altre
infrastrutture. Il sisma di Fukushima, con magnitudo 9.0, ha colpito a
circa 70 km dalle coste del Giappone, l’11 marzo 2011.
Il terremoto avrebbe innescato uno Tsunami con onde di 30 metri che
andò ad abbattersi su ponti, case, strade e automobili prive di
qualsiasi danno – su una popolazione che non venne avvisata
dell’imminente tsunami in arrivo, perché non c’è stato alcun
terremoto. Vennero presi completamente alla sprovvista. Eppure c’erano
gli elicotteri in attesa e la gente in tutto il Giappone ha avuto modo
di guardare l’arrivo dello tsunami in diretta tv.
Cosa diavolo è successo? Di solito, i giapponesi vengono avvertiti
degli tsunami. Come mai l’11 marzo non vennero avvisati? Perché non ci
furono danni strutturali, o motivi per sospettare l’arrivo di uno
tsunami?
Il sisma non sarà sembrato nulla di speciale ad una nazione abituata
ai terremoti. In un video filmato all’interno di una redazione di
Tokyo, durante il terremoto, vengono mostrati i dipendenti che
continuano tranquillamente a lavorare con i loro computer.
Una scossa di magnitudo 9,0 è 100 volte più forte di una da 6.8.
Quella da 9,0 avrebbe dovuto devastare tutto nel raggio di 1.000 km.
Saremo stati spettatori di una carneficina urbana, anche peggiore di
quella sofferta dagli abitanti di Kobe.
Eppure il terremoto di Fukushima del 3/11/11 non ha causato il
collasso di una singola struttura.
Fate a meno di credere a me. Guardatevi le riprese fatte
dall’elicottero. Guardate le infrastrutture su cui lo tsunami si è
abbattuto. Neppure un minimo danno. Il buon senso è sufficiente per
potersi meravigliare.
Jim Stone ha analizzato i sismogrammi giapponesi. Dichiarando che non
ci fu nessun terremoto da 9.0 e che l’epicentro non era in mare. Ci
sono stati, invece, tre terremoti simultanei di minore intensità,
tutti avvenuti sulla terra ferma.
Le autorità hanno mentito – costruendo a tavolino l’evento. Non è
stato il terremoto a causare lo tsunami. Ci deve essere stato un altro
motivo.
I REATTORI DISTRUTTI DA ARMI NUCLEARI
Si scopre che pure la spiegazione ufficiale per le esplosioni dei
reattori di Fukushima fu un inganno creato ad arte. I muri di
contenimento per l’energia nucleare sono molto spessi e solidi. Le
esplosioni di idrogeno non avrebbero mai potuto distruggerli. Come
riferimento storico, esplosioni di idrogeno si verificarono a Three
Mile Island: non causarono danni strutturali e neppure eventuali
lesioni al personale dello stabilimento.
Inoltre, il reattore quattro non conteneva carburante il giorno del
sisma e non era quindi operativo – ma esplose comunque e venne
completamente distrutto, seguendo la fine di tutti gli altri reattori.
Il reattore 4 è come l’edificio 7 del World Trade Center – una
impossibilità assoluta, una palese pistola fumante. Un reattore che
non contiene carburante non può funzionare, un reattore non operativo
non può esplodere a meno che qualcuno non lo faccia esplodere. La
distruzione del reattore quattro non può che essere il risultato di un
sabotaggio.
COINVOLGIMENTO ISRAELIANO
Nel febbraio 2010, il Giappone si offrì di arricchire l’uranio per
l’Iran. Poco dopo, una ditta israeliana con il nome di Magna BSP,
ottene un contratto per gestire i sistemi di sicurezza nell’impianto
di Fukushima Daiichi. Installarono telecamere di grandi dimensioni
fortemente somiglianti ad armi nucleari “gun-type”. Forti prove
indicano che la ditta avrebbe introdotto il virus Stuxnet nella rete
dell’impianto, un malware di fabbricazione israeliana che attacca gli
impianti che hanno sistemi di controllo Siemens e che la stessa
Israele utilizzò precedentemente per danneggiare il programma nucleare
iraniano. La Magna BSP stabilì anche collegamenti a internet per lo
scambio di dati all’interno del reattore, in palese violazione delle
normative nucleari internazionali.
Tutti e dodici i membri del team di sicurezza tornarono in Israele una
settimana prima del 11/3/11. All’indomani del disastro, gli israeliani
monitorarono pubblicamente i nuclei dei reattori attraverso questi
collegamenti illegali ai dati della centrale. Nessuno ha ancora
sollevato questioni per questo comportamento illegittimo.
JIM STONE: PERSEGUITATO PER AVER RIVELATO LA VERITA’
Che cosa ha causato lo tsunami? Che cosa ha distrutto i reattori?
Jim Stone, utilizzando le sue affinate competenze (ex analista
dell’NSA) e il suo background di ingegneria, ha concluso che fosse
Israele il reale mandante del disastro di Fukushima Daiichi. Ora ne
sta pagando il prezzo.
Stone ha dimostrato che non ci fu alcun terremoto di magnitudo 9.0 a
causare lo tsunami. Quest’ultimo deve essere stato indotto
artificialmente, forse da una bomba atomica posta nella Fossa della
Giappone.
Si incolpa lo tsunami per le inondazioni avvenute nei reattori che
hanno successivamente provocato le esplosioni. Stone, però, presenta
prove convincenti che Israele abbia distrutto l’impianto di Fukushima
Daiichi installandovi armi nucleari “gun type”, facendole passare come
telecamere di sicurezza.
Stone dimostra che il virus Stuxnet ha continuato (e continua) a
distorcere le letture dei sensori presenti a Fukushima.
A differenza di molti altri nel mondo dei “whistle blowers”, Stone
basa le sue conclusioni su prove concrete e su una logica
inattaccabile. Chiunque può visionare e criticare il suo lavoro.
Pubblicando il suo report e facendo diverse apparizioni radiofoniche
per sostenerlo, Jim Stone è stato molestato, minacciato, detenuto
illegalmente ed è attualmente in galera per delle false accuse.
Ho visto le reazioni al suo lavoro, in rete. Alcuni lo hanno diffamato.
Nessuno è ancora riuscito a confutare le sue teorie.
Le sue conclusioni hanno ramificazioni che fanno sembrare le tesi
complottiste sull’11 settembre “poco incisive”.
Perché, questo silenzio sul lavoro di Stone anche da parte dei media
alternativi?
Alcuni hanno espresso il sospetto che Stone non fosse chi diceva di
essere. Questo è irrilevante. I fatti sono fatti. Il rapporto da lui
stilato si basa su fatti ben provati.
Vi invito a consultare il report pubblicato da Stone. Ne vale la pena.
Se poi sarete d’accordo su quanto dici, vi pregherei di diffondere
ulteriormente questa notizia e “sciogliere” questo silenzio dei media
alternativi.
Per concludere, non c’è mai stato un terremoto di magnitudo 9.0 l’11
marzo 2011, lo tsunami deve essere stato indotto artificialmente. Le
esplosioni di idrogeno non hanno distrutto i muri di contenimento
costituiti da diversi metri di cemento. La storia ufficiale è
impossibile. Israele ha punito il Giappone, e gli agenti sionisti
stanno ora cercando di distruggere Jim Stone, l’uomo che ha fatto luce
sulla verità.
Fonti:
http://neovitruvian.wordpress.com/2012/01/28/fukushima-si-tratto-di-sabotaggio/
Il rapporto originale: www.jimstonefreelance.com/fukushima1.html
giovedì 26 aprile 2012
26 aprile 2012, il giorno dopo la "liberazione"..... con immagini statiche
26 aprile 2012, il giorno dopo la commemorazione della "liberazione". Ieri ho continuamente ricevuto email da persone che vorrebbero vedere l'Italia liberata dal giogo finanziario mondialista cui è costretta. Chi ce l'ha con le spese militari e con gli americani, chi ce l'ha con i tedeschi e con la loro prepotenza, chi ce l'ha con le banche (BCE e Bankitalia) che caricano tariffe per stampare denaro per conto dello stato e ci fanno pure pagare gli interessi. Chi ce l'ha con il FMI che con i continui prestiti per sanare i deficit appesantisce ulteriormente il debito pubblico: più prestiti più interessi da pagare più povertà... Ma soprattutto chi ce l'ha con il gobiermo montales della Goldman Sachs and Trilateral. "Ma chi ce l'ha messo questo sul groppone?" Scrivono disperati "E' stato quel napoletano!, con l'approvazione dei partiti...".
Intanto il napoletano dichiara che è inutile star lì a cincischiare, il gobierno durerà fino alla sua naturale scadenza (2013, se non oltre) e quindi "pagare e zitti!" Inoltre ricorda che non bisogna dar retta ai "qualunquisti" quelli che fanno anti-politica, occorre invece dar retta ai partiti che sostengono il buon gobierno montales ed approvare in silenzio le sue decisioni, le sue tassazioni, i suoi acquisti di auto blu, di aerei bombardieri e caccia, etc. etc.
Il montales sa che la guerra è vicina e che servono auto blù per far scappare i politici, servono F16 e mitragliette per fermare le masse inferocite. Altro che "grillini", altro che "forconi", altro che "pappalardi"...
Ma gli scontenti non sono i soliti tartassati e servi della gleba, persino nelle fila moderate numerosi cittadini obiettano agli aumenti delle imposte e dei prezzi. Nei sondaggi la popolarità del "professore" e del suo gobierno declina vertiginosamente.
Una notizia d'ufficio - Documento Economia e Finanza 2012: “La somma di entrate e spese pubbliche supera il 90% del PIL: è un drenaggio incompatibile con un’efficace rilancio dell’Economia." Come dire che per rilanciare l’economia non servono più tasse, ma più equità e creazione di posti di lavoro che si ottiene con investimenti privati e pubblici. Il PIL consiste in Consumi + Investimenti + Spese Governative. Dovrebbe essere ovvio che: Chi non guadagna non consuma...
Ma soprattutto dovrebbe essere attuata una maggiore equità nelle ripartizioni della ricchezza comune, una maggiore "austerità" da parte delle classi privilegiate. Considerando che l'Italia è oppressa da un nugolo di "amministratori" che succhiano più di quanto ammnistrano.
Riporto qui un brano di George Orwell per capire come la fantasia sia divenuta realtà: “La popolazione era divisa in due. Da una parte la maggioranza, i 'prolet', verso la quale non vi erano preoccupazioni di sorta: nessuno di loro si interessava alla politica o ambiva a carriere di potere; lavoravano, si distraevano con la pornografia che gli veniva ammannita in abbondanza, si divertivano, procreavano, si ubriacavano; una massa informe e spersonalizzata. I prolet non avrebbero mai potuto ribellarsi. Poi c'era l'ampia classe dirigente che si occupava di tutto; una moltitudine di burocrati e funzionari estremamente inquadrata e controllata. Attraverso una capillare rete di televisori ricetrasmittenti ogni frase era intercettata, ogni movimento sorvegliato, mentre incessantemente erano divulgati i comunicati del Partito”
Ed un pensiero di Pier Paolo Pasolini: "L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di... essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società"
Sono trascorsi diversi anni dalle esternazioni di Orwell e Pasolini.. e le cose sono migliorate? Macchè, com'era prevedibile sono peggiorate! Chi va in discesa difficilmente sceglie di risalire... Risale solo se costretto dalle circostanze!
Paolo D'Arpini
E qui altri input per promuovere una risalita:
mercoledì 25 aprile 2012
In Argentina il peronismo ha ancora qualcosa da insegnare
Un momento di contestazione in Argentina - Foto di Gustavo Piccinini
Kirchner, che vuol dire "pinguino", è diventato un esempio "divino"
In pochi ne sono a conoscenza, ma Cristina Fernandez de Kirchner, attuale primo ministro argentino (in vero il titolo è Presidente della Nazione) è con grande "presunzione" uno tra i primi cinque migliori governatori al mondo. L'Argentina sotto la sua guida, emanazione e continuazione di quella del defunto marito Nestor Kirchner, sta sorprendendo il mondo, in tutti i sensi. Il programma di governo, di impronta socialista se non nazionalista, sta consentendo una impensabile recupero e trasformazione per l'economia del paese dei Tango Bond che fino a dieci anni fa veniva denigrato ed odiato da quasi tutto il mondo per il suo salutare default finanziario (salutare per la sua popolazione). Sotto la guida di Cristina, l'Argentina ha in meno di cinque anni dimezzato il tasso di povertà (su base demografica) e raddoppiato al tempo stesso il tasso di istruzione, aumentando la percentuale del PIL (dal 3% al 6%) investito in miglioramenti infrastrutturali per l'educazione scolastica proponendo ad esempio l'accesso al web a tutti.
La Fernandez è un premier da invidiare: il suo operato di stampo peronista è volto a far crescere il paese ed a proteggerlo al tempo stesso. Con il neocostituito Ministero della Produzione e la detassazione dei capitali provenienti dall'estero, Cristina dimostra di avere le idee molto chiare: la nuova politica industriale argentina deve essere volta a creare occupazione incentivando le grandi multinazionali ad insediarsi per creare nuovi posti di lavoro attraverso benefits fiscali allettanti (noi italiani facciamo il contrario). La politica nazionalista non trova miglior paese al mondo in cui manifestarsi ed esprimersi arrivando persino ai piani di rimpatrio dei ricercatori argentini trasferitisi all'estero: sostanzialmente si richiamano in patria gli argentini che se ne sono andati perchè non remunerati o gratificati in patria (anche qui noi italiani potremmo fare scuola). L'ultima provocazione (da ammirare e copiare) è il piano di nazionalizzazione (per non dire esproprio) della partecipazione detenuta dal gigante petrolifero spagnolo Repsol sulla YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales), l'azienda petrolifera dello stato argentino.
Quest'ultima, prima privatizzata e dopo acquistata interamente nel 1999 dalla Repsol appunto. In buona sostanza la Kirchner vuole riprendersi con un atto di sovranità popolare una risorsa strategica per la nazione: il petrolio argentino. Vai Cristina facci sognare. Magari anche in Italia ci fossero leader e rappresentanti degli interessi della nazione di questa portata. Sulla scia dell'esempio argentino infatti il nuovo e futuro leader italiano (non Mario Monti che ormai si è trasformato di fatto da tecnico a politico) dovrebbe replicare questo operato, espropriando per motivazioni di interesse nazionale le partecipazioni che detengono le varie fondazioni nelle due grandi banche italiane (Unicredito e IntesaSanPaolo). Nello specifico, il nuovo premier italiano dovrebbe nazionalizzare le quote detenute da Fondazione Cariverona e Fondazione Caritorino in Unicredit Banca rispettivamente del 3,5 % ciascuna, trasformando lo Stato Italiano nel primo azionista assoluto (la Libia sarebbe al 7,5% mettendo insieme Libia Investment Authority e la Banca Centrale Libica).
Uguale operazione si dovrebbe implementare con IntesaSanPaolo nazionalizzando le quote detenute dalle Fondazioni San Paolo (10%), Cariparo (5%), Cariplo (4,7%) e Caribo (2,7%) arrivando a controllare quasi il 25% della banca. A quel punto spingere a una fusione tra i due istituti orchestrata dallo Stato per costituire la più grande banca italiana privata (ma soggetta a controllo e governance pubblico) e la terza in Europa per patrimonio netto tangibile dopo Deutsche Bank e Credit Agricole (stando almeno ai dati di Giugno 2011). La banca così costituita potrebbe migliorare notevolmente la propria redditività complessiva riducendo corposamente i costi operativi, rafforzando il suo patrimonio attraverso dismissioni di immobili (pensate a quante filiali verrebbero smantellate a parità di assets e impieghi complessivi postfusione). A quel punto avendo una banca a controllo statale rafforzata nel patrimonio e più competitiva (che detiene oltre il 60% del mercato dei servizi bancari) si potrebbero intraprendere tutte le nuove riforme che necessita oggi il mercato del credito rivedendo le modalità di supporto ed affiancamento alla piccola e media impresa, certi che la nuova banca diverrebbe uno straordinario strumento di politica economica non convenzionale sotto l'egida dello Stato nell'interesse della nazione.
Eugenio Benetazzo
(Fonte: http://www.eugeniobenetazzo.com/)
Kirchner, che vuol dire "pinguino", è diventato un esempio "divino"
In pochi ne sono a conoscenza, ma Cristina Fernandez de Kirchner, attuale primo ministro argentino (in vero il titolo è Presidente della Nazione) è con grande "presunzione" uno tra i primi cinque migliori governatori al mondo. L'Argentina sotto la sua guida, emanazione e continuazione di quella del defunto marito Nestor Kirchner, sta sorprendendo il mondo, in tutti i sensi. Il programma di governo, di impronta socialista se non nazionalista, sta consentendo una impensabile recupero e trasformazione per l'economia del paese dei Tango Bond che fino a dieci anni fa veniva denigrato ed odiato da quasi tutto il mondo per il suo salutare default finanziario (salutare per la sua popolazione). Sotto la guida di Cristina, l'Argentina ha in meno di cinque anni dimezzato il tasso di povertà (su base demografica) e raddoppiato al tempo stesso il tasso di istruzione, aumentando la percentuale del PIL (dal 3% al 6%) investito in miglioramenti infrastrutturali per l'educazione scolastica proponendo ad esempio l'accesso al web a tutti.
La Fernandez è un premier da invidiare: il suo operato di stampo peronista è volto a far crescere il paese ed a proteggerlo al tempo stesso. Con il neocostituito Ministero della Produzione e la detassazione dei capitali provenienti dall'estero, Cristina dimostra di avere le idee molto chiare: la nuova politica industriale argentina deve essere volta a creare occupazione incentivando le grandi multinazionali ad insediarsi per creare nuovi posti di lavoro attraverso benefits fiscali allettanti (noi italiani facciamo il contrario). La politica nazionalista non trova miglior paese al mondo in cui manifestarsi ed esprimersi arrivando persino ai piani di rimpatrio dei ricercatori argentini trasferitisi all'estero: sostanzialmente si richiamano in patria gli argentini che se ne sono andati perchè non remunerati o gratificati in patria (anche qui noi italiani potremmo fare scuola). L'ultima provocazione (da ammirare e copiare) è il piano di nazionalizzazione (per non dire esproprio) della partecipazione detenuta dal gigante petrolifero spagnolo Repsol sulla YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales), l'azienda petrolifera dello stato argentino.
Quest'ultima, prima privatizzata e dopo acquistata interamente nel 1999 dalla Repsol appunto. In buona sostanza la Kirchner vuole riprendersi con un atto di sovranità popolare una risorsa strategica per la nazione: il petrolio argentino. Vai Cristina facci sognare. Magari anche in Italia ci fossero leader e rappresentanti degli interessi della nazione di questa portata. Sulla scia dell'esempio argentino infatti il nuovo e futuro leader italiano (non Mario Monti che ormai si è trasformato di fatto da tecnico a politico) dovrebbe replicare questo operato, espropriando per motivazioni di interesse nazionale le partecipazioni che detengono le varie fondazioni nelle due grandi banche italiane (Unicredito e IntesaSanPaolo). Nello specifico, il nuovo premier italiano dovrebbe nazionalizzare le quote detenute da Fondazione Cariverona e Fondazione Caritorino in Unicredit Banca rispettivamente del 3,5 % ciascuna, trasformando lo Stato Italiano nel primo azionista assoluto (la Libia sarebbe al 7,5% mettendo insieme Libia Investment Authority e la Banca Centrale Libica).
Uguale operazione si dovrebbe implementare con IntesaSanPaolo nazionalizzando le quote detenute dalle Fondazioni San Paolo (10%), Cariparo (5%), Cariplo (4,7%) e Caribo (2,7%) arrivando a controllare quasi il 25% della banca. A quel punto spingere a una fusione tra i due istituti orchestrata dallo Stato per costituire la più grande banca italiana privata (ma soggetta a controllo e governance pubblico) e la terza in Europa per patrimonio netto tangibile dopo Deutsche Bank e Credit Agricole (stando almeno ai dati di Giugno 2011). La banca così costituita potrebbe migliorare notevolmente la propria redditività complessiva riducendo corposamente i costi operativi, rafforzando il suo patrimonio attraverso dismissioni di immobili (pensate a quante filiali verrebbero smantellate a parità di assets e impieghi complessivi postfusione). A quel punto avendo una banca a controllo statale rafforzata nel patrimonio e più competitiva (che detiene oltre il 60% del mercato dei servizi bancari) si potrebbero intraprendere tutte le nuove riforme che necessita oggi il mercato del credito rivedendo le modalità di supporto ed affiancamento alla piccola e media impresa, certi che la nuova banca diverrebbe uno straordinario strumento di politica economica non convenzionale sotto l'egida dello Stato nell'interesse della nazione.
Eugenio Benetazzo
(Fonte: http://www.eugeniobenetazzo.com/)
martedì 24 aprile 2012
La resistenza al cambiamento opposta dalla vecchia politica e dagli interessi di parte
Tassa sugli escrementi
1. PREMESSA
Come afferma nel suo ultimo libro Hermann Scheer “la conversione alle rinnovabili, la riduzione dei consumi energetici e la conseguente riorganizzazione della società sono importanti per la storia della civiltà”. Il cammino sembra intrapreso: una manifesta spinta dal basso ha portato già nel 2011 all’installazione sul pianeta di una potenza elettrica da fonti naturali superiore a quella fornita da nuovi impianti fossili e quello del nostro paese è risultato addirittura il primo mercato al mondo per il fotovoltaico.
Ma, nonostante una lenta maturazione di movimenti in ogni continente – fino allo strepitoso successo del referendum antinucleare a livello nazionale – non si può certo affermare che il cambio di paradigma energetico, reclamato a gran voce dagli scienziati più autorevoli e assurto a pieno titolo a priorità nell’attenzione dell’opinione pubblica, sia all’ordine del giorno della politica e rivesta l’urgenza reclamata dagli scenari climatici previsti e puntualmente confermati. Anzi, le leadership mondiali nei loro frequenti incontri si preoccupano di fissare insuperabili scadenze e maniacali road map pluriennali lungo le quali abbattere i diritti del lavoro e lo stato sociale. O decidono in summit urgenti le date ravvicinate per spostare enormi risorse a salvataggio del sistema finanziario. Tuttavia, non trovano accordo alcuno sui tempi e i provvedimenti per limitare il riscaldamento terrestre e salvare la terra.
Credo si misuri qui la più drammatica divaricazione tra politica, economia e società: Nonostante sprazi e segnali confortanti (Occupy Wall Street è giunto fino a Milano!), sembrerebbe che la crisi mondiale e la gestione della recessione in corso siano riusciti a colpire in modo particolare la speranza di “un mondo diverso possibile” e che i movimenti anche più attenti manifestino difficoltà sia a prendere voce, sia a ricomporre un discorso organico di alternativa, rimanendo frammentati per temi, confinati in spazi territoriali separati e stentando perfino a disegnare un quadro complessivamente più efficace sul terreno dei beni comuni. Una difficoltà poco riconosciuta, ma evidenziata da una realtà in cui la distanza anche negli obiettivi rivendicativi tra “acqua, terra, vento e fuoco” rimane nella pratica incolmabile.
Proprio perché è di aspetti di oggettiva debolezza che occorre trattare, provo a prendere di seguito in considerazione tre domande con cui facciamo fatica a cimentarci e da cui provengono, a mio parere, alcuni dei nostri insuccessi; proverò successivamente a ragionare su tre equivoci di fondo, la cui permanenza consente al sistema attuale di produrre una cosciente resistenza al cambiamento. In conclusione accennerò ad una struttura propositiva che reinserisca a pieno titolo la battaglia per l’energia nel contesto potenzialmente assai fertile dei beni comuni, inseparabile dalla buona politica.
2. LE DOMANDE
A) SOPRAVVIVE ALLA CRISI UN IMMAGINARIO COLLETTIVO ALTERNATIVO?
Fino al 2008 – l’inizio di una crisi che si avvita in maniera sempre più inestricabile – percepivamo le “fratture” che andavano caratterizzando un’epoca in cui le trasformazioni sono spesso più profonde delle nostre radici politico-culturali, come centri e luoghi di un conflitto che avrebbe aperto le porte al cambiamento e per la cui gestione occorreva un salto di partecipazione, una lotta di controinformazione, l’esplicita messa in crisi del sistema di rappresentanza ormai ridotto ad apparati autoreferenziali. Ci sembrava cioè, che l’efferatezza del capitalismo industriale globale e l’anonimia della finanziarizzazione, con il loro portato di spreco di lavoro e natura, si sarebbero scontrati con l’irriducibilità della vita, l’autonomia delle persone, la dignità del lavoro, la sopravvivenza della specie, rilanciando il ruolo della politica. Sarebbe bastato che i conflitti assumessero una configurazione omogenea dentro gli spazi e i tempi della globalizzazione liberista e il profilo della civiltà avrebbe assunto il corso progressista e cosmopolita della convergenza delle diversità, della non violenza, della democratizzazione dei poteri, di un socialismo del XXI secolo in formazione. Avevamo addirittura sintetizzato in parole chiave la trasformazione e individuato i processi che avrebbero dato vita ad un nuovo immaginario per “un mondo diverso e possibile”.
Non chiacchiere, ma movimenti reali in cammino su pace, multiculturalità, cittadinanza universale, sovranità attiva; beni comuni, naturali e sociali, materiali e culturali, mantenimento della biosfera, clima, “ben vivere”, rinnovabilità, giusta misura; riconversione produttiva e senso del lavoro , saperi, giustizia sociale e futuro equo, riappropriazione e dono del tempo; valore territoriale, approccio locale, reti corte, neo agricoltura, rigenerazione di città e spazi aperti, consumo di suolo; rappresentanza democratica e legalità, autogoverno, informazione, comunicazione, etica, convivialità.
In un seminario a Verona nel 2009 un gruppo di intellettuali e di rappresentanti di movimenti aveva prodotto una sintesi ulteriore: “A fronte dell’attuale crisi di civiltà, il territorio è un superluogo; la riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso; l’abbandono della crescita costituisce la direzione univoca verso cui procedere; la ricostruzione della rappresentanza il nodo politico da risolvere”.
C’era, insomma, una cassetta degli attrezzi in approntamento e la certezza di produrre un’idea di futuro che viveva l’inizio della crisi come una opportunità. Mi sembra di dover affermare pessimisticamente che, almeno in Europa, il discrimine posto dal “risanamento del debito” ad opera della “troika” è riuscito, almeno a breve, a bloccare quella costruzione in atto ed ha ribaltato il giudizio inappellabile delle nuove generazioni sul liberismo e sui disvalori del sistema capitalista (voi l’1%, noi il 99%) in una recriminazione nei confronti delle conquiste, e dei diritti – giudicati eccessivi e pregiudizievoli per una estensione ai giovani – che gli strati popolari avevano tradotto in potere in base alle Costituzioni di democrazia sociale nate nel dopoguerra.
In questa operazione di rovesciamento che non abbiamo saputo combattere con successo, si è distinto lo stesso presidente Napolitano, a cui va sì riconosciuto il merito di una straordinaria tenuta contro il degrado delle istituzioni, ma anche attribuita la responsabilità di aver appiattito sulla conservazione del sistema la risposta alla degenerazione del berlusconismo. Lo sforzo nazionale, da un semestre ad oggi, si è concentrato sul presupposto del superamento della crisi con il vecchio modello rimesso in carreggiata, secondo il tradizionale approccio dei due tempi e la convinzione che il male minore fosse l’orizzonte massimo a cui potessimo accedere. Si è così messa fuori gioco la rappresentanza del sindacato (dove sta scritto che il capo dello stato ha il potere di intimare “alle parti sociali di far prevalere interessi diversi da quelli sociali” che rappresentano?) e non è stata valorizzata adeguatamente la funzione democratica e autonoma del mondo del lavoro. Il caso italiano, con il passaggio, sostenuto dalla maggioranza parlamentare e suggellato dai governi moderati dell’Ue, da democrazia sociale avanzata a democrazia regressiva (modifica di fatto dell’art. 81 e 41 della Costituzione e dello Statuto dei Lavoratori) illustra bene come possa ridursi un immaginario collettivo in formazione alla opposizione velleitaria di una minoranza attiva. Niente stupore quindi, se a distanza di pochi mesi dal voto di 27 milioni può partire un attacco robusto alle energie rinnovabili e si progetta per il nostro Paese il ruolo di “hub del gas per l’Europa”
B) BENI COMUNI: BASTA LA PAROLA?
Non tutto è riconducibile alla categoria dei beni comuni. Ma, nelle difficoltà del passaggio di fase attuale, a questo concetto si sono affidate aspettative a volte eccessive, quasi fossero un campo sconfinato. Quando ci si imbatte con beni e valori che non possono essere ridotti a merce e perciò privatizzati e consumati al ritmo imposto dalle leggi del mercato, si arriva al nodo costituito dal rapporto conflittuale tra individui possessivi e i beni che escludono il possesso individuale. Niente di più attuale, vista la fase che attraversiamo.
Proprio i beni comuni – che sono tali perché essenziali e insostituibili per la vita e la riproduzione, a cominciare dall’Acqua e dal Sole – sono oggetto di appropriazione e di uso al servizio del capitale, che si presenta con le forme meno arcigne di una “Green Economy” cui si vanno convertendo le stesse multinazionali.
Bisogna però, a mio parere, approfondire una strategia prima di allargarne a dismisura il campo di applicazione. Non basta proclamare una politica generica e onnicomprensiva dei beni comuni, coniugandola poi in parte solo per l’acqua, senza andare più a fondo dell’approccio complessivo alla natura – e quindi al lavoro e alla vita intera – che il capitale impone, esulando dai suoi confini tradizionali della geopolitica e invadendo quelli della biosfera. E’ inevitabile, al punto in cui siamo, integrare autentiche piattaforme rivendicative – a livello locale, nazionale ed europeo – sulle risorse e i consumi energetici, sulla disponibilità e sulla destinazione della risorsa acqua, sulla salubrità dell’aria, sul consumo e sulla fertilità della terra, facendone il tratto conduttore di un programma sociale e politico che si alimenta di democrazia diretta e rinnova la democrazia delegata.
Continuo a rimanere deluso di una organizzazione post-referendum in cui i singoli movimenti permangono organizzati come se dovessero procedere “confederati”.
Il rapporto energia-acqua-cibo-territorio dovrebbe essere così pensato nella sua complessità e indissolubilità e nell’ambito innanzitutto dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione locale, e poi su su con concretezza, fino a contrastare la requisizione ad opera di un mercato che si organizza su scala continentale e mondiale.
Dal punto di vista di queste note il risparmio energetico e le fonti rinnovabili non sono un tema a se stante, ma rappresentano un contributo per realizzare una organizzazione democratica della società ecosostenibile, ossia una società che soddisfa i propri bisogni senza alterare i complessi meccanismi che reggono il clima, che non preleva dalla natura più risorse di quanto essa possa rigenerare nel tempo, che non spreca e distrugge il territorio nella sua componente sociale e naturale. Già un programma così ampio costituisce un coerente punto di riferimento: se invece si volesse far confluire tutto l’antagonismo sotto il “cappello” dei beni comuni, anziché porlo in adeguata relazione ad essi, si compirebbe un’accelerazione a discapito di una maturazione che deve prescindere dalle appartenenze.
C) GLOBALIZZAZIONE E CLIMA: SONO COMPATIBILI?
Il riscaldamento globale non è più una minaccia filosofica né una minaccia per il futuro. È la realtà in cui viviamo, che richiede, in assenza di una governance mondiale, una risposta immediata a livello di comunità locali interconnesse, più capaci di resistere agli scossoni nelle infrastrutture ed alle interruzioni dei flussi. Non tutto si riduce solo allo stampo liberista della globalizzazione: sono l’annullamento delle specificità territoriali e culturali dovuto al consumismo, la distruzione della biodiversità connaturata alla crescita, l’affanno competitivo del sistema d’impresa, che mettono a rischio la nostra civiltà. Comincio a pensare che il liberismo corrisponda certamente ad una micidiale accelerazione, ma che, comunque, sia la concezione di spazio e di tempo che la cultura occidentale ha imposto al resto del pianeta a rendere irreversibile la corsa verso il disastro. Partendo da questa constatazione preoccupata e quasi prepolitica, Leonardo Boff invita a abbandonare l’era “tecnozoica” per passare a quella “ecozoica”, che considera la terra nella sua evoluzione e a cui le culture produttiviste non sono per nulla preparate.
Siamo da oltre un mese dentro al vortice di indici di borsa a picco, spread sui titoli di stato che fanno sussultare i governi, rapporti debito/Pil che preoccupano, un frullatore di notizie da cui usciremo più confusi di prima e forse più poveri. I Governi più pragmatici cercano dei rimedi, quelli arruffoni rischiano di trascinare nel baratro un paese. Gli uni e gli altri però non ci dicono chi è il vero “mandante” di tutto questo e ci assicurano che se ne uscirà. Così si distoglie l’opinione pubblica dalla ricerca delle soluzioni necessarie per affrontare i più concreti e urgenti bisogni e per preparare la società alle future sfide economiche, sociali e alla scarsità delle risorse: in una parola sola, al rischio della povertà diffusa. Questa non sembra certo una visione peregrina, se si pensa a come in tutte le società industrializzate la ricchezza si stia ormai concentrando in pochissime mani e a quanto la classe media tenda ad evaporare e l’indigenza a crescere.
Ci dobbiamo preoccupare di aspetti chiave del prossimo futuro: occupazione, cibo, sanità, abitazioni, sicurezza, educazione, trasporti, coesione sociale, comunicazione e cultura, assetto dei trasporti e dell’edilizia, picco del petrolio. E come potremmo reperire risorse a tal fine, se il modello energivoro e il cambiamento climatico assorbiranno la maggior parte della ricchezza resa disponibile dall’attività umana organizzata su scala globale come risulta oggi? Bisogna rivendicare i “beni comuni” non separati dai servizi e il sociale non subalterno al sistema dell’economia capitalistica e d’impresa, lottando per mantenere un controllo sociale e statale sull’impresa privata (l’art.18!) e sulle finalità della produzione.
Oggi siamo ben lontani dall’obiettivo. Alcuni ricercatori dell’Università di Losanna hanno svolto una ricerca su 43.000 imprese transnazionali ed hanno concluso che, meno del 1% delle compagnie controlla il 40% dell’interscambio mondiale. In queste “corporation” i settori dell’acqua e dell’energia, con le banche e le assicurazioni correlate, hanno un peso rilevantissimo. Come il mondo ha potuto constatare durante la crisi del 2008, queste reti sono molto instabili: basta che un nodo abbia un problema serio perchè questo si propaghi automaticamente a tutta la rete, trascinando con sè l’economia mondiale come un tutto. Il cambiamento climatico è considerato il fattore di maggior instabilità nel prossimo futuro. Riancorare al territorio, alle popolazioni e al lavoro l’economia, articolandone le forme e sottoponendola al controllo democratico, è diventata una necessità improrogabile.
3. LA RESISTENZA AL CAMBIAMENTO
A) INDIVIDUI E MEDIA SCETTICI SUL MUTAMENTO EPOCALE
Dovremmo chiederci perchè si faccia fatica a capire il pericolo del cambiamento climatico ed ancora di più a definire priorità nell’azione conseguente a bloccarne gli effetti. Il problema dei cambiamenti climatici si è rivelato negli anni particolarmente difficile da affrontare per molteplici fattori. I tentativi di risoluzione attraverso trattati internazionali sulle emissioni sono risultati finora inefficaci, e non sono riusciti ad arrivare all’individuo, ad abbattere i dubbi, a realizzare un cambiamento comportamentale. L’urgenza di porre rimedio a una situazione che si avvia ad essere irreparabile, si scontra con una diffusa inerzia da parte delle persone, che parzialmente deriva dall’idea che il problema debba essere risolto “dall’alto”: l’azione individuale inoltre viene percepita come inefficace al cospetto delle urgenze poste dalla crisi economica. Questo è un prodotto dell’esasperato individualismo dei nostri tempi e del mancato richiamo che la politica avrebbe dovuto esercitare, venendo meno anche ai suoi compiti etico- educativi.
Tuttavia, i dati mostrano che, ad esempio, le emissioni pro-capite legati ai consumi residenziali hanno un peso notevole nel bilancio complessivo della produzione di CO2. L’azione individuale avrebbe quindi un’enorme potenzialità nel modificare il drammatico scenario climatico. Ma cercare nelle azioni delle persone una consequenzialità razionale –afferma il sito di “climalteranti.it” – significa fraintendere alcuni aspetti fondamentali dell’agire umano, che è per definizione difficile da prevedere e non segue sempre una concatenazione di ragionamenti facilmente rintracciabile. Si dimostra quindi fondamentale cercare di risalire agli snodi del processo decisionale in cui si inseriscono determinati fattori problematici che fanno perdere di vista agli esseri umani non solo ciò che rappresenta un bene per l’ambiente naturale, ma anche per loro stessi in quanto creature che in tale ambiente vivono.
Gli individui si smarriscono, in qualche modo, nella serie di concatenazioni causali che portano al riscaldamento globale. Un altro punto problematico riguarda la distanza temporale che intercorre tra la causa e il verificarsi dell’effetto: l’impatto sull’ambiente di determinati comportamenti avviene in un lasso di tempo così dilatato che il legame causa-effetto si assottiglia progressivamente, sino a non essere più visibile. Inoltre, la causa e l’effetto si trovano su due dimensioni diverse, ovvero, da una parte c’è il soggetto che agisce a livello personale, mentre gli effetti delle sue azioni, oltre a essere lontani nel tempo, concorrono su una dimensione globale, non riguardano cioè lui in prima persona.
I media potrebbero avere un ruolo determinante nell’indurre comportamenti responsabili verso le future generazioni, ma finora non hanno corrisposto “alla bisogna”. Alcuni studenti della Scuola Superiore di Comunicazione di Trieste hanno esaminato come i quattro principali quotidiani nazionali (Repubblica, Corriere della Sera, Sole 24 Ore e Stampa) e la blogosfera hanno seguito la conferenza di Durban, un passaggio fondamentale per capire com’è affrontato il problema dei cambiamenti climatici e quale sia l’impressione che viene trasmessa all’opinione pubblica. La ricerca ha rilevato un ruolo decisivo sull’indirizzo dell’informazione dovuto alla posizione ideologica della testata a cui i singoli corrispondenti inviavano i resoconti. Al punto da non pubblicare alcuni pezzi su argomenti ritenuti scomodi o da offrire agli editorialisti più autorevoli rimasti in redazione il compito di correggere le notizie più scomode inviate dall’altro emisfero.
Ad un esame consuntivo Il Sole 24 Ore esprime uno scetticismo di fondo riguardo alla possibilità di invertire a favore del collasso ambientale le priorità assegnate alle questioni finanziarie; Repubblica, invece, in questa fase di appoggio al governo tecnico, preferisce dedicarsi agli aspetti di politica interna della vicenda, come risulta dalle numerose interviste al ministro Clini. La Stampa risulta la testata che dedica maggiore attenzione al summit, cercando di segnalare possibili progressi. Nel Corriere si verifica un vero e proprio corto circuito: il fallimento del vertice viene dichiarato prima della sua effettiva conclusione, mentre la posizione demolitoria nei confronti delle richieste degli scienziati dell’Onu, assunta con un editoriale di Battista nel giorno della conclusione del vertice, irride alle preoccupazioni per il clima, esibendo una posizione che potremmo definire negazionista. Al contrario, se si confronta il trattamento della notizia da parte dei blogger e dei commenti sui forum, la comunità che anima la rete digitale è sembrata attentissima alle questioni discusse a Durban, approfondendone ogni dettaglio in maniera rigorosa e informata. Se si vuole, siamo di fronte ad un ulteriore segnale di supplenza della società civile a fronte dello scarso interesse dell’apparato “ufficiale”.
B) L’EQUIVOCO DELLA GREEN ECONOMY
Ad ogni iniziativa pubblica, gli esecutivi in carica non hanno mai mancato di sottolineare la necessità di una transizione ad un nuovo sistema energetico, che richiederebbe una politica industriale “virtuosa” in grado di intervenire sulla crisi in corso. Ma quale è la politica energetica effettiva che sottostà a questa considerazione condivisa da più parti? E come si concilia il cambiamento necessario proclamato a voce con la difesa strenua dell’esistente agita nei fatti?
Per quanto ci riguarda il problema della transizione ha un connotato molto preciso: il ricorso alle fonti rinnovabili manterrebbe il quadro di crisi energetica, ambientale, democratica e sociale a cui ci hanno condotto le fonti tradizionali o ci fornirebbe una occasione di cambio autentico di paradigma, non per via tecnica, ma per via politica? La risposta è si, come risultato di un processo conflittuale e di presa di coscienza orientato alla giustizia sociale ed a superare le distorsioni dell’attuale modello di produzione e di consumo. Un processo che non si fa illusioni sulle difficoltà da affrontare, sulla destinazione critica delle risorse, sullo sviluppo e sul declino di professionalità, conoscenze e settori da riconvertire profondamente.
Per l’utilizzazione diretta dell’energia solare c’è un elevata richiesta di materia e questo aspetto va considerato con grande attenzione. Il difetto principale dell’energia solare è la bassa intensità con cui raggiunge la terra e la difficoltà di qualsiasi possibilità di autoconservazione: con le energie rinnovabili non saremmo in grado di mantenere la corrispondente struttura materiale e, necessariamente, la specie umana, se non alla condizione di una grande riduzione dei consumi. Ma non basta: mentre l’uomo nel caso di carbone e petrolio possedeva il controllo degli stock fossili, non è invece in grado di determinare quello dei flussi solari e non può disporre che del flusso presente. Quindi, deve riorganizzare i propri tempi ed i propri spazi sulla base del suo rapporto con la biosfera, riportando l’economia di una scala globale – che ha ridotto per via capitalistica, ma anche grazie alla disponibilità dei fossili, le persone a quantità e i lavoratori a merci – ad una scala inferiore e ponendo prima di tutto attenzione alla valorizzazione della dimensione locale, con il suo portato di risorse naturali, specificità territoriali, conoscenze e capacità di creare valore sociale all’interno dello stesso gioco economico. Nel contempo, preservando, mantenendo e sottraendo al mercato i beni comuni e in particolare proprio l’acqua e l’energia.
Se questo diventa il contesto di riferimento, il rilancio di una “economia verde” in chiave puramente imitativa di quella attuale, non corrisponde affatto al traguardo che si vuole raggiungere. Anzi, così come è stata impostata finora, la green economy è diventata un greenwashing di quella tradizionale. Qui prendo a riferimento un’analisi molto incisiva svolta da Claudia Bettiol. Le energie rinnovabili sono ancora in una fase transitoria e non tutte hanno raggiunto una maturità tecnologica tale da poterle considerare come totalmente sostitutive dei sistemi attuali. Senonchè, per favorire gli investimenti privati in ricerca e sviluppo (finanziate in maniera risibile dagli stati nazionali e dalle grandi compagnie energetiche), si è privilegiata l’installazione di grandi impianti rinnovabili utilizzando la stessa logica distributiva dell’energia tradizionale. Anche tutti i meccanismi di incentivo alla produzione sono stati messi a punto utilizzando meccanismi finanziari legati alle tradizionali logiche delle borse. La green economy, a questo punto, è soltanto il rilancio dell’economia tradizionale, ma con prodotti ecologici.
Diverso è il caso se giudichiamo la green economy da una prospettiva coerente con quanto finora affermato. Intanto, non ha senso separare il concetto di energia rinnovabile da quello di efficienza energetica. Infatti non si può pensare di produrre energia da impianti a bassa densità energetica (ad esempio il fotovoltaico) e immetterla in vecchie linee di distribuzione monodirezionali che la dissipano. Unendo i due concetti (energia rinnovabile ed efficienza energetica), invece, si tenderebbe a realizzare piccoli sistemi indipendenti in cui l’energia viene prodotta, utilizzata, recuperata e ancora utilizzata. Ma per realizzare questa distribuzione occorre elaborare nuovi concetti industriali legati ad una conoscenza diffusa (università e aggiornamento professionale dei lavoratori), alle politiche industriali (industrie manifatturiere legate alle piccole taglie e alla installazione e gestione di questi piccoli sistemi energetici), alla fiscalità (oggi le maggiori entrate nei bilanci di una nazione provengono dal petrolio e dalle automobili).
Come si può constatare, quindi, la green economy non è il finanziamento agevolato di alcune tecnologie a basso impatto ambientale, ma è una visione globale. Una visione che riporta la politica al centro del dibattito. Una politica con basi diverse e che la Bettiol definisce “green politicy”. Una politica che l’attuale governo proprio non persegue, dato che, con il paravento del debito pubblico, scarica sul debito naturale l’imprevidenza di un modello di sviluppo ormai inadeguato.
C) LA POLITICA DEI “TECNICI”
L’intervento di Corrado Passera a fine marzo rappresenta uno dei primi segnali della volontà del governo di affrontare la tematica energetica nella sua complessità. Il Ministro ha annesso grande importanza, come è giusto, all’efficienza energetica. Su questo fronte occorrerà una seria riflessione perché i risultati, specie in questa fase, potranno essere molto rilevanti. Passera si è detto molto preoccupato per il peso sulle bollette delle fonti rinnovabili. Timore comprensibile, in particolare per il fotovoltaico sfuggito di controllo in un periodo in cui mancava addirittura il ministro allo Sviluppo Economico.
Ma riflettiamo un attimo. Intanto, l’impatto dell’energia solare sulla formazione dei prezzi toglierà 1 miliardo alle bollette. Vanno poi conteggiate le riduzioni delle importazioni di gas grazie al boom dell’elettricità verde (3 miliardi di metri cubi in meno nel periodo 2008-11 e 7 miliardi di CO2 non emessa, con un risparmio per il Paese di 1,5 miliardi di euro). Inoltre, i costi del Cip6, già calati dai 3,6 miliardi del 2006 a 1,2 miliardi, continueranno a ridursi. Un altro paio di miliardi verranno, infine, tolti dalle bollette grazie alla liberalizzazione del mercato del gas. Come si vede, il fardello delle rinnovabili risulterà più che dimezzato. E diventerà ancor più leggero considerando tutte le entrate per lo Stato in termini di Iva e di tasse pagate dalle migliaia di aziende che sono sorte.
Ma l’aspetto più rilevante non sta nella sottolineatura, ovvia, sull’efficienza e nemmeno sulla tiepidezza, scontata, sulle rinnovabili: viene qui lanciata la proposta di raddoppiare la produzione nazionale di idrocarburi. Questa propensione a fare dell’Italia l’hub del gas in Europa e a mantenere il sistema dei trasporti inalterato, può venire dal fatto che in una situazione di esposizione dl bilancio pubblico si perderebbero le tasse sui prodotti petroliferi (si calcola che per ogni centesimo di euro di aumento del carburante, lo Stato incassi in un anno 400 milioni di euro) e sull’inquinamento da combustione di carbone (accise, prelievi fiscali fissi, carbon tax , gabelle varie) e che gli enormi guadagni dei petrolieri e di Eni ed Enel verrebbero ridimensionati.
Ma il rischio vero è sul lungo termine ed è quello che, purtroppo, i “tecnici”al governo condividono una vocazione che il mondo finanziario ha sempre riservato al nostro paese nella divisione internazionale della produzione e del lavoro: diventare , con il sostegno del fondo per la sicurezza energetica messo a disposizione dalla Ue, il punto di transito di gas e petrolio e di concentrazione della logistica per le merci di passaggio dai nuovi centri di produzione globali (il progetto della TAV Torino-Lione è del tutto coerente con questa logica). Da tempo il ruolo assegnato al nostro Paese (purtroppo non contrastato ai tempi del centrosinistra di Prodi-Bersani) sembrerebbe quello di diventare il terminale di grandi interconnessioni per i flussi di petrolio e di metano dalla Turchia (progetto ITGI), dalla Algeria (progetto GALSI), dalla Russia, dall’Albania e sede di rigassificatori che ne farebbero la piattaforma di transito e di stoccaggio per l’Europa. Una politica energetica “low carbon” verrebbe così compromessa e la spinta referendaria metabolizzata dal freddo calcolo dei banchieri al Governo.
4. L’ALTERNATIVA SI PUO’ COSTRUIRE DAL BASSO
Gli Indignati, gli “Occupanti”, i manifestanti della Primavera Araba non si organizzano in forma verticale, dall’alto in basso: è in forma orizzontale, dai lati, nella immediatezza della comunicazione, che si esprime la loro alterità. Questo modo rappresenta il tempo nuovo che stiamo vivendo, con la positività della scoperta della soggettività relazionale, dell’emergenza di una coscienza di specie. Una democrazia dal basso, si usa ripetere, trasparente nei suoi procedimenti e non più corrotta, caratterizzata per il suo collegare la giustizia sociale con la giustizia ecologica.
I potenti del mondo non sono affatto su questa lunghezza d’onda. Ma incominciano a sintonizzarsi le autonomie locali più aperte e avvedute, che costruiscono coi cittadini, le associazioni ed i movimenti riassetti territoriali e piani regolatori partecipati, sistemi di mobilità sostenibile, progetti energetici innovativi per le loro città o i loro comuni. Il patto dei Sindaci, previsto dalla Ue per i piani di azione per l’energia sostenibile (PAES), dispone direttamente fondi e sostegni alle comunità che in modo condiviso rendono virtuose le loro abitazioni, i loro stili di vita, l’approvvigionamento dalle fonti rinnovabili. Sulla scorta di queste pratiche ormai diffuse, perché non avanzare in sede Ue una richiesta per ottenere dalla Bce 300 – 400 miliardi di euro (in fondo ne sono stati elargiti assai di più al sistema bancario) ad un interesse dello 0.50%, da affidare agli enti locali per promuovere dal basso una rivoluzione verde, prima che le grandi concentrazioni e le multinazionali dell’acqua e dell’energia si impossessino anche del decentramento promosso dal ricorso alle fonti naturali? Se il cambio di paradigma non diventa diffuso e radicale, si accetta una impossibile coesistenza tra il sistema delle rinnovabili e quello dei fossili, tra loro incompatibili.
In effetti, l’incompatibilità è tra un approccio al debito pubblico che accetta la dittatura dei mercati e la preoccupazione del debito ecologico, che si viene accumulando sulla scia di scelte mai rimesse in discussione. La stessa proposta che gira in questi mesi sulle scrivanie di sindaci di grandi città, di creare una grande “multiutility del nord” si inserisce nel quadro desolante della coazione a ripetere. Ripercorre la strada dei fallimenti testimoniati dai bilanci in debito di A2A, Iren, Hera, rimanda all’idea di vendere servizi essenziali per coprire buchi di bilancio, puntando a superare i debiti delle aziende attraverso economie di scala.
Ma, al di là di questo aspetto già di per sé preoccupante, si tratterebbe di un’operazione che taglierebbe fuori le città interessate dalla rivoluzione più profonda a disposizione sul terreno della riprogettazione urbanistica, della ristrutturazione e della riduzione del traffico, dell’approvvigionamento di risorse dal territorio. Con un rinnovato e insostituibile ruolo delle municipalizzate pubbliche, da avvicinare ancora di più al territorio anziché lanciare in avventure finanziarie che espropriano i consigli comunali dei loro poteri e allontanano le decisioni dal controllo democratico.
In definitiva, servirebbe superare anche nei fatti una inspiegabile e profonda passività sociale. Se oggi si continua a parlare a sproposito di riforme, ricominciamo da quelle vere, che rappresentano la via d’uscita dalla crisi economica, sociale e culturale in cui ci stiamo dissolvendo come in un acido corrosivo. Altrimenti non ci salveranno né i manifestanti di Wall Street né i camionisti della Sicilia.
MARIO AGOSTINELLI
(Fonte: democrazia km0)
1. PREMESSA
Come afferma nel suo ultimo libro Hermann Scheer “la conversione alle rinnovabili, la riduzione dei consumi energetici e la conseguente riorganizzazione della società sono importanti per la storia della civiltà”. Il cammino sembra intrapreso: una manifesta spinta dal basso ha portato già nel 2011 all’installazione sul pianeta di una potenza elettrica da fonti naturali superiore a quella fornita da nuovi impianti fossili e quello del nostro paese è risultato addirittura il primo mercato al mondo per il fotovoltaico.
Ma, nonostante una lenta maturazione di movimenti in ogni continente – fino allo strepitoso successo del referendum antinucleare a livello nazionale – non si può certo affermare che il cambio di paradigma energetico, reclamato a gran voce dagli scienziati più autorevoli e assurto a pieno titolo a priorità nell’attenzione dell’opinione pubblica, sia all’ordine del giorno della politica e rivesta l’urgenza reclamata dagli scenari climatici previsti e puntualmente confermati. Anzi, le leadership mondiali nei loro frequenti incontri si preoccupano di fissare insuperabili scadenze e maniacali road map pluriennali lungo le quali abbattere i diritti del lavoro e lo stato sociale. O decidono in summit urgenti le date ravvicinate per spostare enormi risorse a salvataggio del sistema finanziario. Tuttavia, non trovano accordo alcuno sui tempi e i provvedimenti per limitare il riscaldamento terrestre e salvare la terra.
Credo si misuri qui la più drammatica divaricazione tra politica, economia e società: Nonostante sprazi e segnali confortanti (Occupy Wall Street è giunto fino a Milano!), sembrerebbe che la crisi mondiale e la gestione della recessione in corso siano riusciti a colpire in modo particolare la speranza di “un mondo diverso possibile” e che i movimenti anche più attenti manifestino difficoltà sia a prendere voce, sia a ricomporre un discorso organico di alternativa, rimanendo frammentati per temi, confinati in spazi territoriali separati e stentando perfino a disegnare un quadro complessivamente più efficace sul terreno dei beni comuni. Una difficoltà poco riconosciuta, ma evidenziata da una realtà in cui la distanza anche negli obiettivi rivendicativi tra “acqua, terra, vento e fuoco” rimane nella pratica incolmabile.
Proprio perché è di aspetti di oggettiva debolezza che occorre trattare, provo a prendere di seguito in considerazione tre domande con cui facciamo fatica a cimentarci e da cui provengono, a mio parere, alcuni dei nostri insuccessi; proverò successivamente a ragionare su tre equivoci di fondo, la cui permanenza consente al sistema attuale di produrre una cosciente resistenza al cambiamento. In conclusione accennerò ad una struttura propositiva che reinserisca a pieno titolo la battaglia per l’energia nel contesto potenzialmente assai fertile dei beni comuni, inseparabile dalla buona politica.
2. LE DOMANDE
A) SOPRAVVIVE ALLA CRISI UN IMMAGINARIO COLLETTIVO ALTERNATIVO?
Fino al 2008 – l’inizio di una crisi che si avvita in maniera sempre più inestricabile – percepivamo le “fratture” che andavano caratterizzando un’epoca in cui le trasformazioni sono spesso più profonde delle nostre radici politico-culturali, come centri e luoghi di un conflitto che avrebbe aperto le porte al cambiamento e per la cui gestione occorreva un salto di partecipazione, una lotta di controinformazione, l’esplicita messa in crisi del sistema di rappresentanza ormai ridotto ad apparati autoreferenziali. Ci sembrava cioè, che l’efferatezza del capitalismo industriale globale e l’anonimia della finanziarizzazione, con il loro portato di spreco di lavoro e natura, si sarebbero scontrati con l’irriducibilità della vita, l’autonomia delle persone, la dignità del lavoro, la sopravvivenza della specie, rilanciando il ruolo della politica. Sarebbe bastato che i conflitti assumessero una configurazione omogenea dentro gli spazi e i tempi della globalizzazione liberista e il profilo della civiltà avrebbe assunto il corso progressista e cosmopolita della convergenza delle diversità, della non violenza, della democratizzazione dei poteri, di un socialismo del XXI secolo in formazione. Avevamo addirittura sintetizzato in parole chiave la trasformazione e individuato i processi che avrebbero dato vita ad un nuovo immaginario per “un mondo diverso e possibile”.
Non chiacchiere, ma movimenti reali in cammino su pace, multiculturalità, cittadinanza universale, sovranità attiva; beni comuni, naturali e sociali, materiali e culturali, mantenimento della biosfera, clima, “ben vivere”, rinnovabilità, giusta misura; riconversione produttiva e senso del lavoro , saperi, giustizia sociale e futuro equo, riappropriazione e dono del tempo; valore territoriale, approccio locale, reti corte, neo agricoltura, rigenerazione di città e spazi aperti, consumo di suolo; rappresentanza democratica e legalità, autogoverno, informazione, comunicazione, etica, convivialità.
In un seminario a Verona nel 2009 un gruppo di intellettuali e di rappresentanti di movimenti aveva prodotto una sintesi ulteriore: “A fronte dell’attuale crisi di civiltà, il territorio è un superluogo; la riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso; l’abbandono della crescita costituisce la direzione univoca verso cui procedere; la ricostruzione della rappresentanza il nodo politico da risolvere”.
C’era, insomma, una cassetta degli attrezzi in approntamento e la certezza di produrre un’idea di futuro che viveva l’inizio della crisi come una opportunità. Mi sembra di dover affermare pessimisticamente che, almeno in Europa, il discrimine posto dal “risanamento del debito” ad opera della “troika” è riuscito, almeno a breve, a bloccare quella costruzione in atto ed ha ribaltato il giudizio inappellabile delle nuove generazioni sul liberismo e sui disvalori del sistema capitalista (voi l’1%, noi il 99%) in una recriminazione nei confronti delle conquiste, e dei diritti – giudicati eccessivi e pregiudizievoli per una estensione ai giovani – che gli strati popolari avevano tradotto in potere in base alle Costituzioni di democrazia sociale nate nel dopoguerra.
In questa operazione di rovesciamento che non abbiamo saputo combattere con successo, si è distinto lo stesso presidente Napolitano, a cui va sì riconosciuto il merito di una straordinaria tenuta contro il degrado delle istituzioni, ma anche attribuita la responsabilità di aver appiattito sulla conservazione del sistema la risposta alla degenerazione del berlusconismo. Lo sforzo nazionale, da un semestre ad oggi, si è concentrato sul presupposto del superamento della crisi con il vecchio modello rimesso in carreggiata, secondo il tradizionale approccio dei due tempi e la convinzione che il male minore fosse l’orizzonte massimo a cui potessimo accedere. Si è così messa fuori gioco la rappresentanza del sindacato (dove sta scritto che il capo dello stato ha il potere di intimare “alle parti sociali di far prevalere interessi diversi da quelli sociali” che rappresentano?) e non è stata valorizzata adeguatamente la funzione democratica e autonoma del mondo del lavoro. Il caso italiano, con il passaggio, sostenuto dalla maggioranza parlamentare e suggellato dai governi moderati dell’Ue, da democrazia sociale avanzata a democrazia regressiva (modifica di fatto dell’art. 81 e 41 della Costituzione e dello Statuto dei Lavoratori) illustra bene come possa ridursi un immaginario collettivo in formazione alla opposizione velleitaria di una minoranza attiva. Niente stupore quindi, se a distanza di pochi mesi dal voto di 27 milioni può partire un attacco robusto alle energie rinnovabili e si progetta per il nostro Paese il ruolo di “hub del gas per l’Europa”
B) BENI COMUNI: BASTA LA PAROLA?
Non tutto è riconducibile alla categoria dei beni comuni. Ma, nelle difficoltà del passaggio di fase attuale, a questo concetto si sono affidate aspettative a volte eccessive, quasi fossero un campo sconfinato. Quando ci si imbatte con beni e valori che non possono essere ridotti a merce e perciò privatizzati e consumati al ritmo imposto dalle leggi del mercato, si arriva al nodo costituito dal rapporto conflittuale tra individui possessivi e i beni che escludono il possesso individuale. Niente di più attuale, vista la fase che attraversiamo.
Proprio i beni comuni – che sono tali perché essenziali e insostituibili per la vita e la riproduzione, a cominciare dall’Acqua e dal Sole – sono oggetto di appropriazione e di uso al servizio del capitale, che si presenta con le forme meno arcigne di una “Green Economy” cui si vanno convertendo le stesse multinazionali.
Bisogna però, a mio parere, approfondire una strategia prima di allargarne a dismisura il campo di applicazione. Non basta proclamare una politica generica e onnicomprensiva dei beni comuni, coniugandola poi in parte solo per l’acqua, senza andare più a fondo dell’approccio complessivo alla natura – e quindi al lavoro e alla vita intera – che il capitale impone, esulando dai suoi confini tradizionali della geopolitica e invadendo quelli della biosfera. E’ inevitabile, al punto in cui siamo, integrare autentiche piattaforme rivendicative – a livello locale, nazionale ed europeo – sulle risorse e i consumi energetici, sulla disponibilità e sulla destinazione della risorsa acqua, sulla salubrità dell’aria, sul consumo e sulla fertilità della terra, facendone il tratto conduttore di un programma sociale e politico che si alimenta di democrazia diretta e rinnova la democrazia delegata.
Continuo a rimanere deluso di una organizzazione post-referendum in cui i singoli movimenti permangono organizzati come se dovessero procedere “confederati”.
Il rapporto energia-acqua-cibo-territorio dovrebbe essere così pensato nella sua complessità e indissolubilità e nell’ambito innanzitutto dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione locale, e poi su su con concretezza, fino a contrastare la requisizione ad opera di un mercato che si organizza su scala continentale e mondiale.
Dal punto di vista di queste note il risparmio energetico e le fonti rinnovabili non sono un tema a se stante, ma rappresentano un contributo per realizzare una organizzazione democratica della società ecosostenibile, ossia una società che soddisfa i propri bisogni senza alterare i complessi meccanismi che reggono il clima, che non preleva dalla natura più risorse di quanto essa possa rigenerare nel tempo, che non spreca e distrugge il territorio nella sua componente sociale e naturale. Già un programma così ampio costituisce un coerente punto di riferimento: se invece si volesse far confluire tutto l’antagonismo sotto il “cappello” dei beni comuni, anziché porlo in adeguata relazione ad essi, si compirebbe un’accelerazione a discapito di una maturazione che deve prescindere dalle appartenenze.
C) GLOBALIZZAZIONE E CLIMA: SONO COMPATIBILI?
Il riscaldamento globale non è più una minaccia filosofica né una minaccia per il futuro. È la realtà in cui viviamo, che richiede, in assenza di una governance mondiale, una risposta immediata a livello di comunità locali interconnesse, più capaci di resistere agli scossoni nelle infrastrutture ed alle interruzioni dei flussi. Non tutto si riduce solo allo stampo liberista della globalizzazione: sono l’annullamento delle specificità territoriali e culturali dovuto al consumismo, la distruzione della biodiversità connaturata alla crescita, l’affanno competitivo del sistema d’impresa, che mettono a rischio la nostra civiltà. Comincio a pensare che il liberismo corrisponda certamente ad una micidiale accelerazione, ma che, comunque, sia la concezione di spazio e di tempo che la cultura occidentale ha imposto al resto del pianeta a rendere irreversibile la corsa verso il disastro. Partendo da questa constatazione preoccupata e quasi prepolitica, Leonardo Boff invita a abbandonare l’era “tecnozoica” per passare a quella “ecozoica”, che considera la terra nella sua evoluzione e a cui le culture produttiviste non sono per nulla preparate.
Siamo da oltre un mese dentro al vortice di indici di borsa a picco, spread sui titoli di stato che fanno sussultare i governi, rapporti debito/Pil che preoccupano, un frullatore di notizie da cui usciremo più confusi di prima e forse più poveri. I Governi più pragmatici cercano dei rimedi, quelli arruffoni rischiano di trascinare nel baratro un paese. Gli uni e gli altri però non ci dicono chi è il vero “mandante” di tutto questo e ci assicurano che se ne uscirà. Così si distoglie l’opinione pubblica dalla ricerca delle soluzioni necessarie per affrontare i più concreti e urgenti bisogni e per preparare la società alle future sfide economiche, sociali e alla scarsità delle risorse: in una parola sola, al rischio della povertà diffusa. Questa non sembra certo una visione peregrina, se si pensa a come in tutte le società industrializzate la ricchezza si stia ormai concentrando in pochissime mani e a quanto la classe media tenda ad evaporare e l’indigenza a crescere.
Ci dobbiamo preoccupare di aspetti chiave del prossimo futuro: occupazione, cibo, sanità, abitazioni, sicurezza, educazione, trasporti, coesione sociale, comunicazione e cultura, assetto dei trasporti e dell’edilizia, picco del petrolio. E come potremmo reperire risorse a tal fine, se il modello energivoro e il cambiamento climatico assorbiranno la maggior parte della ricchezza resa disponibile dall’attività umana organizzata su scala globale come risulta oggi? Bisogna rivendicare i “beni comuni” non separati dai servizi e il sociale non subalterno al sistema dell’economia capitalistica e d’impresa, lottando per mantenere un controllo sociale e statale sull’impresa privata (l’art.18!) e sulle finalità della produzione.
Oggi siamo ben lontani dall’obiettivo. Alcuni ricercatori dell’Università di Losanna hanno svolto una ricerca su 43.000 imprese transnazionali ed hanno concluso che, meno del 1% delle compagnie controlla il 40% dell’interscambio mondiale. In queste “corporation” i settori dell’acqua e dell’energia, con le banche e le assicurazioni correlate, hanno un peso rilevantissimo. Come il mondo ha potuto constatare durante la crisi del 2008, queste reti sono molto instabili: basta che un nodo abbia un problema serio perchè questo si propaghi automaticamente a tutta la rete, trascinando con sè l’economia mondiale come un tutto. Il cambiamento climatico è considerato il fattore di maggior instabilità nel prossimo futuro. Riancorare al territorio, alle popolazioni e al lavoro l’economia, articolandone le forme e sottoponendola al controllo democratico, è diventata una necessità improrogabile.
3. LA RESISTENZA AL CAMBIAMENTO
A) INDIVIDUI E MEDIA SCETTICI SUL MUTAMENTO EPOCALE
Dovremmo chiederci perchè si faccia fatica a capire il pericolo del cambiamento climatico ed ancora di più a definire priorità nell’azione conseguente a bloccarne gli effetti. Il problema dei cambiamenti climatici si è rivelato negli anni particolarmente difficile da affrontare per molteplici fattori. I tentativi di risoluzione attraverso trattati internazionali sulle emissioni sono risultati finora inefficaci, e non sono riusciti ad arrivare all’individuo, ad abbattere i dubbi, a realizzare un cambiamento comportamentale. L’urgenza di porre rimedio a una situazione che si avvia ad essere irreparabile, si scontra con una diffusa inerzia da parte delle persone, che parzialmente deriva dall’idea che il problema debba essere risolto “dall’alto”: l’azione individuale inoltre viene percepita come inefficace al cospetto delle urgenze poste dalla crisi economica. Questo è un prodotto dell’esasperato individualismo dei nostri tempi e del mancato richiamo che la politica avrebbe dovuto esercitare, venendo meno anche ai suoi compiti etico- educativi.
Tuttavia, i dati mostrano che, ad esempio, le emissioni pro-capite legati ai consumi residenziali hanno un peso notevole nel bilancio complessivo della produzione di CO2. L’azione individuale avrebbe quindi un’enorme potenzialità nel modificare il drammatico scenario climatico. Ma cercare nelle azioni delle persone una consequenzialità razionale –afferma il sito di “climalteranti.it” – significa fraintendere alcuni aspetti fondamentali dell’agire umano, che è per definizione difficile da prevedere e non segue sempre una concatenazione di ragionamenti facilmente rintracciabile. Si dimostra quindi fondamentale cercare di risalire agli snodi del processo decisionale in cui si inseriscono determinati fattori problematici che fanno perdere di vista agli esseri umani non solo ciò che rappresenta un bene per l’ambiente naturale, ma anche per loro stessi in quanto creature che in tale ambiente vivono.
Gli individui si smarriscono, in qualche modo, nella serie di concatenazioni causali che portano al riscaldamento globale. Un altro punto problematico riguarda la distanza temporale che intercorre tra la causa e il verificarsi dell’effetto: l’impatto sull’ambiente di determinati comportamenti avviene in un lasso di tempo così dilatato che il legame causa-effetto si assottiglia progressivamente, sino a non essere più visibile. Inoltre, la causa e l’effetto si trovano su due dimensioni diverse, ovvero, da una parte c’è il soggetto che agisce a livello personale, mentre gli effetti delle sue azioni, oltre a essere lontani nel tempo, concorrono su una dimensione globale, non riguardano cioè lui in prima persona.
I media potrebbero avere un ruolo determinante nell’indurre comportamenti responsabili verso le future generazioni, ma finora non hanno corrisposto “alla bisogna”. Alcuni studenti della Scuola Superiore di Comunicazione di Trieste hanno esaminato come i quattro principali quotidiani nazionali (Repubblica, Corriere della Sera, Sole 24 Ore e Stampa) e la blogosfera hanno seguito la conferenza di Durban, un passaggio fondamentale per capire com’è affrontato il problema dei cambiamenti climatici e quale sia l’impressione che viene trasmessa all’opinione pubblica. La ricerca ha rilevato un ruolo decisivo sull’indirizzo dell’informazione dovuto alla posizione ideologica della testata a cui i singoli corrispondenti inviavano i resoconti. Al punto da non pubblicare alcuni pezzi su argomenti ritenuti scomodi o da offrire agli editorialisti più autorevoli rimasti in redazione il compito di correggere le notizie più scomode inviate dall’altro emisfero.
Ad un esame consuntivo Il Sole 24 Ore esprime uno scetticismo di fondo riguardo alla possibilità di invertire a favore del collasso ambientale le priorità assegnate alle questioni finanziarie; Repubblica, invece, in questa fase di appoggio al governo tecnico, preferisce dedicarsi agli aspetti di politica interna della vicenda, come risulta dalle numerose interviste al ministro Clini. La Stampa risulta la testata che dedica maggiore attenzione al summit, cercando di segnalare possibili progressi. Nel Corriere si verifica un vero e proprio corto circuito: il fallimento del vertice viene dichiarato prima della sua effettiva conclusione, mentre la posizione demolitoria nei confronti delle richieste degli scienziati dell’Onu, assunta con un editoriale di Battista nel giorno della conclusione del vertice, irride alle preoccupazioni per il clima, esibendo una posizione che potremmo definire negazionista. Al contrario, se si confronta il trattamento della notizia da parte dei blogger e dei commenti sui forum, la comunità che anima la rete digitale è sembrata attentissima alle questioni discusse a Durban, approfondendone ogni dettaglio in maniera rigorosa e informata. Se si vuole, siamo di fronte ad un ulteriore segnale di supplenza della società civile a fronte dello scarso interesse dell’apparato “ufficiale”.
B) L’EQUIVOCO DELLA GREEN ECONOMY
Ad ogni iniziativa pubblica, gli esecutivi in carica non hanno mai mancato di sottolineare la necessità di una transizione ad un nuovo sistema energetico, che richiederebbe una politica industriale “virtuosa” in grado di intervenire sulla crisi in corso. Ma quale è la politica energetica effettiva che sottostà a questa considerazione condivisa da più parti? E come si concilia il cambiamento necessario proclamato a voce con la difesa strenua dell’esistente agita nei fatti?
Per quanto ci riguarda il problema della transizione ha un connotato molto preciso: il ricorso alle fonti rinnovabili manterrebbe il quadro di crisi energetica, ambientale, democratica e sociale a cui ci hanno condotto le fonti tradizionali o ci fornirebbe una occasione di cambio autentico di paradigma, non per via tecnica, ma per via politica? La risposta è si, come risultato di un processo conflittuale e di presa di coscienza orientato alla giustizia sociale ed a superare le distorsioni dell’attuale modello di produzione e di consumo. Un processo che non si fa illusioni sulle difficoltà da affrontare, sulla destinazione critica delle risorse, sullo sviluppo e sul declino di professionalità, conoscenze e settori da riconvertire profondamente.
Per l’utilizzazione diretta dell’energia solare c’è un elevata richiesta di materia e questo aspetto va considerato con grande attenzione. Il difetto principale dell’energia solare è la bassa intensità con cui raggiunge la terra e la difficoltà di qualsiasi possibilità di autoconservazione: con le energie rinnovabili non saremmo in grado di mantenere la corrispondente struttura materiale e, necessariamente, la specie umana, se non alla condizione di una grande riduzione dei consumi. Ma non basta: mentre l’uomo nel caso di carbone e petrolio possedeva il controllo degli stock fossili, non è invece in grado di determinare quello dei flussi solari e non può disporre che del flusso presente. Quindi, deve riorganizzare i propri tempi ed i propri spazi sulla base del suo rapporto con la biosfera, riportando l’economia di una scala globale – che ha ridotto per via capitalistica, ma anche grazie alla disponibilità dei fossili, le persone a quantità e i lavoratori a merci – ad una scala inferiore e ponendo prima di tutto attenzione alla valorizzazione della dimensione locale, con il suo portato di risorse naturali, specificità territoriali, conoscenze e capacità di creare valore sociale all’interno dello stesso gioco economico. Nel contempo, preservando, mantenendo e sottraendo al mercato i beni comuni e in particolare proprio l’acqua e l’energia.
Se questo diventa il contesto di riferimento, il rilancio di una “economia verde” in chiave puramente imitativa di quella attuale, non corrisponde affatto al traguardo che si vuole raggiungere. Anzi, così come è stata impostata finora, la green economy è diventata un greenwashing di quella tradizionale. Qui prendo a riferimento un’analisi molto incisiva svolta da Claudia Bettiol. Le energie rinnovabili sono ancora in una fase transitoria e non tutte hanno raggiunto una maturità tecnologica tale da poterle considerare come totalmente sostitutive dei sistemi attuali. Senonchè, per favorire gli investimenti privati in ricerca e sviluppo (finanziate in maniera risibile dagli stati nazionali e dalle grandi compagnie energetiche), si è privilegiata l’installazione di grandi impianti rinnovabili utilizzando la stessa logica distributiva dell’energia tradizionale. Anche tutti i meccanismi di incentivo alla produzione sono stati messi a punto utilizzando meccanismi finanziari legati alle tradizionali logiche delle borse. La green economy, a questo punto, è soltanto il rilancio dell’economia tradizionale, ma con prodotti ecologici.
Diverso è il caso se giudichiamo la green economy da una prospettiva coerente con quanto finora affermato. Intanto, non ha senso separare il concetto di energia rinnovabile da quello di efficienza energetica. Infatti non si può pensare di produrre energia da impianti a bassa densità energetica (ad esempio il fotovoltaico) e immetterla in vecchie linee di distribuzione monodirezionali che la dissipano. Unendo i due concetti (energia rinnovabile ed efficienza energetica), invece, si tenderebbe a realizzare piccoli sistemi indipendenti in cui l’energia viene prodotta, utilizzata, recuperata e ancora utilizzata. Ma per realizzare questa distribuzione occorre elaborare nuovi concetti industriali legati ad una conoscenza diffusa (università e aggiornamento professionale dei lavoratori), alle politiche industriali (industrie manifatturiere legate alle piccole taglie e alla installazione e gestione di questi piccoli sistemi energetici), alla fiscalità (oggi le maggiori entrate nei bilanci di una nazione provengono dal petrolio e dalle automobili).
Come si può constatare, quindi, la green economy non è il finanziamento agevolato di alcune tecnologie a basso impatto ambientale, ma è una visione globale. Una visione che riporta la politica al centro del dibattito. Una politica con basi diverse e che la Bettiol definisce “green politicy”. Una politica che l’attuale governo proprio non persegue, dato che, con il paravento del debito pubblico, scarica sul debito naturale l’imprevidenza di un modello di sviluppo ormai inadeguato.
C) LA POLITICA DEI “TECNICI”
L’intervento di Corrado Passera a fine marzo rappresenta uno dei primi segnali della volontà del governo di affrontare la tematica energetica nella sua complessità. Il Ministro ha annesso grande importanza, come è giusto, all’efficienza energetica. Su questo fronte occorrerà una seria riflessione perché i risultati, specie in questa fase, potranno essere molto rilevanti. Passera si è detto molto preoccupato per il peso sulle bollette delle fonti rinnovabili. Timore comprensibile, in particolare per il fotovoltaico sfuggito di controllo in un periodo in cui mancava addirittura il ministro allo Sviluppo Economico.
Ma riflettiamo un attimo. Intanto, l’impatto dell’energia solare sulla formazione dei prezzi toglierà 1 miliardo alle bollette. Vanno poi conteggiate le riduzioni delle importazioni di gas grazie al boom dell’elettricità verde (3 miliardi di metri cubi in meno nel periodo 2008-11 e 7 miliardi di CO2 non emessa, con un risparmio per il Paese di 1,5 miliardi di euro). Inoltre, i costi del Cip6, già calati dai 3,6 miliardi del 2006 a 1,2 miliardi, continueranno a ridursi. Un altro paio di miliardi verranno, infine, tolti dalle bollette grazie alla liberalizzazione del mercato del gas. Come si vede, il fardello delle rinnovabili risulterà più che dimezzato. E diventerà ancor più leggero considerando tutte le entrate per lo Stato in termini di Iva e di tasse pagate dalle migliaia di aziende che sono sorte.
Ma l’aspetto più rilevante non sta nella sottolineatura, ovvia, sull’efficienza e nemmeno sulla tiepidezza, scontata, sulle rinnovabili: viene qui lanciata la proposta di raddoppiare la produzione nazionale di idrocarburi. Questa propensione a fare dell’Italia l’hub del gas in Europa e a mantenere il sistema dei trasporti inalterato, può venire dal fatto che in una situazione di esposizione dl bilancio pubblico si perderebbero le tasse sui prodotti petroliferi (si calcola che per ogni centesimo di euro di aumento del carburante, lo Stato incassi in un anno 400 milioni di euro) e sull’inquinamento da combustione di carbone (accise, prelievi fiscali fissi, carbon tax , gabelle varie) e che gli enormi guadagni dei petrolieri e di Eni ed Enel verrebbero ridimensionati.
Ma il rischio vero è sul lungo termine ed è quello che, purtroppo, i “tecnici”al governo condividono una vocazione che il mondo finanziario ha sempre riservato al nostro paese nella divisione internazionale della produzione e del lavoro: diventare , con il sostegno del fondo per la sicurezza energetica messo a disposizione dalla Ue, il punto di transito di gas e petrolio e di concentrazione della logistica per le merci di passaggio dai nuovi centri di produzione globali (il progetto della TAV Torino-Lione è del tutto coerente con questa logica). Da tempo il ruolo assegnato al nostro Paese (purtroppo non contrastato ai tempi del centrosinistra di Prodi-Bersani) sembrerebbe quello di diventare il terminale di grandi interconnessioni per i flussi di petrolio e di metano dalla Turchia (progetto ITGI), dalla Algeria (progetto GALSI), dalla Russia, dall’Albania e sede di rigassificatori che ne farebbero la piattaforma di transito e di stoccaggio per l’Europa. Una politica energetica “low carbon” verrebbe così compromessa e la spinta referendaria metabolizzata dal freddo calcolo dei banchieri al Governo.
4. L’ALTERNATIVA SI PUO’ COSTRUIRE DAL BASSO
Gli Indignati, gli “Occupanti”, i manifestanti della Primavera Araba non si organizzano in forma verticale, dall’alto in basso: è in forma orizzontale, dai lati, nella immediatezza della comunicazione, che si esprime la loro alterità. Questo modo rappresenta il tempo nuovo che stiamo vivendo, con la positività della scoperta della soggettività relazionale, dell’emergenza di una coscienza di specie. Una democrazia dal basso, si usa ripetere, trasparente nei suoi procedimenti e non più corrotta, caratterizzata per il suo collegare la giustizia sociale con la giustizia ecologica.
I potenti del mondo non sono affatto su questa lunghezza d’onda. Ma incominciano a sintonizzarsi le autonomie locali più aperte e avvedute, che costruiscono coi cittadini, le associazioni ed i movimenti riassetti territoriali e piani regolatori partecipati, sistemi di mobilità sostenibile, progetti energetici innovativi per le loro città o i loro comuni. Il patto dei Sindaci, previsto dalla Ue per i piani di azione per l’energia sostenibile (PAES), dispone direttamente fondi e sostegni alle comunità che in modo condiviso rendono virtuose le loro abitazioni, i loro stili di vita, l’approvvigionamento dalle fonti rinnovabili. Sulla scorta di queste pratiche ormai diffuse, perché non avanzare in sede Ue una richiesta per ottenere dalla Bce 300 – 400 miliardi di euro (in fondo ne sono stati elargiti assai di più al sistema bancario) ad un interesse dello 0.50%, da affidare agli enti locali per promuovere dal basso una rivoluzione verde, prima che le grandi concentrazioni e le multinazionali dell’acqua e dell’energia si impossessino anche del decentramento promosso dal ricorso alle fonti naturali? Se il cambio di paradigma non diventa diffuso e radicale, si accetta una impossibile coesistenza tra il sistema delle rinnovabili e quello dei fossili, tra loro incompatibili.
In effetti, l’incompatibilità è tra un approccio al debito pubblico che accetta la dittatura dei mercati e la preoccupazione del debito ecologico, che si viene accumulando sulla scia di scelte mai rimesse in discussione. La stessa proposta che gira in questi mesi sulle scrivanie di sindaci di grandi città, di creare una grande “multiutility del nord” si inserisce nel quadro desolante della coazione a ripetere. Ripercorre la strada dei fallimenti testimoniati dai bilanci in debito di A2A, Iren, Hera, rimanda all’idea di vendere servizi essenziali per coprire buchi di bilancio, puntando a superare i debiti delle aziende attraverso economie di scala.
Ma, al di là di questo aspetto già di per sé preoccupante, si tratterebbe di un’operazione che taglierebbe fuori le città interessate dalla rivoluzione più profonda a disposizione sul terreno della riprogettazione urbanistica, della ristrutturazione e della riduzione del traffico, dell’approvvigionamento di risorse dal territorio. Con un rinnovato e insostituibile ruolo delle municipalizzate pubbliche, da avvicinare ancora di più al territorio anziché lanciare in avventure finanziarie che espropriano i consigli comunali dei loro poteri e allontanano le decisioni dal controllo democratico.
In definitiva, servirebbe superare anche nei fatti una inspiegabile e profonda passività sociale. Se oggi si continua a parlare a sproposito di riforme, ricominciamo da quelle vere, che rappresentano la via d’uscita dalla crisi economica, sociale e culturale in cui ci stiamo dissolvendo come in un acido corrosivo. Altrimenti non ci salveranno né i manifestanti di Wall Street né i camionisti della Sicilia.
MARIO AGOSTINELLI
(Fonte: democrazia km0)